REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SESTA SEZIONE PENALE
Composta da:
Massimo Ricciarelli – Presidente –
Angelo Capozzi – Consigliere –
Emilia Anna Giordano – Consigliere –
Giuseppina A. Rosaria Pacilli – Consigliere –
Pietro Silvestri – Relatore –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis), nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza emessa il 29/09/2023 dalla Corte di appello di Milano;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Pietro Silvestri;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Tomaso Epidendio, che ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza con cui (omissis) (omissis) è stato condannato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale.
L’imputato, detenuto in carcere, avrebbe proferito una serie di frasi minacciose all’indirizzo di (omissis) (omissis), agente della Polizia penitenziaria, che, compiendo un atto dell’ufficio, lo “invitava a mantenere un comportamento consono”.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato articolando un unico motivo con cui si deduce violazione di legge.
Si sostiene che il fatto sarebbe riconducibile all’art. 341 bis cod. pen., essendosi l’imputato limitato ad apostrofare come “femminuccia” l’agente di polizia penitenziaria dopo averlo chiamato all’interno della propria cella di pernottamento; le successive espressioni, si aggiunge, dovrebbero considerarsi quali prosecuzione delle offese iniziali e non come autonome minacce. Né vi sarebbe neppure la prova che le offese furono proferite in presenza di più persone.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
2. Dalla sentenza impugnata emerge che:
a) il 13.9.2019 l’agente di polizia penitenziaria (omissis), durante lo svolgimento del proprio turno di lavoro presso la Casa di reclusione di Milano Opera, fu chiamato dall’imputato che, in quel momento, era all’interno della sua cella di pernottamento;
b) l’agente, arrivato alla cella, fu oggetto di scherno;
c) l’agente, dopo aver richiamato all’ordine l’imputato, fu attinto da frasi minacciose, nel senso che fu invitato dall’imputato ad allontanarsi dalla cella altrimenti sarebbe stato colpito con oggetti.
3. Le Sezioni unite hanno già spiegato che la condotta tipica del delitto in esame si concreta nell’uso della violenza o della minaccia da chiunque esercitata per “opporsi a un pubblico ufficiale” (o a un incaricato di un pubblico servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza) mentre compie un atto dell’ufficio o del servizio.
L’elemento oggettivo del reato risulta tipizzato sul piano modale e teleologico, essendo sanzionata ogni condotta diretta a conseguire lo scopo oppositivo indicato dalla disposizione attraverso l’uso di violenza o minaccia nei confronti del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio agente.
I suddetti elementi fattuali rilevano nella loro idoneità e univocità a impedire o a turbare la libertà di azione del soggetto passivo, sicché il reato è integrato da qualsiasi condotta che si traduca in un atteggiamento, anche implicito, purché percepibile, che impedisca, intralci o valga a compromettere, anche solo parzialmente o temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto dell’ufficio o del servizio, restando così esclusa ogni resistenza meramente passiva, come la mera disobbedienza.
La struttura della fattispecie sotto il profilo fattuale, prevede, dunque, una condotta commissiva-oppositiva connotata:
a) dalla violenza o dalla minaccia (esclusa, come detto, la mera resistenza passiva) rivolta (in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito) esclusivamente contro il pubblico ufficiale o il soggetto normativamente ad esso equiparato, siccome tesa a coartarne o a impedirne l’agire funzionale;
b) dalla volontà (dolo specifico) di ostacolare il soggetto passivo nel momento dell’esercizio della funzione pubblica.
L’espressione adoperata dal legislatore – «mentre compie un atto di ufficio o di servizio» – ha la finalità di individuare contesto e finalità della condotta oppositiva e di circoscriverne la rilevanza nell’ambito di un obiettivo nesso funzionale ed di un determinato arco temporale, ricompreso tra l’inizio e la fine dell’esecuzione dell’atto dell’ufficio o del servizio; sicché, al di fuori del suddetto ambito, la violenza o la minaccia rivolte al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio configurano fattispecie diverse, quali ad esempio la violazione dell’art. 336 cod. pen. nel caso in cui la violenza e la minaccia siano antecedenti all’atto dell’ufficio (così, testualmente, Sez. U, n. 40981 del 22/02/2018, Apolloni, Rv. 273371).
4. Sulla base di tale quadro di riferimento, la sentenza rivela il suo vizio strutturale; rispetto al reato di resistenza a pubblico ufficiale non è stato infatti individuato l’atto dell’ufficio che il pubblico ufficiale sarebbe stato intento a compiere al momento in cui fu commessa la condotta, atteso che:
a) l’imputato, al momento in cui chiamò l’agente di polizia penitenziaria, era già all’interno della propria cella;
b) la condotta non fu volta ad opporsi ovvero a impedire alcunchè ma soltanto ad “insultare” l’agente;
c) l’atto, diversamente da quanto affermato dai Giudici di merito, non può essere individuato nel generico riferimento al “regolare svolgimento della attività di vigilanza”, ovvero nell’invito rivolto dal pubblico agente ad avere “un comportamento consono” che, peraltro, non fu né impedito, né, di fatto, ostacolato.
5. Né è stato provato, ai fini di una possibile riqualificazione dei fatti e della loro riconducibilità al reato previsto dall’art. 341 bis cod. pen., che le offese furono proferite in presenza di più persone.
6. Ne consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma il 19 giugno 2024
il Consigliere estensore Il Presidente
Pietro Silvestri Massimo Ricciarelli
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2024.