Custodia in carcere: i confini tra irreperibilità, vane ricerche e stato di latitanza (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 8 febbraio 2022, n. 4358).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAPALORCIA Grazia – Presidente

Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere

Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere

Dott. REYNAUD Gianni Filippo – Consigliere

Dott. ACETO Aldo – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MEHMETI ERMAL (ALIAS) nato il 25/10/19xx;

avverso l’ordinanza del 15/07/2021 del TRIB. LIBERTA’ di CATANIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ALDO ACETO;

lette le conclusioni del PG, Dott. GIANLUIGI PRATOLA che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Ricorso trattato ai sensi ex art. 23, comma 8 del D.L. n. 137/2020.

RITENUTO IN FATTO

1. Il sig. Mehmeti Ermal ricorre per l’annullamento dell’ordinanza del 15/07/2021 del Tribunale di Catania che ha dichiarato inammissibile, perché tardiva, la richiesta di riesame dell’ordinanza del 05/02/2015 del GIP del medesimo Tribunale che ha applicato nei suoi confronti la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere per il reato di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990.

1.1. Con il primo motivo deduce l’inosservanza degli artt. 295 e 296 cod. proc. pen. Allega, in fatto, che all’epoca di emissione dell’ordinanza cautelare era ristretto in carcere in Albania per altro procedimento penale e che vi era rimasto ininterrottamente dal 02/10/2014 al 21/06/2021, giorno dell’estradizione in Italia e di prima effettiva conoscenza del provvedimento.

Il decreto di latitanza emesso il 17/02/2015 deve considerarsi pertanto “tamquam non esset“, sia perché egli non si era mai volontariamente sottratto all’esecuzione della misura, sia perché le ricerche finalizzate al suo rintraccio non erano state evidentemente esaustive, non essendo state espletate presso il Paese di nascita.

1.2. Con il secondo motivo deduce l’inosservanza e/o l’erronea applicazione degli artt. 24, Cost., e 96, comma 2, cod. proc. pen.

La nomina del difensore di fiducia, afferma, imponeva la notifica a quest’ultimo, del decreto di latitanza e dell’ordinanza cautelare non essendo preclusa dalla notificazione al difensore a suo tempo nominato d’ufficio che non aveva proposto istanza di riesame e con il quale non aveva avuto alcun contatto.

Del resto, prosegue, il GIP, appresa la nomina fiduciaria da parte dell’estradato, aveva subito notificato al difensore l’avviso di deposito dell’ordinanza custodiale e dell’interrogatorio di garanzia regolarmente espletato il 23/06/2021.

1.3. Con il terzo motivo deduce l’inosservanza degli artt. 585, comma 3, e 309, comma 2, cod. proc. pen., osservando che, quando la decorrenza é diversa per l’imputato e il suo difensore, il termine per l’impugnazione è quello che scade per ultimo.

Nel caso di specie, il difensore di fiducia, nominato il 21/06/2021, ha tempestivamente proposto istanza di riesame il 02/07/2021.

2. Con memoria del 22/10/2021, il ricorrente ha replicato alla richiesta del PG di declaratoria di inammissibilità del ricorso ribadendo le proprie ragioni e allegando l’ordinanza del 21/10/2021 del Tribunale di Catania che, pronunciando in sede dibattimentale, ha dichiarato la nullità del decreto di latitanza e di tutti gli atti conseguenti (avviso di conclusione delle indagini preliminari e avviso di fissazione dell’udienza preliminare) e ha disposto la restituzione degli atti al PM.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Il GIP del Tribunale di Catania, con ordinanza del 05/02/2015, aveva applicato nei confronti del Mehmeti la misura coercitiva personale della custodia cautelare in carcere per il reato di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990, e relativi reati-fine (art. 73, commi 1 e 2, d.P.R. n. 309 del 1990).

Nel provvedimento genetico sono riportate le sole generalità del Mehmeti (indicato come nato in Albania il 25/10/19xx, senza l’indicazione della città di nascita), ma non il luogo di residenza/dimora/domicilio in Italia o all’estero.

2.1. A seguito del verbale di vane ricerche (dal quale risultava che non si avevano notizie di residenze ufficiali in Italia del Mehmeti), il 17/02/2015 il GIP ne aveva dichiarato lo stato di latitanza nominando un difensore d’ufficio cui il decreto era stato notificato in pari data.

Il Giudice, con decisione censurata sul punto dal ricorrente, non aveva inteso dar corso al suggerimento della polizia giudiziaria di estendere le ricerche in campo internazionale.

E’ un dato di fatto – lo riconosce lo stesso Tribunale del riesame – che alla data di adozione dell’ordinanza cautelare il ricorrente si trovava ristretto per altra causa in un carcere albanese sicché non si può affermare che si fosse volontariamente sottratto all’esecuzione dell’ordinanza.

3. Tanto premesso, i motivi poiché pongono questioni comuni, possono essere esaminati congiuntamente.

3.1. Lo stato di latitanza presuppone necessariamente la volontaria sottrazione alla custodia cautelare o ad una delle altre misure cautelari personali elencate dall’art. 296, comma 1, cod. proc. pen.

Come ricordato, in motivazione, da Sez. U, n. 18822 del 27/03/2014, Avram, «lo stato di latitanza (…) come puntualizza l’art. 296 del codice di rito, presuppone la volontaria sottrazione del soggetto alla cattura e, una volta accertato tale status, lo stesso permarrà per tutto il tempo in cui il soggetto continuerà a sottrarsi volontariamente alla cattura (..) Uno stato, quindi, che potrà cessare, oltre che per le cause indicate nell’art. 296, comma 4, cod. proc. pen. – vale a dire in virtù di quegli eventi, tipici e nominati, che incidono sulla stessa fattispecie cautelare, come la revoca o la perdita di efficacia della misura, o la estinzione del reato o della pena cui la misura stessa si riferisce – soltanto con la cattura o la costituzione spontanea, ovvero con l’arresto dell’imputato all’estero a fini estradizionali».

3.2. Ai fini della declaratoria dello stato di latitanza non è sufficiente il mancato rintraccio della persona nei cui confronti la misura è disposta essendo altresì necessario che:

a) le ricerche siano esaurienti;

b) vi siano gli elementi per ritenere che il ricercato si sia volontariamente sottratto alla misura (art. 295, comma 2, cod. proc. pen.; nel senso che la dichiarazione dello stato di latitanza non è una conseguenza automatica della redazione del verbale di vane ricerche, ma presuppone uno specifico apprezzamento di merito del giudice in ordine al carattere sufficientemente completo ed esauriente delle ricerche svolte e alla ricorrenza di una situazione di “irreperibilità volontaria” della persona ricercata (cfr. Sez. 6, n. 41762 del 15/10/2009, Rv. 245023 – 01; Sez. 6, n. 2541 del 26/11/2003, Rv. 228266 – 01; Sez. 2, n. 4802 del 24/09/1997, Rv. 209144 – 01).

3.3. Quanto alla completezza delle ricerche, la Corte di cassazione ha autorevolmente affermato il principio secondo il quale ai fini della dichiarazione di latitanza, tenuto conto delle differenze che non rendono compatibili tale condizione con quella della irreperibilità, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen. – pur dovendo essere tali da risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell’imputato e la volontaria sottrazione di quest’ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti – non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, neanche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169, comma quarto, dello stesso codice (Sez. U, n. 18822 del 27/03/2014, Avram, Rv. 258792 – 01; Sez. 6, n. 31285 del 23/03/2017, Rv. 270569 – 01; Sez. 5, n. 5583 del 28/10/2014).

E’ un principio che si basa su una logica elementare che non può non essere condivisa (e non deve essere nemmeno spiegata): la persona nei cui confronti deve essere eseguita un’ordinanza cautelare (specie se custodiale) non può essere destinataria di una raccomandata con cui la si informa della pendenza del procedimento (e dunque della misura) e la si invita a dichiarare il luogo nel quale preferisce essere arrestata.

Tanto più che le misure custodiali si eseguono con la cattura della persona sottoposta alle indagini/imputata (art. 285, comma 1, cod. proc. pen.) non con la mera notificazione dell’ordinanza.

3.4. Nel caso di specie, pur avendo la PG suggerito di estendere le ricerche in campo internazionale, non risulta (né il ricorrente lo deduce) che l’AG procedente avesse notizia del luogo di residenza o dimora all’estero del ricercato, non essendo sufficiente, nemmeno ai fini della dichiarazione di irreperibilità dell’imputato residente all’estero, la sola conoscenza dello Stato di nascita.

Le ricerche in territorio estero, infatti, sono necessarie solo se si ha notizia che la persona da ricercare risieda o dimori all’estero, non che vi è nata (art. 169 cod. proc. pen.).

3.5. L’art. 169, comma 5, cod. proc. pen., impone le notificazioni e/o le ricerche all’estero anche quando (e se) dagli atti risulti che la persona è detenuta all’estero; la circostanza della detenzione deve dunque “risultare” dagli atti, non costituire una mera ipotesi investigativa.

Nulla impedisce al giudice che non abbia notizia della detenzione estera del ricercato di dichiararne l’irreperibilità in attesa dell’esito di ricerche volte ad acquisire la notizia della detenzione stessa (nel senso che, ai fini della validità del decreto d’irreperibilità, la completezza delle ricerche va valutata con riferimento agli elementi, conosciuti o conoscibili, risultanti dagli atti al momento in cui vengono eseguite, senza che eventuali notizie successive possano avere incidenza “ex post” sulla legittimità della procedura, cfr. Sez. 3, n. 16708 del 16/02/2018, Rv. 272634 – 01; Sez. 3, n. 12838 del 16/01/2013, Rv. 257165 – 01; Sez. 2, n. 45541 del 16/10/2009, Rv. 245599 – 01; Sez. 1, n. 44629 del 23/10/2007, Rv. 238481 – 01).

3.6. Ne consegue che lo stato di detenzione all’estero che però non risulti dagli atti non impedisce di ritenere esaustive (e corrette) le ricerche ai fini della dichiarazione di latitanza della persona sottoposta alle indagini.

3.7. La completezza delle ricerche non è tuttavia sufficiente ai fini della dichiarazione dello stato di latitanza: è altresì necessario che il giudice ritenga che la persona nei cui confronti è stata emessa l’ordinanza cautelare si sia ad essa sottratta volontariamente.

Come affermato in motivazione da Sez. U, Avrann, cit., «tra il verbale di vane ricerche e la dichiarazione di latitanza si inserisce, poi, il sindacato del giudice, senza che vi sia alcun automatismo tra gli esiti negativi delle prime e la “ratifica” giurisdizionale che quella declaratoria comporta: lo stato di latitanza, infatti, è dichiarato soltanto se il giudice ritenga «le ricerche esaurienti».

Si tratta, però, di una esaustività investigativa che deve essere concretamente misurata in una duplice e concorrente prospettiva: da un lato, infatti, le indagini svolte per pervenire al rintraccio del latitante devono essere tali da escludere possibilità ulteriori ai fini della esecuzione della misura, rendendo quindi evidente che, laddove sussistano concreti elementi che indichino un preciso luogo di rifugio all’estero del soggetto, gli strumenti di cooperazione internazionale di polizia non possono non essere attivati; dall’altro, le ricerche e le correlative indagini devono consentire al giudice di affermare la sussistenza del presupposto della volontaria sottrazione alla esecuzione della misura, giacché, altrimenti, la declaratoria di latitanza risulterebbe priva dell’accertamento “sostanziale” che qualifica la condizione normativa di quello status.

Tutto ciò sta quindi a significare che, ove non risulti positivamente riscontrata la completezza delle ricerche, nella duplice prospettiva di cui innanzi si è detto, il giudice sarà chiamato a disporre ulteriori accertamenti, proprio perché non risultano positivamente acclarati, alla luce delle peculiarità che possono caratterizzare le singole vicende, fra le quali – anche e forse soprattutto – le condizioni personali del ricercato, i presupposti cui l’ordinamento subordina la declaratoria dello stato di latitanza».

3.8. Occorre, dunque, un’autonoma valutazione del giudice che, nel ritenere la volontaria sottrazione alla misura cautelare, non può limitarsi a prendere atto dell’esaustività delle ricerche e della mancanza di «concreti elementi che indichino un preciso luogo di rifugio all’estero del soggetto».

Ai fini della dichiarazione di latitanza il giudice può certamente far ricorso a presunzioni, purché essi risultino fondate su una base fattuale idonea a dimostrare la volontà dell’imputato di sottrarsi alle ricerche, tenuto anche conto delle concrete abitudini di vita del ricercato (Sez. 5, n. 54189 del 20/10/2016, Rv. 268827 – 01) ovvero del fatto che si sia posto in condizione di irreperibilità sapendo che un ordine o un mandato poteva essere emesso nei suoi confronti (Sez. 2, n. 47852 del 23/09/2016, Rv. 268174 – 01; Sez. 6, n. 43962 del 27/09/2013, Rv. 256684 – 01; Sez. 5, n. 12619 del 02/03/2006, Rv. 234546 – 01).

3.9. Resta il fatto che la dichiarazione di latitanza, ancorché ragionevolmente sostenibile con una valutazione “ex ante“, non regge all’impatto della verifica postuma dell’effettiva assenza della mancanza di volontarietà dell’assenza del ricercato. Il “fatto” processualmente rilevante ai fini della applicazione dell’art. 296 cod. proc. pen., è sostanziale e consiste nella volontaria sottrazione alla misura cautelare, non nel provvedimento del giudice che dichiara la latitanza.

La natura “dichiarativa” (e non costitutiva) del decreto di latitanza comporta che se ne possa anche fare a meno in presenza di atti equipollenti (Sez. 1, n. 40131 del 06/10/2005, Rv. 232465 – 01) e che l’accertamento postumo della mancanza di volontà di sottrarsi alla misura cautelare priva di conseguenze gli effetti processuali che trovano nella volontaria sottrazione alla misura il loro immediato e diretto presupposto.

3.10. Come già affermato da questa Corte, il provvedimento dichiarativo della latitanza ha carattere strumentale, in funzione del perseguimento di ben precise finalità; ne consegue che non avrebbe senso una dichiarazione di latitanza fine a sé stessa, avulsa dalle esigenze di rispetto delle garanzie di legge, in relazione sia alla sussidiaria procedura notificatoria che al conferimento al difensore della rappresentanza del condannato.

Dall’interpretazione dell’art. 296 cod. proc. pen. si ricavano due distinti profili della disciplina della latitanza: uno sostanziale, afferente alla qualità del latitante, connessa alla consapevole sottrazione ad una delle misure previste nel primo comma (compreso l’ordine di carcerazione), ed un profilo formale, inerente alla mera declaratoria di quella condizione, i cui effetti processuali sono previsti per il latitante solo rispetto ad una misura custodiale e non già rispetto ad una sentenza definitiva, per il quale il legislatore non ha previsto, neppure nell’art. 656 cod. proc. pen., relativo all’esecuzione delle pene detentive, alcun riferimento alla disciplina del decreto di latitanza, posto che in questo secondo caso è da ritenere sufficiente che lo stato di latitanza risulti dal verbale di vane ricerche (Sez. 5, n. 283 del 19/01/2000, Rv. 215831 – 01).

3.11. Orbene, la dichiarazione di latitanza comporta le seguenti conseguenze processuali:

a) la designazione del difensore d’ufficio all’imputato/persona sottoposta alle indagini che ne sia privo;

b) la notifica al difensore (d’ufficio o di fiducia) dell’avviso di deposito della misura rimasta ineseguita;

c) la notificazione di copia dell’ordinanza destinata al latitante mediante consegna a mani del difensore (art. 165, commi 1 e 2, cod. proc. pen.);

d) la rappresentanza del latitante ad opera del difensore (art. 165, comma 3);

e) la decorrenza, per il latitante, del termine di dieci giorni per proporre richiesta di riesame dalla data di notificazione dell’ordinanza cautelare effettuata mediante consegna di copia al difensore (salva la prova dell’ignoranza effettiva del provvedimento cautelare) (art. 309, comma 2, cod. proc. pen.).

3.12. Tali conseguenze solo in parte modificano il fisiologico sviluppo degli eventi processuali in caso di applicazione di una delle misure cautelari “presupposto” della dichiarazione di latitanza; ed infatti:

a) l’esecuzione o la notificazione di una misura cautelare personale impone sempre la nomina di un difensore d’ufficio all’imputato/persona sottoposta alle indagini che sia privo di un difensore di fiducia (art. 293, comma 1-ter, cod. proc. pen.);

b) dopo la loro esecuzione o notificazione, le ordinanze devono essere depositate nella cancelleria del giudice e dell’avviso di deposito deve essere data notizia al difensore (d’ufficio o di fiducia) (art. 293, comma 3, cod. proc. pen.);

c) l’imputato/persona sottoposta alle indagini può proporre richiesta di riesame entro dieci giorni dall’esecuzione o notificazione dell’ordinanza (art. 309, comma 1, cod. proc. pen.);

d) il difensore (d’ufficio o di fiducia) può proporre la richiesta di riesame entro dieci giorni dalla notificazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza cautelare (art. 309, comma 3, cod. proc. pen.).

3.13. In divergenza dalla fisiologica sequenza procedimentale testé indicata, la dichiarazione di latitanza comporta:

a) l’anticipazione di un incombente comunque necessario (la nomina del difensore d’ufficio all’imputato/persona sottoposta alle indagini che ne sia privo) ad un momento che precede l’esecuzione o notificazione della misura;

b) l’anticipazione, alla data di consegna dell’ordinanza al difensore (d’ufficio/di fiducia), del termine iniziale assegnato all’imputato/persona sottoposta alle indagini per proporre riesame;

c) la rappresentanza processale dell’imputato da parte del difensore (d’ufficio/di fiducia).

3.14. Fermo restando che la rappresentanza del latitante da parte del difensore (d’ufficio o di fiducia) coinvolge questioni relative alla corretta instaurazione del contraddittorio processuale (con conseguente irrilevanza, in questa sede, dell’annullamento del decreto di latitanza, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., e dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, disposto dal tribunale di Catania con l’ordinanza resa all’udienza dibattimentale del 21/10/2021 prodotta dal ricorrente), l’erronea dichiarazione dello stato di latitanza non determina alcuna conseguenza sulla validità della nomina del difensore d’ufficio trattandosi di provvedimento comunque necessitato dall’ostensione della misura cautelare e che trova il suo presupposto non nella dichiarazione di latitanza bensì nel fatto che il latitante è privo di un difensore di fiducia.

E’ dunque la mancanza del difensore di fiducia che impone la nomina del difensore d’ufficio a seguito della anticipata ‘discovery’ dell’atto.

Ciò comporta che il difensore (di fiducia o d’ufficio che sia; l’art. 309, comma 3, cod. proc. pen. fa riferimento al “difensore” senza ulteriori aggettivazioni) è legittimato a contestare sin da subito la legittimità della misura stessa senza dover attenderne la materiale esecuzione, e ciò in evidente ottica di ‘favor’ nei confronti del latitante.

Nè la nullità del decreto di latitanza potrebbe far venir meno l’effetto irreversibile derivante dalla sua adozione: il deposito degli atti in cancelleria (la discovery, che, come detto, impone la nomina del difensore d’ufficio ove il latitante ne sia privo).

Un diverso ragionamento – che pretenda di travolgere l’ordinanza del tribunale della libertà pronunciata a seguito di richiesta di riesame del difensore d’ufficio del latitante erroneamente dichiarato tale – porterebbe alla conseguenza aberrante per la quale il latitante potrebbe giovarsi della richiesta di riesame anche del difensore di fiducia nominato successivamente, evenienza che l’art. 309, comma 3, cod. proc. pen., non contempla affatto.

3.15. In conclusione: l’errata dichiarazione dello stato di latitanza non travolge gli effetti irreversibilmente prodotti dal decreto e costituiti dalla anticipata discovery degli atti di indagine sui quali l’ordinanza si fonda e dalla nomina del difensore d’ufficio al latitante che ne sia privo (destinatario dell’avviso di deposito).

3.16. Questa Corte ha già affermato il principio secondo il quale la nullità del decreto di latitanza non incide sulla validità della nomina del difensore d’ufficio in esso contenuta, in ragione dell’autonomia di quest’ultima rispetto alla dichiarazione di latitanza (Sez. 4, n. 49409 del 05/04/2013, Rv. 257900 – 01).

Vero è che, secondo quanto esattamente afferma il ricorrente, nel caso esaminato dalla Corte, il difensore d’ufficio aveva proposto riesame “consumando” così l’analoga facoltà del difensore di fiducia successivamente nominato; tuttavia, alla luce delle considerazioni sopra svolte, tale principio deve essere confermato proprio perché il ricorrente non disconosce il potere del difensore d’ufficio nominato in base a decreto di latitanza nullo di proporre riesame ai sensi dell’art. 309, comma 3, cod. proc. pen.

Sicché la latitudine applicativa di tale norma è impermeabile alla variabile fattuale del diligente esercizio, da parte del difensore d’ufficio, del proprio ‘munus‘.

3.17. Resta, dunque, da verificare in che modo l’anticipazione del termine per proporre domanda di riesame possa risentire della nullità del decreto di latitanza.

La questione trova una sua esplicita risposta nel meccanismo restitutorio previsto dallo stesso art. 309, comma 2, cod. proc. pen.

E’ la mancanza di prova della effettiva conoscenza del provvedimento cautelare che restituisce il latitante nel termine per proporre domanda di riesame, a prescindere dalla validità del decreto di latitanza.

3.18. Nel caso in esame, l’ignoranza da parte del ricorrente dell’ordinanza cautelare non è affatto contestata dal tribunale che ha fatto correttamente decorrere il termine iniziale per proporre richiesta di riesame dal momento della materiale esecuzione della misura e ne ha tratto la conclusione della inammissibilità della domanda di riesame tardivamente proposta dal difensore di fiducia.

3.19. Va dunque chiarito cosa accada nel caso in cui il difensore d’ufficio del latitante, erroneamente dichiarato tale, abbia proposto domanda di riesame nel termine stabilito dall’art. 309, comma 3, cod. proc. pen.

La questione è già stata affrontata da questa Corte con sentenza Sez. 5, n. 20539 del 22/01/2019, Rv. 275553 – 01 che ha affermato il principio di diritto secondo il quale il tribunale della libertà non può dichiarare l’inammissibilità dell’istanza di riesame proposta personalmente dall’indagato solo perché successiva a quella già depositata dal suo difensore, in ragione sia del disposto di cui all’art. 309 cod. proc. pen., che conferisce ad entrambi la facoltà di adire il tribunale della libertà, prevedendo una differenziata decorrenza dei termini per impugnare, sia del tendenziale superamento del principio di unicità dell’impugnazione.

3.20. Si tratta di principio che deve essere ribadito.

3.21. Questa Corte aveva affermato il principio secondo – il quale l’impugnazione proposta dal difensore, di fiducia o di ufficio, nell’interesse dell’imputato contumace (nella specie latitante), preclude a quest’ultimo, una volta che sia intervenuta la relativa decisione, la possibilità di ottenere la restituzione nel termine per proporre a sua volta impugnazione (Sez. U, n. 6026 del 31/01/2008, Huzuneanu, Rv. 238472 – 01).

La Corte aveva osservato che l’astratta configurabilità di una duplicazione di impugnazioni, promananti le une dal difensore, e le altre dall’imputato, rappresenterebbe una opzione palesemente incompatibile con l’esigenza di assegnare una “ragionevole durata” al processo, sulla base di quanto imposto dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 della Convenzione EDU.

3.22. Successivamente, però, la Corte costituzionale, con sentenza n. 317 del 2009, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, 8 cod. proc. pen., nella versione all’epoca vigente, nella parte in cui non consentiva la restituzione dell’imputato, che non avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione fosse stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato.

Il Giudice delle leggi aveva spiegato che il bilanciamento tra il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del processo deve tener conto dell’intero sistema delle garanzie processuali, per cui rileva esclusivamente la durata del «giusto» processo, quale complessivamente delineato in Costituzione, mentre un processo non «giusto», perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata; e che un incremento di tutela indotto dal dispiegarsi degli effetti della normativa CEDU e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo certamente non lede gli articoli della Costituzione posti a garanzia degli stessi diritti, ma ne esplicita ed arricchisce il contenuto, innalzando il livello di sviluppo dell’ordinamento nazionale nel settore dei diritti fondamentali.

La misura ripristinatoria della rimessione in termini, prescelta dal legislatore, per avere effettività, non può essere «consumata» – aveva ammonito la Corte costituzionale – dall’atto di un soggetto, il difensore (normalmente nominato d’ufficio, in tali casi, stante l’assenza e l’irreperibilità dell’imputato), che non ha ricevuto un mandato ‘ad hoc’ e che agisce esclusivamente di propria iniziativa.

L’esercizio di un diritto fondamentale non può essere sottratto al suo titolare, che può essere sostituito solo nei limiti strettamente necessari a sopperire alla sua impossibilità di esercitarlo e non deve trovarsi di fronte all’effetto irreparabile di una scelta altrui, non voluta e non concordata, potenzialmente dannosa per la sua persona.

3.23. Come ben (e condivisibilmente) osservato da Sez. 5, n. 20539 del 2019, cit., si tratta di pronuncia la cui ricadute vanno ben oltre lo specifico caso proiettando le sue conseguenze anche nel sistema processuale delle impugnazioni, proponendone una lettura di più ampio respiro anche in tema di impugnazioni di misure cautelari.

3.24. Orbene, la lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 309, comma 2, cod. proc. pen., comporta la conseguenza che la precedente proposizione della domanda di riesame da parte del difensore (d’ufficio o di fiducia) del latitante erroneamente dichiarato tale non osta alla personale riproposizione della domanda di riesame se l’imputato/persona sottoposta alle indagini dimostri l’effettiva ignoranza del provvedimento cautelare la cui esecuzione sia successiva alla dichiarazione di latitanza.

3.25. In conclusione:

a) il difensore (d’ufficio o di fiducia) del latitante erroneamente dichiarato tale è pienamente legittimato, ai sensi dell’art. 309, comma 3, cod. proc. pen., a proporre la richiesta di riesame nel termine di dieci giorni dalla data di notificazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza che dispone la misura;

b) il latitante, erroneamente dichiarato tale, può sempre proporre riesame (anche se già proposto dal difensore) se prova di non aver avuto conoscenza del provvedimento ed in tal caso il termine decorre dalla data di esecuzione del provvedimento stesso;

c) l’erronea dichiarazione dello stato di latitanza non ha alcuna incidenza sulla individuazione del termine previsto, per il difensore, dall’art. 309, comma 3, cod. proc. pen.;

d) il difensore di fiducia successivamente nominato può solo giovarsi del termine cui ha diritto il proprio assistito ai sensi dell’art. 309, comma 2, seconda parte cod. proc. pen. (nel senso che, nel caso in cui la notificazione del provvedimento cautelare sia avvenuta in tempi diversi per l’imputato e per il suo difensore, il termine per proporre richiesta di riesame decorre per entrambi dalla data dell’ultima notificazione, Sez. 5, n. 47556 del 02/10/2008, Rv. 242320 – 01. Nel caso di specie, il provvedimento era stato notificato al difensore d’ufficio dell’imputato latitante, mentre era stata omessa la notificazione ai sensi dell’art. 165 cod. proc. pen.; la Corte ha individuato la decorrenza del termine per la richiesta di riesame nella notificazione al latitante eseguita dopo la cattura e non in quello della successiva notificazione dell’avviso di deposito ex art. 293 cod. proc. pen. al difensore di fiducia dallo stesso nominato).

3.26. Correttamente, pertanto, il Tribunale del riesame ha dichiarato l’inammissibilità dell’istanza perché presentata dal difensore di fiducia del ricorrente il giorno dopo la scadenza del termine di dieci giorni decorrenti dalla data di materiale esecuzione della misura.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. c.p.p.

Così deciso in Roma, il 10/11/2021.

Depositato in Cancelleria, oggi 8 febbraio 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.