Dichiarata nulla la registrazione del marchio “spaghetto quadrato” di un’azienda alimentare molisana (Corte di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza 4 gennaio 2022, n. 53).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Rel. Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22300/2017 proposto da:

La Molisana S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via (OMISSIS) n. 10, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) Gustavo, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS) Giovanni, (OMISSIS) Mario, (OMISSIS) Marco, (OMISSIS) Giuseppe, (OMISSIS) Gianni, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Barilla G. & R. Fratelli S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via (OMISSIS) n. 133, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) Arturo, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS) Adriano, (OMISSIS) Sabina Michelle, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3211/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, pubblicata il 16/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 01/12/2021 dal cons., Dott.ssa NAZZICONE LOREDANA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma con sentenza del 16 maggio 2017, respingendo gli appelli principale ed incidentale, ha confermato la decisione del Tribunale della stessa città del 10 aprile 2016, la quale aveva accolto la domanda di Barilla G. & R. Fratelli s.p.a., volta alla dichiarazione della nullità del marchio «spaghetto quadrato», in titolarità della società La Molisana s.p.a., respingendo la domanda risarcitoria del pari avanzata.

Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dalla soccombente, affidato a tre motivi, illustrati dalla memoria di cui all’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

Resiste con controricorso la Barilla G. & R. Fratelli s.p.a., che deposita altresì la memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi proposti possono essere come di seguito riassunti:

1) omessa pronuncia ex art. 112 cod. proc. civ., con conseguente falsa interpretazione dell’art. 13, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30: la corte territoriale ha erroneamente ricostruito il fatto, ritenendo che il marchio de quo fosse stato ideato per contraddistinguere un prodotto nuovo, invece che quale espressione nuova per un alimento tradizionale, di conseguenza errando nell’applicazione dell’art. 13, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. citato e reputando il marchio nullo per carenza di istintività.

Essa, infatti, ha discorso di una forma caratteristica esteriore degli spaghetti «non più cilindrica come storicamente e tradizionalmente sempre utilizzata nella sua produzione ma quella più recente e moderna quadrata, ossia con sezione orizzontale quadrata».

In tal modo, la corte ha errato nella ricostruzione del fatto e, di conseguenza, nella sua qualificazione giuridica, dato che il prodotto invece non era affatto nuovo, appartenendo anch’esso alla tradizione, trattandosi precisamente il c.d. spaghetto alla chitarra, o maccherone carrato o tonnarello.

La corte, pensando di trovarsi di fronte ad un prodotto nuovo, ha poi valutato come meramente descrittivo il marchio, che, al contrario, identificava sì un prodotto tradizionale, ma in modo del tutto nuovo, donde il suo carattere della distintività ed il vizio di omessa pronuncia, perché ha giudicato su fatto diverso da quello effettivo;

2) violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, per avere la sentenza impugnata ritenuto appartenente al linguaggio corrente l’espressione «spaghetto quadrato» per indicare gli spaghetti alla chitarra, mentre così non è, onde non aveva senso limitarne la registrazione come marchio, al fine di evitare un ipotetico vantaggio concorrenziale al suo titolare: infatti, anche un termine che appare descrittivo, se non divenuto di uso corrente nel linguaggio comune, mantiene una sua distintività pur attenuata;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 3, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, per avere la sentenza impugnata respinto anche la domanda subordinata, volta ad accertare la sopravvenuta capacità distintiva del marchio per effetto del suo uso (c.d. secondary meaning), in un’interpretazione che ridurrebbe l’ambito di applicazione della norma menzionata a casi del tutto eccezionali.

2. – La corte territoriale ha ritenuto che:

a) il marchio «spaghetto quadrato» abbia natura integralmente descrittiva, in quanto corrispondente al prodotto alimentare ed avente un chiaro significato lessicale comune, diffuso nell’uso sociale collettivo, per indicare un prodotto alimentare della tradizione italiana, lo spaghetto, in una sua caratteristica esteriore non più cilindrica, come storicamente e tradizionalmente sempre utilizzata, ma in quella «più recente e moderna», avente «sezione orizzontale quadrata»;

b) non è provato il secondary meaning, mediante l’uso e la diffusione del marchio, con una raggiunta capacità di penetrazione del segno nella comune conoscenza presso la comunità dei consumatori, attesa l’esigua durata dell’uso, pari a 14 mesi, tanto più in un marchio estremamente debole come questo, costituito da parole di uso comune ontologicamente collegate alla natura ed alle caratteristiche del prodotto: difetta la prova di investimenti pubblicitari di adeguata capacità diffusiva ed economica, tali da realizzare, in breve tempo, un fenomeno conoscitivo presso il pubblico;

c) sono assorbite le altre domande logicamente dipendenti dalla validità del marchio.

3. – Il primo motivo è infondato.

3.1. – Non sussiste il vizio di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.

L’omessa pronuncia si concreta nel difetto del momento decisorio e, pertanto, per integrare detto vizio occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti; per contro, il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti integra un vizio di natura diversa, relativo all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento, senza che possa ritenersi mancante il momento decisorio (Cass. 3 marzo 2020, n. 5730; Cass. 18 febbraio 2005, n. 3388, fra le altre).

La differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 cod. proc. civ. e l’omesso esame di fatto decisivo di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., consiste nella circostanza che nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della «domanda» di appello), mentre, nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione.

Ma nella specie non è riscontrabile un difetto di pronuncia del giudice, nel senso appena illustrato.

3.2. – Vero è che la prospettazione della ricorrente contiene anche la deduzione del vizio di violazione dell’art. 13, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.

Essa invoca implicitamente quel principio, secondo il quale, nel caso in cui si assuma che il giudice del merito abbia mancato di valorizzare fatti, che si ritengano essere stati affermati dalla parte con modalità sufficientemente specifiche, può ammettersi la censura, da articolare nel rispetto dei criteri di cui agli art. 366 e 369 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., qualora uno o più dei predetti fatti integrino direttamente elementi costitutivi della fattispecie astratta e, dunque, per violazione della norma sostanziale (cfr. es . Cass. 21 ottobre 2019, n. 26764).

Tuttavia, nella specie, non giova neppure la doglianza di ricostruzione errata di un fatto, da cui sarebbe derivata un’errata interpretazione della norma: invero, la censura non merita accoglimento, atteso che la corte territoriale ha sì parlato di una «sezione orizzontale quadrata» dello spaghetto «più recente e moderna»; ma da tale espressione – cui può essere al più imputata una imprecisione lessicale, ove si reputi migliore indicazione quella di “sezione trasversale” – non è derivato affatto il vizio concettuale lamentato con riguardo alla reale ratio decidendi, la quale risiede nella natura puramente descrittiva del marchio rispetto al prodotto (sia questo più o meno recente). Il motivo finisce, dunque, con il confutare in fatto un accertamento di merito compiuto dal giudice, cui, tuttavia, unicamente esso compete.

4. – Il secondo motivo è inammissibile, in quanto involge un accertamento in fatto.

Requisito essenziale e costitutivo del marchio è il c.d. carattere distintivo, onde non possono costituire oggetto di registrazione come marchio i segni costituiti da «indicazioni descrittive» di prodotti o servizi, fra cui quelli che indicano semplici «caratteristiche del prodotto o servizio» (art. 13 d.lgs. n. 30 del 2005).

È vero che anche un termine in parte descrittivo potrebbe, in talune evenienze concrete, mantenere una capacità distintiva e quindi essere valido come marchio: e, tuttavia, si tratta di un accertamento in fatto, che il giudice del merito deve compiere, in adempimento dei suoi esclusivi poteri di valutazione delle circostanze del caso concreto.

Tale accertamento la sentenza impugnata dimostra di aver compiuto, né in questa sede esso può essere ripetuto, al fine di giungere ad un diverso apprezzamento.

5. – Con il terzo motivo, la ricorrente si duole che non sia stata valorizzata almeno la c.d. secondarizzazione del marchio.

5.1. – Secondo l’art. 13, commi 2 e 3, d.lgs. n. 30 del 2005, in deroga al comma 1 possono costituire oggetto di registrazione «i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo», né il marchio può essere dichiarato nullo «se prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità, il segno che ne forma oggetto, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo».

Come questa Corte ha già ritenuto (cfr., tra le altre, Cass. 18 maggio 2018, n. 12368; Cass. 19 aprile 2016, n. 7738), l’art. 13, comma 1, cit. intende evitare di concedere diritti di esclusiva a parole o segni che siano meramente collegati al tipo merceologico senza carattere di originalità, in quanto strutturati su espressioni che si limitino a richiamare la qualità merceologica o la funzione produttiva, oppure una caratteristica del prodotto; le successive disposizioni pongono un’eccezione sia al divieto di registrazione, sia alla (pronuncia di accoglimento della domanda di) nullità del marchio, allorché il segno abbia acquistato carattere distintivo prima della proposizione della domanda o della eccezione di nullità.

Si tratta del c.d. secondary meaning, il quale, secondo il senso letterale dell’espressione (“significato secondario”, inteso sia come successivo, sia come aggiunto) e le ricostruzioni degli interpreti, si verifica tutte le volte in cui un segno, originariamente sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, si trovi ad acquistare, in seguito, tali capacità, in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato.

In detta ipotesi, l’ordinamento recepisce il dato di fatto dell’acquisizione successiva e “secondaria” della “distintività”, attraverso un meccanismo di “convalidazione” del segno.

Si è rilevato come la modifica introdotta dal d.lgs. n. 480 del 1992 abbia codificato un principio già affermato in giurisprudenza, secondo cui può divenire valido un marchio che, pur originariamente privo di carattere distintivo, tale carattere abbia acquisito nel tempo per l’uso che ne sia stato fatto (Cass. 3 aprile 2009, n. 8119; e v. Cass.26 gennaio 1999 n. 697).

In sostanza, è soprattutto per effetto della elevata diffusione commerciale, a sua volta sovente dipendente da massicci investimenti pubblicitari ed azzeccate strategie di marketing, che un marchio inizialmente privo di capacità distintiva può acquistarla: ciò, in quanto massicce attività di pubblicizzazione del marchio possono indurre ad una radicale trasformazione della sua percezione distintiva nel mercato dei consumatori, nel quale si sia diffusa l’identificazione del prodotto contraddistinto dal marchio, sebbene questo consti in origine di un termine generico.

L’esito del processo comporta la possibilità per il titolare del marchio di agire in contraffazione.

Nella distribuzione dell’onere probatorio, la genericità del segno e la sua usuale forma comune ne determinano la nullità, tuttavia “sanata” dalla acquisizione del carattere distintivo, pur dopo la registrazione.

A norma dell’art. 121 d.lgs. 30 del 2005, appunto intitolato alla ripartizione dell’onere della prova, l’onere di provare la nullità del titolo di proprietà industriale incombe su chi impugna il titolo: una volta fornita tale prova, pertanto, l’onere di dimostrarne la secondarizzazione grava sulla controparte.

Oggetto dell’onere della prova, in questo caso, non è – nonostante che il fenomeno suddetto dipenda dall’uso intenso della parola tanto da divenire distintiva per il pubblico dei consumatori – l’esistenza di investimenti pubblicitari in sé, ma la rinomanza acquisita dal segno.

5.2. – Tuttavia, del pari involgente puro accertamento in fatto è tale motivo, una volta che la corte del merito ha escluso, nel merito ed in base a ragionamento esente da mende, che sia stata integrata la fattispecie ricordata.

6. – Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, liquidate in €. 5.200,00, di cui €. 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.

Sussistono i presupposti per il pagamento del contributo unificato, di cui all’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 1° dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.