LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
FRANCO DE STEFANO – Presidente –
PASQUALE GIANNITI – Consigliere –
ROBERTO DE SIMONE – Consigliere –
MARCO ROSSETTI – Rel. Consigliere –
STEFANO GUIZZI GIAIME – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso n. 14740/23 proposto da:
-) (omissis) (omissis), domiciliata ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore, difesa dall’avvocato (omissis) (omissis);
– ricorrente –
contro
-) Generali Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore, difeso dall’avvocato (omissis) (omissis);
– controricorrente –
nonché
-) Comune di (omissis); Azienda Sanitaria Locale di Barletta – Andria – Trani;
– intimati –
avverso la sentenza del Tribunale di Trani 12 gennaio 2023 n. 56;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 maggio 2025 dal Consigliere relatore dott. Marco Rossetti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Mario Fresa, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2015 (omissis) (omissis) convenne dinanzi al Giudice di pace di Trani il Comune di (omissis), esponendo che:
-) il 19.1.2015 era stata aggredita sulla pubblica via da un branco di cani randagi;
-) uno di essi l’aveva morsa provocandole lesioni guarite con postumi permanenti;
-) di tali danni doveva rispondere il Comune di (omissis), “ per non aver garantito che l’animale randagio (…) non arrecasse disturbo o danni alle persone nelle vie cittadine, in ottemperanza alla funzione di vigilanza e di controllo demandata agli enti civici dall’art. 2 l. reg. Puglia 12/1995, e per non essersi dotato di canile dove devono essere ricoverati i cani catturati”.
2. Il ricorso non espone con quale atto e in quale data nel giudizio siano entrate la ASL di Barletta-Andria-Trani (BAT) e la società Generali: è dato solo intuire che l’una e l’altra siano state chiamate in causa dal Comune di (omissis).
Non è nemmeno chiaro se nei confronti della ASL il Comune abbia proposto una mera laudatio actoris, oppure abbia formulato una domanda di garanzia, od ancora abbia formulato tutte e due le domande in via subordinata.
La ricorrente, infine, non chiarisce se, in quali termini e con quale atto abbia esteso la domanda nei confronti della ASL.
3. Con sentenza 4.6.2018 n. 321 il Giudice di pace di Trani rigettò la domanda. Il ricorso non chiarisce per quali ragioni. La sentenza fu appellata dalla parte soccombente.
4. Con sentenza 12.1.2023 n. 56 il Tribunale di Trani ha rigettato l’appello, ritenendo non dimostrata la colpa tanto dal Comune di (omissis), quanto della ASL-BAT.
Il Tribunale ha ritenuto che la responsabilità dei due enti suddetti per danni causati da cani randagi abbia natura aquiliana e sia disciplinata dall’art.2043 c.c.; che, di conseguenza , è onere dell’attore provare la colpa dei convenuti ed il nesso di causa tra condotta colposa e danno; che tale prova non può consistere nella sola dimostrazione dell’aggressione canina; che è invece necessaria la dimostrazione di una condotta colposa omissiva delle pubbliche amministrazioni.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per Cassazione da (omissis) (omissis) con ricorso fondato su due motivi.
Ha resistito con controricorso la sola Generali s.p.a..
Ambo le parti hanno depositato memoria.
6. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento primo motivo di ricorso e l’assorbimento del secondo.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
Col primo motivo di ricorso è denunciata la violazione di cinque diverse norme del codice civile (artt. 2043, 2051, 2052, 2053e 2697 c.c.).
Nell’illustrazione del motivo, tuttavia, si sostiene che il Tribunale avrebbe violato le regole sul riparto dell’onere della prova.
La ricorrente, invocando la decisione di questa Corte n. 9621/22 (di cui trascrive ampi brani), sostiene che – una volta dimostrata l’avvenuta aggressione da parte di cani randagi – sarebbe stato onere degli enti convenuti dimostrare di avere organizzato e gestito un efficiente servizio di prevenzione del randagismo, in adempimento dei rispettivi doveri istituzionali.
1.1. Nella parte in cui prospetta la violazione degli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c. il motivo è inammissibile sia ex art. 366 n. 4 c.p.c., per mancanza di illustrazione, sia in ogni caso ex art. 345 c.p.c., non risultando dal ricorso che le responsabilità per custodia, per fatto dell’animale di proprietà o per rovina di edificio (ipotesi della quale questa Corte non intuisce la rilevanza nel caso di specie) siano mai state prospettate nei gradi di merito.
Del resto, è la stessa ricorrente ad ammettere che la presunzione di colpa di cui all’art. 2052 c.c. non s’applica nel caso di danni provocati da cani randagi (p. 7 del ricorso).
Va comunque ribadito, ad abundantiam, che l’art. 2052 c.c. è stato ritenuto da questa Corte applicabile ai danni causati dalla fauna selvatica in base al presupposto che questa sia un bene da proteggerein virtù di precisa scelta legislativa e di assunzione – con essa – delle connesse funzioni, sicché l’ente che ne ha la protezione, ne ha anche la responsabilità.
Rispetto ai cani randagi, invece, i compiti della pubblica amministrazione sono essenzialmente di prevenzione e non di protezione; di tutela della popolazione dagli animali e non di tutela degli animali dai rischi dell’antropizzazione: i cani randagi non possono, quindi e allo stato attuale della legislazione, definirsi una specie protetta. La diversità di ratio della normativa impedisce dunque l’applicabilità sia diretta, sia analogica, dell’art. 2052 c.c. ai danni causati da cani randagi.
1.2. Sulla responsabilità del Comune di (omissis).
Nella parte in cui è rivolto contro il Comune il ricorso è infondato.
Esclusa l’applicabilità della disciplina dell’art. 2052 c.c., la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi grava esclusivamente sull’ente cui le singole leggi regionali, attuative della legge quadro nazionale n. 281 del 1991, attribuiscono il compito di cattura e custodia degli stessi (Cass.15244/24; Cass. 3737/23; Cass. 32884/21).
Nel caso di specie deve perciò farsi riferimento alla l. reg. Puglia n. 12 del 1995, i cui artt. 2, 6 e 8 stabiliscono che le amministrazioni comunali sono prive di legittimazione passiva in merito alla pretesa risarcitoria per i danni causati dai cani randagi.
In base alla suddetta legge, infatti, i Comuni devono limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera “accoglienza” dei cani randagi recuperati, mentre al relativo “ricovero”, che presuppone l’attività di recupero e cattura, sono tenuti i servizi veterinari delle ASL (Cass., Sez. 3, ord. 2/1/2024 , n. 10; Sez. 3, sent. 28/06/2018, n. 17060; Sez. 3, ord. 26/05/2020, n. 9671).
Tale principio di diritto deve ritenersi ben noto alla ricorrente, in quanto è essa stessa a richiamarlo e trascriverlo a p. 9, quarto capoverso, del ricorso.
Deve, così, concludersi nel senso che la normativa regionale specificamente applicabile non fa carico al Comune delle attività di recupero e cattura, la cui negligente esecuzione è prospettata quale causa dell’evento dannoso concretamente occorso alla parte odierna ricorrente: sicché deve escludersi la passiva legittimazione del Comune.
1.3. Sulla responsabilità della ASL.
Nei confronti della ASL il motivo è, per altro verso, altrettanto infondato.
È pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte che la pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere dei danni causati da cani randagi solo a titolo aquiliano, ex art. 2043 c.c.. L’art. 2043 c.c. impone al danneggiato di provare una condotta commissiva od omissiva del responsabile; la natura colposa di essa ed il nesso causale tra questa ed il danno.
1.4. (A) La prova della condotta colposa.
È una condotta colposa della pubblica amministrazione non adempiere i doveri ad essa imposti dalla legge.
È dunque onere del danneggiato dimostrare che la pubblica amministrazione contro cui è rivolta la domanda di risarcimento non abbia adempiuto gli obblighi ad essa imposti dalla legge allo scopo di prevenire il randagismoed i danni che tale fenomeno può arrecare alle persone. Tale prova può fornirsi, ad es., dimostrando che al servizio di prevenzione del randagismo la ASL competente non aveva destinato alcuna risorsa o risorse insufficienti; che il relativo ufficio esist eva solo sulla carta; che il servizio veniva svolto in modo saltuario o non veniva svolto affatto. Queste circostanze possono essere provate con ogni mezzo: documenti, testimoni, presunzioni, ispezioni, confessione e giuramento.
1.5. La prova che la pubblica amministrazione non abbia apprestato un efficace servizio di prevenzione del randagismo (e dunque la prova della condotta omissiva) non può invece trarsi dal mero fatto che un cane randagio abbia causato un danno.
1.5.1. In primo luogo, perché l’obbligazione della pubblica amministrazione di prevenire il randagismo è una obbligazione di mezzi, non di risultato: dunque dal fatto noto che il risultato non sia stato raggiunto non può risalirsi al fatto ignorato che l’insuccesso sia dovuto a colpa della stessa pubblica amministrazione.
1.5.2. In secondo luogo, perché l’essenza della colpa consiste non solo nella prevedibilità, ma anche nella prevenibilità. E nemmeno il più capillare ed efficiente servizio di cattura potrebbe impedire del tutto che un animale randagio possa comunque trovarsi in un determinato momento sul territorio comunale (Cass. Sez. 3, 28/06/2018, n. 17060).
1.5.3. In terzo luogo, non rileva ai fini della dimostrazione della condotta colposa la teoria c.d. della concretizzazione del rischio, enfatizzata dalla ricorrente edi cui si dirà meglio tra breve.
La teoria della concretizzazione del rischio è una teoria della spiegazione causale. Ad essa si ricorre quando si tratti di stabilire se una condotta sia stata o non sia stata la causa d’un danno. Quella teoria è invece inutile quando si tratti di accertare un fatto, quale è lo stabilire se la pubblica amministrazione abbia o non abbia adempiuto un obbligo di legge.
La spiegazione causale infatti consiste in un giudizio e presuppone un criterio di giudizio; l’accertamento d’una condotta consiste nella ricostruzione storica d’un fatto e ne presuppone la prova. È dunque scorretto logicamente, prima che giuridicamente, pretendere di accertare la sussistenza d’una condotta colposa in base ad un criterio di spiegazione della causalità. Sarebbe, infatti, impensabile sostenere che una condotta indimostrata sia stata la causa d’un danno. Se manca la prova della condotta colposa, commissiva od omissiva che sia, nessuna spiegazione causale è possibile anche solo imbastire.
1.6. (B) Il nesso di causalità.
Una volta dimostrata dal danneggiato l’inerzia colposa della pubblica amministrazione, resta da dimostrare che quell’omissione sia stata la causa materiale del danno: ed è qui che soccorre la teoria della concretizzazione del rischio, secondo cui il nesso di causalità può ritenersi dimostrato quando:
a) esista una norma che imponga una certa condotta al fine di prevenire un determinato rischio;
b) sia accertata la violazione dell’obbligo di condotta;
c) si sia avverato il rischio che la norma impositiva dell’obbligo mirava a prevenire.
Quando ricorrano queste tre circostanze, per pacifica giurisprudenza di questa Corte è consentito ritenere che l’attore abbia validamente dimostrato il nesso di causalità tra l’omissione e il danno.
1.7. Tutti i princìpi appena riassunti sono stati già ripetutamente affermati da questa Corte. Tuttavia, il non modesto numero di ricorsi su fattispecie analoghe; la sovrabbondante motivazione di talune decisioni; la pericolosa tendenza a richiamare i precedenti facendo riferimento solo alla massima e trascurando il caso concreto, ha ingenerato la mera apparenza – ché di questo solo si tratta -d’un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, in realtà inesistente.
1.8. Il contenzioso scaturente dai danni causati da cani randagi è fenomeno relativamente recente nella giurisprudenza di legittimità.
La prima decisione di legittimità in tal senso risale infatti a Sez. 3, Ordinanza n. 13898 del 28.6.2005, quando negli ottant’anni precedenti non è dato riscontrare precedenti massimati.
Negli ultimi vent’anni, invece, il fenomeno ha assunto dimensioni ragguardevoli: dal 2005 ad oggi questa Corte ha deciso 113 ricorsi aventi ad oggetto danni causati da cani randagi; il fenomeno inoltre appare singolarmente concentrato in quattro Regioni (in ordine di frequenza: Calabria, Puglia, Campania e Sicilia).
1.9. Nell’affrontare tale contenzioso questa Corte ha chiarito innanzitutto che:
a) per stabilire quale sia l’ente tenuto a prevenire il randagismo occorre fare riferimento alla legislazione regionale;
b) la responsabilità della pubblica amministrazione è disciplinata dall’art. 2043 c.c. (ex multis, Cass. 5339/24; Cass. n. 17060 del 2018 e 9671 del 2020, Cass. n. 19404 del 2019 e Cass. n. 32884 del 2021).
1.10. È altresì pacifico il principio per cui chi domanda il risarcimento del danno causato da un cane randagio deve dimostrare “il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente (…), sì da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo”.
Infatti, se bastasse, per invocare la responsabilità della pubblica amministrazione, la sola individuazione dell’ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi in esito ad essa, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall’art. 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, rendendo la responsabilità dell’ente una responsabilità sottoposta a principi analoghi se non addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva (Cass. 5339/24; 23633/19; 19404/19; 31957/18; 22546/18; 11591/18, ma v. in particolare la sentenza capostipite di tale orientamento, Cass. 18954/17, secondo cui “ai fini dell’affermazione della responsabilità [della pubblica amministrazione] occorre la precisa individuazione di un concreto comportamento colposo.
Ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell’ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, in mancanza della puntuale allegazione e della prova, il cui onere spetta all’attore danneggiato in base alle regole generali, della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e nella specie omessa”).
Pretendere, come fa l’odierna ricorrente, che “la circostanza di fatto che il cane fosse libero dimostrerebbe di per sé che il predetto servizio di prevenzione del randagismo non era stato espletato in modo adeguato dal comune” significherebbe introdurre una responsabilità oggettiva (Cass.36719/21), non giustificabile in base alla lettera ed allo spirito della legge.
1.11. Una volta che il danneggiato abbia dimostrato in cosa sia consistita la condotta colposa della pubblica amministrazione, sorge il problema di valutarne l’efficienza causale rispetto al danno: ed è a questo punto che il danneggiato potrà invocare la teoria della concretizzazione del rischio di cui si è detto in precedenza.
La distinzione è ben scolpita nella motivazione di Cass. 17060/18, in cui si distinguono i tre passaggi necessari per pervenire ad un giudizio di condanna della pubblica amministrazione per il danno causato da cani randagi:
a) l’individuazione della norma che impone l’obbligo di provvedere;
b) l’accertamento della condotta violativa di tale obbligo;
c) la causalità tra omissione e danno.
1.12. Non contrasta con tali consolidati e risalenti princìpi il precedente di questa Corte enfatizzato dalla ricorrente (Cass. 9621/22, cui possono affiancarsi Cass. 32884/21 e Cass. 9671/20).
Queste decisioni vanno, infatti, rettamente intese.
L’affermazione, ivi contenuta, secondo cui “grava sulla ASL l’onere di provare di avere organizzato il servizio”, fu compiuta in quelle decisioni al solo fine di stabilire se l’attore avesse o no dimostrato l’esistenza del nesso di causatra omissione e danno.
Si legge infatti a p. 4, penultimo capoverso, della motivazione di Cass. 9671/20, che “in caso di concretizzazione del rischio che la norma violata tende a prevenire, il nesso di causalità che astringe a quest’ultimo i danni conseguenti, rimane presuntivamente provato”. Il breve passo estrapolato ed enfatizzato dalla ricorrente, pertanto, non va affatto inteso come questa vorrebbe: e cioè che, se taluno venga ferito da un cane randagio, la ASL è tenuta ipso facto a risarcirlo.
Riguardata la motivazione nella sua interezza, il senso è ben diversoe, con maggior chiarezza, può così riassumersi:
a) in tema di danni causati da cani randagi, è onere del danneggiato provare che la pubblica amministrazione a ciò preposta non abbia assolto l’obbligo di predisporre uomini e mezzi per la prevenzione del randagismo;
b) è onere del danneggiato provare anche il nesso di causa, ma questa prova può essere fornita in via presuntiva, dimostrando l’avverarsi del rischio che la già dimostrata condotta omissiva avrebbe dovuto prevenire;
c) la pubblica amministrazione può vincere la presunzione sub ( b ) dimostrando il caso fortuito.
1.13. La sentenza impugnata non si è discostatadai princìpi sin qui esposti. Essa, infatti, ha rigettato la domanda sul presupposto che l’attrice non avesse provato alcuna condotta colposa omissiva o commissiva del Comune o della ASL: affermazione, per quanto detto, conforme a diritto.
1.14. Il ricorso va dunque rigettato in applicazione delseguente principio di diritto: “la responsabilità della pubblica amministrazioneper i danni causati da cani randagi è soggetta alle regole dell’art. 2043 c.c.; pertanto, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito.
La colpa della pubblica amministrazione non può tuttavia essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo. Solo una volta fornita questa prova, il nesso di causa tra condotta omissiva e danno potrà ammettersi anche ricorrendo al criterio c.d. della concretizzazione del rischio (il quale è criterio di spiegazione causale, e non di accertamento della colpa), in virtù del quale il fatto stesso dell’avverarsi del rischio che la norma violata mirava a prevenire è sufficiente a dimostrare che una condotta alternativa corretta avrebbe evitato il danno”.
2. Il secondo motivo di ricorso.
Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c..
La ricorrente lamenta di essere stata ingiustamente condannata alla rifusione delle spese nei confronti della società Generali, sebbene quest’ultima fosse stata chiamata in causa dal Comune, e la domanda di garanzia formulata dal Comune dovesse ritenersi “ manifestamente infondata”.
2.1. Il motivo è infondato.
È principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che le spese sostenute dal terzo chiamato in causa, nel caso di rigetto della domanda attore, vanno poste a carico dell’attore in virtù del principio di causalità. E, se è vero che a tanto si fa eccezione quando la chiamata sia pretestuosa o manifestamente infondata, nella specie non è dato apprezzare né l’uno, né l’altro di tali caratteri, dinanzi al chiaro dispiegamento della domanda attorea nei confronti anche del chiamante e del suo evidente interesse all’invocata manleva.
3. Va, infine, ordinata la cancellazione dal ricorso, per i fini di cui all’art. 88 c.p.c., delle seguenti espressioni:
a) “ad onta del tronfio richiamo all’ “ orientamento più recente dei giudici di legittimità”, a p. 7 del ricorso, limitatamente alla parola “tronfio”;
b) “L’odierna ricorrente è stata dunque ritenuta meritevole anche della condanna alla refusione delle spese “ in favore di ciascuno dei convenuti ”(presumibilmente in applicazione del noto principio … “cornuto e mazziato”!)”, a p. 11 del ricorso.
Ambedue le suddette espressioni infatti sono gratuite, sconvenienti, triviali, non necessarieai fini dell’illustrazione dei motivi ed offensive.
4. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna (omissis) (omissis) alla rifusione in favore di Generali Italia s.p.a. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 3.282, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente ed al competente ufficio di merito, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Suprema Corte di cassazione in data 7 maggio 2025
Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2025.