Condannato in via definitiva per usura, occulta i beni confiscati. Il Fisco lo insegue (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 11 dicembre 2020, n. 35547).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IASILLO Adriano – Presidente

Dott. CIAMPI Francesco Maria – Consigliere

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere

Dott. APRILE Stefano – Rel. Consigliere

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

BRUGNONI LANFRANCO nato a xxxxxxx il xx/xx/19xx;

avverso l’ordinanza del 06/11/2019 della CORTE d’APPELLO di PERUGIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Stefano APRILE;

lette le conclusioni del PG, nella persona del Dott. Fulvio BALDI che ha concluso per il rigetto del ricorso;

dato avviso al difensore.

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d’appello di Perugia, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha respinto l’opposizione presentata a norma dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. da Lanfranco BRUGNONI avverso l’ordinanza di confisca di un immobile emessa in data 2/11/2018 a norma dell’art. 240-bis cod. pen. (già art. 12-sexies, comma 1, decreto-legge n. 306/1992, convertito in legge n. 356/1992), in relazione alla condanna inflitta dalla Corte d’appello di Perugia con sentenza del 16/1/2015, divenuta definitiva il 17/10/2015, per i delitti di usura continuata commessi dal 1994 al giugno 2000.

2. Ricorre Lanfranco BRUGNONI, a mezzo del difensore avv. Claudio Rotunno, che chiede l’annullamento del provvedimento impugnato, denunciando:

– la violazione della legge processuale e il vizio della motivazione con riguardo alla preclusione derivante dal giudicato relativo al procedimento di prevenzione conclusosi con decreto del Tribunale di Perugia del 10 dicembre 2006 che aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura di prevenzione, non solo per mancanza di attualità della pericolosità sociale, ma anche per insussistenza di cespiti confiscabili in quanto per la quasi totalità alienati nell’ambito di procedure esecutive (primo motivo);

– la violazione della legge, anche processuale, e il vizio della motivazione con riguardo all’utilizzo di un supporto informativo estraneo a quello formatosi nella sentenza divenuta irrevocabile, essendosi illegittimamente fatto uso di atti successivi e, in particolare, delle informative della Guardia di Finanza e della ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia relativa alle misure alternative al servizio sociale (secondo motivo);

– la violazione di legge e il vizio della motivazione con riguardo alla sproporzione tra i redditi e i beni e alla connessione temporale tra la data del commesso reato e l’epoca di acquisto degli immobili.

Si pone in evidenza che il ricorrente non dispone affatto dell’intero cespite immobiliare confiscato, ma si limita a utilizzare un appartamento che costituisce una piccola porzione di esso.

Del resto, i beni del ricorrente sono stati tutti espropriati ovvero legittimamente ceduti a terzi senza atti simulati.

Non sussiste alcuna sproporzione rispetto all’attività economica svolta dal ricorrente e dal coniuge, essendo stati trascurati gli elementi favorevoli indicati dalla difesa relativi alla locazione commerciale attiva.

È erroneo il riferimento al 1990 come periodo limitrofo a quello di commissione del reato di usura commesso, invece, nel 1994 (terzo motivo).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato per le ragioni che saranno esposte.

1.1. Preliminarmente, è opportuno rammentare che il ricorrente è stato condannato in via definitiva per più ipotesi di usura e che dall’esame della sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Perugia, emerge come lo stesso abbia, per tali reati, percepito somme di denaro.

In conformità a tale premessa, il Pubblico ministero ha richiesto al giudice dell’esecuzione, a mente degli artt. 676, comma 1, e 667, comma 4, cod. proc. pen., l’applicazione della confisca ai sensi dell’articolo 240-bis cod. pen. (già art. 12-sexies, DL n. 306/1992); il giudice dell’esecuzione, con ordinanza emessa de plano in data 2/11/2018, ha ordinato la confisca di un immobile formalmente intestato a terzi (società EGI GREEN POWER S.R.L. a socio unico).

2. È infondato il primo motivo di ricorso che deduce la preclusione processuale.

2.1. Costituisce consolidato e condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità quello di autonomia del giudizio di prevenzione rispetto a quello penale.

Con riguardo, in particolare, ai rapporti tra confisca di prevenzione e confisca allargata, la giurisprudenza ha condivisibilmente affermato che «il rigetto della misura di prevenzione patrimoniale non ha un effetto preclusivo di un successivo procedimento per la confisca ex art. 12-sexies di. n. 306 del 1992, conv. in legge n. 356 del 1992, avente ad oggetto gli stessi beni ed in danno della stessa persona, nel quale siano dedotti fatti nuovi o siano valutati fatti non rilevanti nel giudizio di prevenzione, comportando solo l’onere di un più rigoroso obbligo motivazionale sulla sussistenza dei presupposti del provvedimento» (Sez. 1, n. 53625 del 27/10/2017, Franco, Rv. 272168).

2.2. È dunque corretta l’applicazione della legge fatta dalla Corte d’appello secondo la quale il rigetto della misura di prevenzione per difetto della pericolosità non è di ostacolo al provvedimento di confisca in sede di esecuzione ex art. 240-bis cod. pen. che non richiede tale requisito.

È pure corretta e congruamente motivata l’ordinanza impugnata nella parte in cui ha escluso la preclusione con riguardo alla individuazione del patrimonio illecito.

E’ pur vero, infatti, che, peraltro con una stringatissima motivazione, il tribunale della prevenzione aveva escluso l’esistenza nel 2006 di cespiti in capo all’odierno ricorrente, ma tale asserzione, che si basava unicamente sulle risultanze dei registri immobiliari, risulta superata in fatto dai successivi accertamenti compiuti in sede esecutiva e oggetto di contraddittorio.

In detta sede processuale, infatti, il giudice dell’esecuzione, facendo leva sulle informazioni finanziarie acquisite dalla Guardia di Finanza e sottoposte al contraddittorio con l’interessato, ha accertato che il cespite oggetto di confisca, pur formalmente intestato a terzi, è nella disponibilità del ricorrente (sul punto si tornerà esaminando il terzo motivo di ricorso), sicché la deduzione difensiva in tema di preclusione risulta infondata.

3. È inammissibile, perché estraneo al devolutum e comunque infondato, il secondo motivo di ricorso.

3.1. Come si desume dalla non contestata sintesi delle doglianze difensive riportata nel provvedimento impugnato, in sede di opposizione il ricorrente non aveva contestato la legittimità delle informazioni acquisite tramite le indagini della Guardia di Finanza e mediante l’acquisizione del provvedimento del Tribunale di sorveglianza (peraltro ampiamente noto alla difesa), già versate dal Pubblico ministero nella propria richiesta di confisca cui aveva fatto seguito l’ordinanza del giudice dell’esecuzione assunta de plano in data 2/11/2018.

Ciò impone di dichiarare inammissibile la questione posta soltanto con il ricorso, dovendosi comunque precisare che essa è manifestamente infondata perché il giudice dell’esecuzione, nel contraddittorio con le parti, può acquisire tutte le informazioni che ritiene utili ex art. 666, comma 5, cod. proc. pen.

3.2. Il ricorso non contesta che il materiale di cui si discute sia stato acquisito ed esaminato in contraddittorio, come in effetti risulta dalle memorie difensive e dalle stesse argomentazioni sviluppate dalla difesa, ma si limita a denunciare una presunta impossibilità del giudice dell’esecuzione di acquisire elementi ulteriori rispetto a quelli di cui disponeva il giudice dell’esecuzione.

Si tratta di un assunto infondato alla luce del chiaro disposto normativo e dell’interpretazione offertane dalla giurisprudenza di legittimità che, in particolare, ha chiarito come «lo svolgimento degli accertamenti nell’ambito del procedimento di esecuzione per verificare la sussistenza delle condizioni per la confisca non si pone in contrasto con alcun principio costituzionale o convenzionale atteso che in tale fase il giudice ha ampi poteri istruttori ai sensi dell’art. 666, comma 5, cod. proc. pen. assicurando il contraddittorio e il diritto di difesa, anche attraverso la nomina di un difensore di ufficio, che può essere sentito su sua richiesta» (Sez. 3, n. 1503 del 22/06/2017 dep. 2018, Di Rosa, Rv. 273535).

3.2.1. Tuttavia, la questione merita un ulteriore approfondimento poiché potrebbe dubitarsi della possibilità di procedere in sede esecutiva, senza limiti di tempo, all’applicazione della confisca sulla base di elementi che non erano stati valutati dal giudice di merito.

Si segnala da più parti che la possibilità di procedere «in ogni tempo» alla confisca in sede esecutiva, fermo restando il nesso temporale tra accumulazione e pronuncia di condanna (in questa fase non rileva la ulteriore problematica – recentemente rimessa alle Sezioni unite con ordinanza Sez. 1, n. 31209 del 18/09/2020 – se il potere di emettere la statuizione ablatoria possa essere esercitato in riferimento ai beni esistenti, e riferibili al condannato, sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna o se, invece, debba limitarsi a quelli esistenti al momento della emissione della indicata sentenza), e indipendentemente da quanto accertato dal giudice della cognizione, costituisce un grave vulnus dei principi che regolano i rapporti tra giudizio di merito e di esecuzione, nel corso del quale sarebbero possibili soltanto provvedimenti volti a individuare, nei limiti del giudicato, i beni suscettibili di confisca, nonché in quanto espone il condannato alle investigazioni patrimoniali del Pubblico ministero che potrebbero essere attivate senza alcun limite temporale e collegamento con la situazione patrimoniale accertata dal giudicato.

Si è, infatti, recentemente affermato che «la confisca prevista dall’art. 12- sexies, legge 7 agosto 1992, n. 356, (ora art. 240-bis cod. pen.) può essere disposta dal giudice dell’esecuzione solo in relazione alle disponibilità del condannato già individuate nel giudizio di cognizione, in quanto la sua estensione ai beni acquistati successivamente contrasta con i principi generali che regolano le attribuzioni di tale giudice e vanifica ogni distinzione tra la disciplina di tale tipo di confisca e quella della confisca di prevenzione» (Sez. 1, n. 22820 del 12/04/2019, PM c/ Panfili, Rv. 276192).

La richiamata decisione suggerisce, infatti, «di distinguere, nell’ipotesi in cui invece non residui il sequestro all’esito del giudizio di cognizione, un piano decisionale rispetto al quale le iniziative in materia in sede di esecuzione non sono più ammissibili, poiché estese alla consistenza del patrimonio pregresso senza limiti di tempo, ex novo, su impulso del Pubblico ministero via via competente ad avanzare le proprie richieste al giudice dell’esecuzione di volta in volta determinato ai sensi dell’art. 665 cod. proc. pen.

In questi casi, invero, non ci si muove nella sfera delle funzioni del giudice dell’esecuzione compatibili con l’integrazione di una decisione che avrebbe potuto investire presupposti già tracciati secondo le prospettazioni preesistenti, ma, come avvenuto nel caso di specie, si avviano non previste indagini patrimoniali dando impulso a iniziative meramente esplorative che non hanno una reale continuità con la cognizione, agganciandosi invece senza alcuna preclusione di carattere temporale soltanto alla qualifica del soggetto dovuta alla condanna».

La sentenza citata conclude: «La possibilità della confisca in tali ipotesi non solo contrasta con i principi generali che regolano le attribuzioni del giudice dell’esecuzione, ma anche aprirebbe la strada ad un’abnormità funzionale derivante dall’inosservanza dell’ordine normativamente assegnato allo sviluppo del rapporto processuale secondo le previsioni in materia di indagini rimesse al Pubblico ministero ai fini delle sue richieste al giudice senza possibilità di regressione alle fasi esaurite.

L’ammissione delle verifiche e dei poteri decisionali di sequestro e confisca in sede di esecuzione, dunque, va circoscritta a quelle disponibilità la cui individuazione, pur in mancanza di tutti i dati identificativi, risulti già in sede di cognizione, non potendosi spingere le indagini dopo il passaggio in giudicato ad accertamenti di carattere inedito del tutto estranei all’ambito della cognizione».

3.2.2. L’orientamento dianzi richiamato è condiviso dal Collegio, dovendosi valorizzare, a ulteriore sostegno delle richiamate conclusioni, la considerazione che, ammettendo di poter disporre la confisca in sede esecutiva senza limiti di tempo e anche al di là della piattaforma su cui si è basato il giudizio di merito, la confisca in discorso darebbe luogo a una totale confusione e sovrapposizione tra il giudizio penale e quello di prevenzione, non potendosi individuare un reale discrimine applicativo tra la confisca allargata ex art. 240-bis cod. pen. e la confisca di prevenzione di cui agli artt. 16 e segg. D.Igs. n. 159 del 2011.

Nel caso di specie, tuttavia, il ravvisato limite cognitivo, derivante dalla piattaforma su cui si è basato il giudizio di cognizione che ha portato alla condanna irrevocabile di BRUGNONI per usura, era incompleto, non già a causa dell’inerzia del Pubblico ministero e del giudice che non si sarebbero attivati per individuare i beni da sottoporre a confisca in sede di cognizione, quanto piuttosto perché l’imputato aveva architettato e posto in essere una complessa serie di operazioni, anche all’estero, per occultare e celare il proprio patrimonio (il bene confiscato risulta fittiziamente intestato alla società EGI GREEN POWER SRL, dichiarata estinta nel 2014 a seguito del trasferimento della sede negli U.S.A.).

Non si vede, del resto, perché, fermi restando i presupposti previsti per procedere all’ablazione dei beni in sede esecutiva ex art. 240-bis cod. pen., si debba premiare l’imputato che nel corso del giudizio di merito sia riuscito a occultare i propri beni, intestandoli a terzi o in altro modo schermandoli alle indagini penali.

In questo caso, il differente panorama conoscitivo di cui disponeva il giudice della cognizione non dipende, infatti, dall’inerzia dell’autorità procedente, ma piuttosto dal comportamento dell’imputato, sicché la discoperta di beni occultati nella sua disponibilità, resa possibile soltanto in sede esecutiva a seguito di indagini sviluppate sulla base di ulteriori acquisizioni informative, non costituisce una illegittima estensione della piattaforma conoscitiva posta a base della decisione di merito, ma unicamente la rimozione di un ostacolo illecitamente opposto dall’imputato alla compiuta ricostruzione del suo patrimonio.

Si consideri, infine, che l’imputato è piuttosto tenuto a dichiarare la verità all’autorità giudiziaria in merito alle proprie consistenze patrimoniali, come stabilito dall’art. 21 disp. att. cod. proc. pen., sicché il silenzio ovvero l’artificioso occultamento del patrimonio non può costituire ostacolo all’individuazione, in qualunque tempo, dei beni suscettibili di confisca.

4. Ciò premesso, è indubbia l’esistenza di un nesso tra la sentenza di condanna per i delitti di usura e il provvedimento di confisca di cui oggi si discute.

Parimenti è doveroso evidenziare che gli accertamenti di natura tributaria sui quali si fonda l’ordinanza impugnata, unitamente alle informazioni che derivano dal provvedimento della magistratura di sorveglianza, tutti elementi lecitamente acquisiti ex art. 666, comma 5, cod. proc. pen., non vengono confutati in sede di ricorso, tanto che può darsi per acquisito che il ricorrente non ha presentato alcuna dichiarazione dei redditi negli ultimi 15 anni, mentre ha palesato redditi esigui e inadeguati al sostentamento proprio e della famiglia, salvo disporre direttamente del compendio immobiliare oggetto di confisca, realizzato con redditi ingiustificati e sproporzionati.

Si noti che, sulla riferibilità al ricorrente del compendio confiscato perché di proprietà di terzi (società EGI GREEN POWER S.R.L. a socio unico), l’originaria linea difensiva, poi abbandonata in sede di legittimità, aveva anche contestato la disponibilità del compendio confiscato, così ponendo in dubbio essa stessa l’interesse ad agire del ricorrente (Sez. 2, n. 4160 del 19/12/2019 dep. /2020, Bevilacqua, Rv. 278592).

4.1. Con riguardo al nesso tra reato e bene da confiscare può essere richiamato il costante orientamento di legittimità secondo il quale «la confisca prevista dall’art. 12 sexies del D.L. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356, ha struttura e presupposti diversi da quella ordinaria, in quanto, mentre per quest’ultima assume rilievo la correlazione tra un determinato bene e un certo reato, nella prima viene in considerazione il diverso nesso che si stabilisce tra un patrimonio ingiustificato e una persona nei cui confronti sia stata pronunciata condanna o applicata la pena patteggiata per uno dei reati indicati nell’articolo citato.

Ne consegue che, ai fini del sequestro preventivo di beni confiscabili ai sensi di tale articolo, è necessario accertare, quanto al fumus commissi delicti, l’astratta configurabilità, nel fatto attribuito all’indagato, di uno dei reati in esso indicati e, quanto al periculum in mora, la presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni stessi» (Sez. 6, n. 26832 del 24/03/2015, Simeoli, Rv. 263931).

Sono inammissibili, perché generiche, le deduzioni difensive in merito alla capacità reddituale perché non si confrontano con l’ampia e accurata motivazione del provvedimento impugnato che ha riferito della completa ed esaustiva analisi economico finanziaria a fronte della quale il ricorso si limita a dedurre in modo generico la mancata considerazione di canoni di locazione attivi in un non meglio indicato periodo di tempo.

5. Va premesso che il Collegio condivide il costante orientamento di legittimità secondo il quale «in tema di sequestro preventivo di beni confiscabili a norma dell’art. 12-sexies, D.L. 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992 n. 356, dalla accertata sproporzione tra guadagni (desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte) e patrimonio scatta una presunzione (iuris tantum) di illecita accumulazione patrimoniale, che può essere superata dall’interessato sulla base di specifiche e verificate allegazioni, dalle quali si possa desumere la legittima provenienza del bene sequestrato in quanto acquistato con proventi proporzionati alla propria capacità reddituale lecita e, quindi, anche attingendo al patrimonio legittimamente accumulato» (Sez. 2, n. 29554 del 17/06/2015, Fedele, Rv. 264147).

Con riferimento alla data di acquisizione dei beni suscettibili di confisca, deve essere rammentato, con le precisazioni che saranno fra poco esposte, l’orientamento di legittimità espresso da SU Montella secondo il quale «la condanna per uno dei reati indicati nell’art. 12-sexies, commi 1 e 2, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992 n. 356 comporta la confisca dei beni nella disponibilità del condannato, allorché, da un lato, sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e il valore economico di detti beni e, dall’altro, non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi.

Di talché, essendo irrilevante il requisito della “pertinenzialità” del bene rispetto al reato per cui si è proceduto, la confisca dei singoli beni non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna o che il loro valore superi il provento del medesimo reato» (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003 dep. 2004, Montella, Rv. 226490).

5.1. Per quanto riguarda, poi, gli acquisti effettuati prima della sentenza di condanna, la giurisprudenza è incline a riconoscere l’assoggettabilità a confisca del patrimonio acquisito prima e durante il reato, con il limite della «ragionevole distanza» da esso.

In proposito, il Collegio condivide l’orientamento di legittimità secondo il quale «in tema di sequestro preventivo ai sensi dell’art. 12-sexies D.L. n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del 1992, la presunzione di illegittima acquisizione da parte dell’imputato deve essere circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, dovendosi dar conto che i beni non siano ictu oculi estranei al reato perché acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua commissione» (Sez. 1, n. 41100 del 16/04/2014, Persichella, Rv. 260529).

5.2. Fatte le sopra riportate doverose premesse, possono, finalmente, essere esaminati i motivi di ricorso che riguardano i temi in discorso.

La difesa contesta che l’ambito temporale di acquisto del compendio confiscato risale al 1990, cioè quattro anni prima della commissione del reato.

Il compendio immobiliare in questione è stato però realizzato, come il ricorso non contesta, mediante l’edificazione, a spese del ricorrente, sul terreno acquistato nel 1990.

Tale edificazione, sulla base della non contestata ricostruzione operata dal giudice dell’esecuzione, si è conclusa soltanto nel 1997, cioè durante il periodo di commissione del reato (dal 1994 al giugno 2000), sicché risultano infondate le doglianze difensive in punto di correlazione temporale.

È, altresì, emerso – in maniera non seriamente contestata – che il ricorrente ha continuato a occupare l’immobile, venendovi pure ristretto in espiazione della pena, in apparente mancanza di un valido titolo che, invece, l’ordinanza impugnata individua nella fittizia intestazione a terzi del compendio immobiliare.

Sul punto il ricorso risulta contraddittorio, là dove contesta la disponibilità del bene (pag. 11), così scivolando nella carenza di legittimazione e interesse al ricorso, e comunque generico perché si limita a ribadire l’avvenuta cessione a terzi dei beni, senza però contestare specificamente le opposte risultanze documentali sciorinate dall’ordinanza.

6. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria l’11 dicembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.