Fessura sulla strada, niente risarcimento per la persona inciampata e finita a terra. Nessuna prova era stata fornita di quanto occorsogli (Corte di Cassazione, Sezione VI Civile, Sentenza 26 luglio 2021, n. 21395).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – Rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29941-2019 proposto da:

(OMISSIS) LUIGI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (OMISSIS) (OMISSIS) 94, presso lo studio dell’Avvocato MAURO (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

COMUNE di POMEZIA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (OMISSIS) (OMISSIS) 28, presso lo studio dell’Avvocato UGO MARIA (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4654/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 09/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. Stefano GIAIME GUIZZI.

Ritenuto in fatto

– che Luigi (OMISSIS) ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 4654/19, del 9 luglio 2019, della Corte di Appello di Roma, che — rigettando il gravame dallo stesso esperito contro la sentenza n. 1066/14, del 6 maggio 2014, del Tribunale di Velletri — ha respinto la domanda risarcitoria proposta dall’odierno ricorrente nei confronti del Comune di Pomezia;

– che, in punto di fatto, il ricorrente riferisce di aver adito il Tribunale velletrano per conseguire il ristoro dei danni subiti in conseguenza di una caduta occorsagli, il 1° giugno 2005, lungo la via Metastasio in Pomezia, allorché il suo piede sinistro finiva all’interno di una fessura, non visibile, posta al di sotto del marciapiede;

– che istruita la causa mediante l’esame di un teste e lo svolgimento di una CTU medico-legale, l’adito giudicante respingeva la domanda, con decisione confermata dal giudice di appello, che rigettava il gravame esperito dall’attore soccombente;

– che avverso la sentenza della Corte capitolina il (OMISSIS) ricorre per cassazione, sulla base — come detto — di quattro motivi;

– che il primo motivo denuncia — ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. — “erronea applicazione della responsabilità per cose in custodia”, ovvero “violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 cod. civ.”, sul rilievo che la sentenza impugnata ha posto a carico di esso (OMISSIS) un onore probatorio non contemplato dalla norma “de qua‘, e ciò addebitandogli di non aver fornito “alcuna documentazione fotografica” affinché si potesse “effettivamente affermare” che egli si fosse “trovato di fronte ad un’insidia” e che il sinistro stesso fosse “stato causato dalla presenza in loco, tra due auto in sosta, di una semplice fessurazione”;

– che il secondo motivo denuncia — ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. — “erronea applicazione della responsabilità extracontrattuale ordinaria”, ovvero “violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ.”, lamentando che, quand’anche si volesse ritenere applicabile il “canone generale” di cui alla norma appena menzionata, il giudice di appello avrebbe fatto riferimento ad una elemento (quello della “insidia”, appunto) estraneo al modello di responsabilità da essa configurato, giacché “non compare in alcun testo normativo”, con il risultato di gravemente travisare la portata della norma, e ciò “al fine di costituire un regime speciale di responsabilità di favore per la pubblica amministrazione”;

– che il terzo motivo denuncia — ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. — “difetto di motivazione”, in ragione della estrema “laconicità” dell’apparato motivazionale della sentenza impugnata e della sua incoerenza sul piano logico, avendo la Corte territoriale “olimpicamente trascurato” le risultanze istruttorie, pur a fronte del gravame con cui il (OMISSIS) contestava la decisione del primo giudice che gli imputava di aver “dedotto una sola testimonianza di una persona che non ha nemmeno assistito al fatto essendo intervenuta dopo”, e inoltre di non aver “nemmeno chiesto l’interrogatorio libero dell’attore”, né “prodotto alcun rilievo fotografico sui luoghi dove sarebbe avvenuta la caduta”;

– che il quarto motivo denuncia — ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3) e 5), cod. proc. civ. — “erroneità della sentenza nella parte in cui ha omesso di compensare le spese di lite”, richiamando, sul punto, il ricorrente quella decisione della Corte costituzionale (si tratta della sentenza 19 aprile 2018, n. 77) che ha ritenuto possibile la compensazione non solo nelle ipotesi di “assoluta novità della questione” o di “mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti”, ma anche in presenza di ulteriori ragioni “gravi ed eccezionali”;

– che ha resistito all’impugnazione, con controricorso, il Comune di Pomezia, chiedendo che lo stesso venga dichiarato inammissibile o rigettato;

– che, in particolare, il controricorrente evidenzia come la sentenza impugnata non meriti censura, avendo congruamente motivato le ragioni per le quali ha ritenuto mancate la prova della sussistenza del nesso causale tra la riferita caduta e l’assenta situazione di pericolo, accertamento rispetto al quale l’avversaria impugnazione tenderebbe, inammissibilmente, a sollecitare un diverso esame delle risultanze istruttorie, da ritenersi precluso anche sotto il profilo del sindacato sulla motivazione, attesa la sua avvenuta riduzione “al minimo costituzionale”;

– che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata ritualmente comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio per il 26 novembre 2020;

– che il ricorrente ha presentato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Considerato in diritto

– che il ricorso è manifestamente infondato;

– che i motivi primo e secondo — da scrutinare congiuntamente, data la loro connessione, giacché deducono, sostanzialmente, l’uno un vizio di sussunzione (la falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ., in luogo dell’art. 2051 cod. civ., fattispecie alla quale avrebbe dovuto ricondursi la vicenda oggetto di causa), nonché, l’altro, la violazione dell’art. 2043 cod. civ., per essersi fatto riferimento ad una nozione (insidia) priva di fondamento normativo e che si assume ormai abbandonata dalla stessa giurisprudenza di questa Corte — non colgono la duplice (ed alternativa) “ratio decidendi” che la Corte territoriale ha posto a fondamento della sentenza impugnata;

– che, per un verso, essa ha escluso essere stata fornita prova del nesso causale tra la fessurazione presente sotto il marciapiede e l’evento dannoso occorso all’odierno ricorrente, pervenendo a tale conclusione facendo proprio il rilievo espresso dal primo giudice secondo cui la pretesa risarcitoria azionata “si fonda sull’unica testimonianza resa dalla teste di parte attrice”, la quale ha “però riferito di non aver assistito al sinistro di cui è causa essendo sopraggiunta solo in un secondo momento”, donde la conclusione relativa all’impossibilità di affermare “che il sinistro stesso sia stato causato dalla presenza in loco, tra le due auto in sosta, di una semplice fessurazione”;

– che siffatta affermazione, lungi dal presupporre un onore probatorio non previsto a carico di chi invochi la responsabilità da cose in custodia, risulta, viceversa, conforme alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “non sussiste responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. per le cose in custodia, qualora il danneggiato si astenga dal fornire qualsiasi prova circa la dinamica dell’incidente e il nesso eziologico tra il danno e la cosa” (Cass. Sez. 3, sent. 6 aprile 2006, n. 8106, Rv. 588582-01), essendo, infatti, egli onerato dal dimostrare “l’esistenza del danno e la sua derivazione causale dalla cosa” (Cass. Sez. 3, sent. 25 luglio 2008, n. 20427, Rv. 604902-01; in senso conforme, tra le più recenti, si vedano Cass. Sez. 6-3, ord. 22 dicembre 2017, n. 30775, Rv. 647197-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27724, Rv. 651374-01);

– che, difatti, proprio poiché la norma suddetta “non prevede una responsabilità aquiliana, ovvero non richiede alcuna negligenza nella condotta che si pone in nesso eziologico con l’evento dannoso, bensì stabilisce una responsabilità oggettiva, che è circoscritta esclusivamente dal caso fortuito, e non, quindi, dall’ordinaria diligenza del custode” (così, tra le altre, Cass. Sez. 6-3, ord. 16 maggio 2017, n. 12027, Rv. 644285-01), occorre che il preteso danneggiato dimostri almeno la sussistenza del nesso causale tra “res” e danno, giacché, altrimenti, quella prevista dall’art. 2051 cod. civ. sarebbe una fattispecie fondata su un criterio addirittura stocastico di imputazione della responsabilità;

– che, per altro verso, la sentenza impugnata, con il riferimento alla nozione di “insidia” (la ricorrenza della quale essa assume che l’attore non sia riuscito a dimostrare), ha inteso implicitamente richiamare il principio secondo cui la responsabilità del custode si arresta di fronte al dovere di ragionevole cautela di chi usi la cosa, specie se si tratti di bene demaniale (Cass. Sez. 6-3, ord. 3 aprile 2019, n. 9315, Rv. 653609- 01; si veda anche, con riferimento a danni originati dalla presenza di buche o avvallamenti nella pavimentazione stradale, Cass. Sez. 6-3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27724, Rv. 651374-01; Cass. Sez. 3, ord. 1° febbraio 2018, n. 2480, Rv. 647934-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 22 dicembre 2017, n. 30775, Rv. 647197-01);

– che, sul punto, non coglie nel segno il rilievo svolto dal ricorrente, in particolare nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380- bis, comma 2, cod. proc. civ., secondo cui siffatto principio, non ricavabile dal testo dell’art. 2051 cod. civ., costituirebbe una “sovrastruttura pretoria diretta a svuotare di efficacia” la fattispecie della responsabilità da cose in custodia, “determinando una sostanziale impunità” dell’amministrazione pubblica;

– che, in realtà, siffatto principio non è altro se non un’applicazione in materia di responsabilità civile — giusta la previsione di cui all’art. 2056, comma 1, cod. civ. — dell’art. 1227 cod. civ., come ripetutamente chiarito da questa Corte, secondo cui “il comportamento colposo del danneggiato (che sussiste quando egli abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) può — in base ad un ordine crescente di gravità — o atteggiarsi a concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., comma 1), ovvero escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode (integrando gli estremi del caso fortuito rilevante a norma dell’art. 2051 cod. civ.)”, e ciò con l’ulteriore precisazione che “quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 10 febbraio 2018, n. 2480, Rv. Rv. 647934-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 3 aprile 2019, n. 9315, Rv. 653609-01);

– che a tale conclusione è, nella sostanza, pervenuto — con cd. pronuncia “doppia conforme” — il giudice di merito, il cui apprezzamento delle risultanze istruttorie, in un giudizio a critica vincolata qual è quello innanzi a questa Corte, non risulta sindacabile in questa sede, visto che il ricorso per cassazione “conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge” (da ultimo, tra le innumerevoli, Cass. Sez. 6-1, ord. 13 gennaio 2020, n. 331, Rv. 656802- 01);

– che neppure il terzo motivo di ricorso — da riqualificare ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., deducendo il vizio di motivazione apparente — risulta fondato, perché, nella specie, quella della Corte capitolina, per quanto laconica, deve ritenersi motivazione “sufficiente”, nel senso di seguito chiarito;

– che sul punto, infatti, va rammentato che, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. — nel testo “novellato” dall’art. 54, comma 1, lett. b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) — il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01);

– che lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonché, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), o perché affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di «sufficienza» della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord.13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01);

– che è pur vero — come evidenzia il ricorrente, nuovamente nella propria memoria — che al sindacato di legittimità sul “minimo costituzionale” della motivazione è stato ricondotto da questa Corte anche il potere di “verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze”, e, pertanto, la possibilità di “sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 16502 del 2017, cit.);

– che, nondimeno, tale verifica — tesa ad evidenziare la palese carenza di intrinseca coerenza logica nel ragionamento probatorio — non potrebbe estendersi sino al punto di involgere un rinnovato apprezzamento delle risultanze istruttorie, destinato a sovrapporsi a quello compiuto dal giudice di merito, ovvero proprio quanto si sollecita con il presente motivo di ricorso, tendendo esso a contestare l’affermazione della Corte capitolina circa il mancato assolvimento, da parte dell’attore, dell’onere di dimostrare la ricorrenza del nesso causale tra “reo’ e danno;

– che, pertanto, va qui ribalta l’inammissibilità di censure “che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione” — tale è, in particolare, l’ipotesi che qui occupa — “e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (da ultimo, Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34476, Rv. 656492-03);

– che il quarto motivo, sulla mancata compensazione delle spese di lite, è anch’esso non fondato, alla stregua del principio secondo cui, in tale ambito, “il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 17 ottobre 2017, n. 24502, Rv. 646335- 01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 4 agosto 2017, n. 19613, Rv. 645187-01); – che il ricorso va, dunque, rigettato;

– che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;

– che in ragione del rigetto del ricorso, va dato atto — ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 — della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, se dovuto, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando Luigi (OMISSIS) a rifondere, al Comune di Pomezia, le spese del presente giudizio, che liquida in € 1.500,00, oltre € 200,00 per esborsi, nonché 15% per spese generali più accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, se dovuto, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 26/11/2020.

Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.