L’archiviazione per prescrizione non può presentare la persona come colpevole (Corte Costituzionale, Sentenza 11 marzo 2024, n. 41).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, sul reclamo proposto da D.A.R. S., con ordinanza del 21 novembre 2022, iscritta al n. 6 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di D.A.R. S., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Raul Donato Pellegrini e Alessandro Lucchetti per D.A.R. S. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 24 gennaio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 21 novembre 2022, il Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, commi secondo e terzo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto, anche sotto il profilo della nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica».

1.1.– Innanzi al rimettente pende reclamo, proposto ai sensi dell’art. 410-bis cod. proc. pen. nell’interesse di D.A.R. S., avverso il decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha disposto l’archiviazione del procedimento penale aperto nei suoi confronti, richiamando e condividendo le motivazioni contenute nella corrispondente richiesta formulata dal pubblico ministero procedente.

Dall’ordinanza di rimessione e dai numerosi documenti prodotti dalla parte nel procedimento innanzi a questa Corte si evince che D.A.R. S. è un magistrato attinto da indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Lecce in seguito alle dichiarazioni di un imprenditore, che lo aveva accusato di avere percepito rilevanti somme di denaro in cambio della risoluzione, in termini favorevoli allo stesso imprenditore e alla sua famiglia, di una serie di controversie con l’Agenzia delle entrate pendenti innanzi alla commissione tributaria di cui il magistrato era, all’epoca, componente.

Avendo appreso da notizie di stampa delle accuse rivolte nei propri confronti dall’imprenditore, il magistrato denunciava quest’ultimo per calunnia.

Il 28 settembre 2021 il pubblico ministero procedente nei confronti del magistrato richiedeva al GIP del Tribunale di Lecce l’archiviazione del relativo procedimento penale. In particolare, nella richiesta di archiviazione si affermava che una parte delle accuse concernessero fatti qualificabili come corruzioni in atti giudiziari, che sarebbero stati commessi negli anni 2010 e 2011. La ricostruzione dell’imprenditore sarebbe stata suffragata da «molteplici elementi di riscontro documentali», puntualmente elencati nella richiesta di archiviazione; ma l’avvenuto decorso del termine di prescrizione avrebbe escluso «la possibilità di giungere ad una archiviazione con una formula diversa che attinga il merito della vicenda». La restante parte delle accuse riguardavano invece fatti – qualificabili come traffico di influenze illecite e collocati, secondo la ricostruzione dell’imprenditore, nel 2016 – rispetto ai quali, pur a fronte della ritenuta attendibilità dell’accusatore, sarebbero mancati «riscontri oggettivi individualizzanti» ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen., con conseguente impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio rispetto ad essi.

Il 29 settembre 2021 il GIP aveva emesso decreto di archiviazione «per le ragioni analiticamente esposte dal p.m. nella sua richiesta, ritenute corrette in fatto e in diritto e, perciò, pienamente condivise» dallo stesso GIP.

Conformemente alla disciplina processuale vigente, né la richiesta di archiviazione, né il successivo decreto di archiviazione venivano comunicati all’indagato.

Il 27 ottobre 2021 a quest’ultimo era stato invece notificato, nella sua qualità di persona offesa nel relativo procedimento per calunnia nei confronti dell’imprenditore che lo aveva accusato di corruzione in atti giudiziari, l’avviso della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero. Da quella richiesta il magistrato aveva appreso della parallela richiesta di archiviazione che concerneva la propria posizione.

Il magistrato, a questo punto, formulava al pubblico ministero e al GIP dichiarazione di rinuncia alla prescrizione per tutti i reati ipotizzati nei propri confronti, chiedendo altresì che non fosse emesso il decreto di archiviazione; ma il 2 novembre 2021 il pubblico ministero gli comunicava il non luogo a provvedere sulla sua istanza, dal momento che il GIP aveva ormai disposto l’archiviazione, con il menzionato provvedimento del 29 settembre 2021.

Il 9 novembre 2021 il magistrato, a mezzo del proprio difensore, proponeva reclamo al Tribunale, ai sensi dell’art. 410-bis cod. proc. pen., avverso il decreto di archiviazione emesso nei propri confronti, assumendone l’illegittimità per violazione del principio del contraddittorio. In particolare, il magistrato si doleva di non essere mai stato posto in condizione di esercitare il proprio diritto a rinunziare alla prescrizione, e dunque a esercitare il proprio «“diritto al processo” e, quindi, alla prova, nell’ambito dell’inalienabile diritto alla difesa, sancito dall’art. 24 Cost., in sintonia, peraltro con la presunzione di innocenza, di cui all’art. 27, comma 2, della stessa Carta costituzionale, ed all’art. 6, par. 2, CEDU»; diritto che, a suo avviso, dovrebbe essere esercitabile in ogni stato e grado del giudizio. E ciò anche in relazione al suo concreto interesse a essere giudicato nel merito in ordine alle accuse rivoltegli, suscettibili di produrre grave nocumento alla sua sfera professionale e lavorativa. In conclusione, il reclamante chiedeva l’annullamento parziale del decreto di archiviazione, limitatamente alla statuizione relativa all’intervenuta prescrizione, con riferimento in particolare agli episodi qualificati come corruzione in atti giudiziari.

1.2.– Il giudice del reclamo, rimettente nel procedimento incidentale innanzi a questa Corte, ritiene che il rimedio di cui all’art. 410-bis cod. proc. pen. sia effettivamente funzionale alla tutela del diritto al contraddittorio, ma – contrariamente a quanto assunto dal reclamante – sottolinea come il legislatore lo abbia circoscritto alle nullità ivi tassativamente indicate, che attengono all’osservanza di specifici obblighi stabiliti da altre disposizioni contigue; ciò che escluderebbe ogni possibilità di interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione. Il rimedio non sarebbe, pertanto, utilizzabile per sanzionare la violazione di un onere informativo non previsto da alcuna norma del codice.

Tuttavia, proprio la mancata previsione di tale onere informativo alla persona sottoposta alle indagini in caso di richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione del reato pretermetterebbe, ad avviso del giudice a quo, il diritto dell’indagato a rinunciare alla causa estintiva, e pertanto violerebbe:

– l’art. 3 Cost., «creando evidente disparità di trattamento rispetto a chi ben può agevolmente avvalersi del diritto di rinuncia alla prescrizione soltanto perché la maturazione della causa estintiva casualmente coincide con una diversa fase processuale», nonché rispetto alla persona sottoposta alle indagini nei cui confronti venga richiesta l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, che deve essere invece avvisata della richiesta di archiviazione;

– l’art. 24, secondo comma, Cost., «in quanto la rinuncia o meno alla prescrizione rientra in una precisa scelta processuale dell’indagato/imputato formulabile in ogni stato e grado del processo ed esplicativa del proprio inviolabile diritto di difesa inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova»;

– l’art. 111, commi secondo e terzo, Cost., «attesa l’elusione del contraddittorio con l’indagato necessario ad assicurargli la piena facoltà di esercitare i suoi diritti, tra cui quello alla rinuncia alla prescrizione».

Il rimettente richiama in proposito la sentenza n. 111 del 2022 di questa Corte, nonché recenti pronunce della Corte di cassazione (sezione prima penale, sentenza 3 ottobre 2019-4 febbraio 2020, n. 4671; sezione terza penale, sentenza 30 gennaio-25 maggio 2020, n. 15758), a sostegno della tesi secondo cui il principio di ragionevole durata del processo non potrebbe mai andare a discapito dei principi costituzionali di ragionevolezza, di inviolabilità del diritto di difesa e del contraddittorio come elemento costitutivo del giusto processo: principi – questi ultimi – dei quali il diritto a rinunziare alla prescrizione sarebbe a sua volta componente essenziale. Conseguentemente, «la pronuncia di un decreto di archiviazione de plano dichiarativo dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione senza che sia previsto alcun preventivo onere informativo dell’indagato sulla determinazione conclusiva assunta dal Pubblico Ministero e, conseguentemente, alcuna sanzione per la mancata interlocuzione» eliderebbe «in radice ogni possibilità per l’indagato di attivare il proprio diritto a una verifica di merito […] sebbene la legge sancisca la rinunciabilità alla prescrizione in ogni stato e grado del giudizio».

Dopo aver rammentato che la rinunciabilità della prescrizione è stata introdotta dalla sentenza n. 275 del 1990 di questa Corte, il rimettente sottolinea che «una facoltà è realmente tale soltanto se si pone il suo titolare nell’effettiva condizione di esercitarla», ciò che non avverrebbe ove la persona sottoposta alle indagini non venga informata della richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione formulata nei propri confronti.

Un onere informativo della persona sottoposta alle indagini è peraltro già previsto – prosegue il rimettente – dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. nell’ipotesi in cui l’archiviazione sia richiesta per particolare tenuità del fatto; ipotesi che costituirebbe «un preciso punto di riferimento, già presente nel sistema legislativo, in grado di orientare l’intervento della Corte costituzionale verso una soluzione non arbitraria», secondo i principi ripetutamente espressi da questa Corte in merito ai limiti del proprio sindacato (sono citate le sentenze n. 185 e n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018, n. 236 del 2016). Nel caso in esame, «la soluzione normativa che appare più adeguata e congeniale con il sistema vigente» sarebbe per l’appunto «l’estensione della disciplina già stabilita dal legislatore per il caso di richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto anche all’ipotesi di richiesta di archiviazione per intervenuta prescrizione del reato».

Ove questa Corte accogliesse tale soluzione, conclude il rimettente, il richiamo all’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. «consentirebbe di configurare anche in caso di mancanza del predetto avviso un’ipotesi di nullità del decreto di archiviazione eccepibile con lo strumento del reclamo dinanzi al Tribunale in composizione monocratica».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

L’interveniente sottolinea anzitutto la diversità della posizione dell’imputato già tratto a giudizio rispetto a quella della persona sottoposta alle indagini in un procedimento nell’ambito del quale venga richiesta l’archiviazione per intervenuta prescrizione; diversità dalla quale discenderebbe la non fondatezza della doglianza di violazione dell’art. 3 Cost. per effetto della mancata previsione di un onere informativo, nei confronti della persona sottoposta alle indagini, relativo alla richiesta medesima.

Né sarebbe ipotizzabile una violazione degli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., dal momento che la mancata informazione della persona sottoposta alle indagini non pregiudicherebbe alcun suo interesse giuridicamente rilevante. In effetti, un pregiudizio sarebbe configurabile soltanto «nell’ipotesi in cui l’indagato deduca uno specifico interesse ad impugnare un decreto di archiviazione fondato sull’intervenuta prescrizione del reato, come nell’ipotesi in cui lo stesso, dopo aver trascorso un periodo di sottoposizione a custodia cautelare in carcere fosse interessato a far valere l’ingiustizia della detenzione preventiva inflittagli per ottenere un indennizzo». «[I]n tale ipotesi» tuttavia – prosegue l’interveniente – «già la normativa vigente anteriormente all’introduzione nell’ordinamento dell’art. 410 bis c.p.p., consentiva all’indagato di impugnare col mezzo di impugnazione allora previsto (ricorso per cassazione) il decreto di archiviazione emesso per prescrizione del reato al fine di consentirgli di esercitare il diritto a rinunciare alla prescrizione» (è citata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 24 aprile-8 giugno 2018, n. 26289). A seguito poi dell’introduzione dell’art. 410-bis cod. proc. pen., il mezzo di impugnazione che permetterebbe di far valere tale diritto sarebbe costituito dal reclamo proponibile innanzi al tribunale in composizione monocratica.

3.– Il reclamante nel giudizio a quo si è costituito in giudizio, chiedendo l’accoglimento delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, ripercorrendo adesivamente le argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione e illustrando le ragioni per le quali egli avrebbe interesse a una pronuncia sul merito delle accuse rivoltegli dal denunciante. In particolare, i fatti a lui contestati sarebbero «di natura particolarmente esecrabile ed odiosa per un magistrato del suo rango e frutto di dichiarazioni false e calunniose», rispetto ai quali egli avrebbe un chiaro interesse ad affrontare il giudizio per essere prosciolto nel merito. E ciò anche in relazione ai pregiudizi da lui già subiti in conseguenza delle accuse rivoltegli, per le quali egli avrebbe già subito un procedimento disciplinare che – pur ormai archiviato – avrebbe «conservato l’“ombra” della prescrizione, tanto da essere già stata strumentalizzata in sede di valutazione finalizzata alla assegnazione dell’incarico direttivo» al quale lo stesso reclamante aspirava.

In prossimità dell’udienza, la parte ha depositato memoria illustrativa, in cui confuta gli argomenti dell’Avvocatura generale dello Stato, osservando in particolare come il diritto a rinunciare alla prescrizione durante il procedimento non possa dipendere dalla casuale circostanza che l’interessato venga o meno a conoscenza dello stesso. Piuttosto, ogni cittadino sottoposto a indagini dovrebbe «essere portato a conoscenza del loro esito, anche nel caso di archiviazione per intervenuta prescrizione proprio per evitare la causa di proscioglimento (di rito) ed accedere alla formula di archiviazione che escluda, nel merito, la sussistenza dei fatti ascritti o la loro configurabilità come reato». Non potrebbe, infatti, affermarsi «che solo l’imputato subisce pregiudizi per il fatto di essere sottoposto a processo: al contrario, nella grande maggioranza dei casi, è proprio la fase delle indagini preliminari a lasciare “una macchia” indelebile sulla persona dell’indagato», che egli non potrebbe neppure tentare di eliminare, «non sussistendo alcun obbligo di notifica della richiesta di archiviazione per prescrizione nei suoi confronti ed essendo quindi a lui impedito di rinunciare alla prescrizione».

D’altra parte – prosegue il reclamante nel giudizio a quo – il pregiudizio da lui subito sarebbe dimostrato dall’utilizzazione del provvedimento di archiviazione da parte della Quinta commissione del Consiglio superiore della magistratura, in sede di audizione conseguente alla sua domanda di conferimento di un incarico direttivo, come risulta dai relativi verbali e dalla delibera conclusiva allegati alla memoria illustrativa. In tale delibera, osserva la parte, si legge d’altronde che le argomentazioni dell’interessato non sarebbero idonee «in modo incontrovertibile», allo stato, ad «attenuare la gravità del quadro probatorio quale risulta dalla menzionata richiesta di archiviazione (condivisa dal GIP)»; tanto che la Quinta commissione si sarebbe determinata a soprassedere dalla valutazione di tale quadro probatorio solo in conseguenza del reclamo al Tribunale di Lecce proposto dallo stesso interessato avverso il decreto di archiviazione.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, commi secondo e terzo, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto, anche sotto il profilo della nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica».

Dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione si evince che il giudice a quo aspira a una pronuncia additiva, con la quale questa Corte estenda l’obbligo – già ora previsto dalla disposizione censurata – di avvisare la persona sottoposta alle indagini della richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, anche alla diversa ipotesi in cui tale archiviazione sia fondata sull’intervenuta prescrizione del reato. L’avviso sarebbe, nell’ottica del rimettente, essenziale per assicurare all’indagato la possibilità di rinunciare alla prescrizione prima che il procedimento sia concluso, e di ottenere così una pronuncia sul merito degli addebiti oggetto del procedimento stesso.

La mancata previsione di tale obbligo informativo determinerebbe, secondo il giudice a quo, un vulnus al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., creando una irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato – che ha sempre la possibilità di esercitare il proprio diritto di rinunciare alla prescrizione – e la persona sottoposta alle indagini, la quale potrebbe essere rimasta del tutto ignara sia delle indagini stesse, sia della determinazione del pubblico ministero di chiedere l’archiviazione del procedimento per intervenuta prescrizione; e creerebbe una ulteriore disparità di trattamento rispetto alla situazione dell’indagato nei cui confronti venga richiesta l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, la quale deve essere avvisata della richiesta di archiviazione.

La disciplina vigente risulterebbe altresì incompatibile con l’art. 24, secondo comma, Cost., non assicurando che la persona sottoposta alle indagini sia posta in condizione di rinunciare alla prescrizione, e dunque di esercitare una facoltà che questa Corte, nella sentenza n. 275 del 1990, ha considerato come parte integrante del diritto di difesa.

Infine, sarebbe vulnerato il principio del contraddittorio di cui all’art. 111, commi secondo e terzo, Cost., dal momento che la persona sottoposta alle indagini non sarebbe posta in grado di esercitare il proprio diritto a provare la falsità degli addebiti oggetto del procedimento penale.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato non solleva alcuna eccezione di inammissibilità.

In effetti le questioni, ampiamente argomentate sotto il profilo della non manifesta infondatezza, sono altresì rilevanti per la definizione del giudizio a quo.

Il rimettente è investito di un reclamo presentato, ai sensi dell’art. 410-bis cod. proc. pen., da una persona destinataria di un decreto di archiviazione per prescrizione pronunciato dal GIP, senza che le fosse mai stato dato avviso della relativa richiesta da parte del pubblico ministero.

Il giudice a quo rileva che l’art. 410-bis cod. proc. pen. prevede, al comma 1, un elenco tassativo di cause di nullità del decreto di archiviazione, che comprende l’omissione degli avvisi della richiesta di archiviazione prescritti dalla legge, tra cui in particolare l’avviso alla persona sottoposta alle indagini, previsto dal censurato art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., nell’ipotesi in cui il pubblico ministero ritenga che il reato sia di particolare tenuità. Nessun avviso è però previsto nel caso in cui l’archiviazione sia richiesta per intervenuta prescrizione del reato. Conseguentemente, il reclamo dovrebbe essere rigettato, non ricorrendo alcuna causa di nullità del decreto di archiviazione.

Laddove, invece, questa Corte ritenesse costituzionalmente illegittima la mancata previsione – da parte dello stesso art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. – di un obbligo di avviso anche in questa ipotesi, l’omissione di tale avviso determinerebbe una violazione dello stesso art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., sicché – nel caso concreto – il decreto di archiviazione pronunciato dal GIP dovrebbe essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 410-bis, comma 1, cod. proc. pen. Ciò comporterebbe – in base al successivo comma 4 del medesimo articolo – l’accoglimento del reclamo e la restituzione degli atti al GIP. Esito, questo, che consentirebbe all’interessato – nella prospettiva del rimettente – di esercitare in tempo utile il proprio diritto di rinunciare alla prescrizione.

3.– Nel merito, le questioni non sono fondate, nei sensi di seguito precisati.

3.1.– Perno della prospettazione del giudice a quo, rispetto a tutti e tre i parametri costituzionali evocati, è l’assunto secondo il quale non solo l’imputato, ma anche la persona sottoposta alle indagini sarebbe titolare di un diritto, di rango costituzionale, a rinunciare alla prescrizione, e a ottenere un giudizio sul merito dei fatti che hanno formato oggetto delle indagini. Tale diritto discenderebbe dal diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nella sua declinazione più specifica del diritto al contraddittorio (art. 111, commi secondo e terzo, Cost.), che garantirebbe alla persona sottoposta a indagini di poter sempre ottenere una «verifica di merito» sulla notitia criminis che ha dato luogo alle indagini preliminari.

Questo assunto, solo apparentemente ovvio, merita un attento esame.

3.2.– La sentenza n. 275 del 1990 – superando il proprio precedente rappresentato dalla sentenza n. 202 del 1971 – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 157, cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere rinunciata dall’imputato. A tale conclusione questa Corte è pervenuta valorizzando il diritto di difesa dell’imputato, «inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova» (punto 3 del Considerato in diritto), sulla base in sostanza delle argomentazioni già svolte dalla sentenza n. 175 del 1971, con la quale si era affermata la rinunciabilità dell’amnistia.

In quest’ultima sentenza si era in particolare sottolineato che «la rinunzia all’amnistia costituisce esplicazione del diritto di difesa, sembrando chiaro discendere da tale affermazione come in quest’ultimo sia da considerare inclusa non solo la pretesa al regolare svolgimento di un giudizio che consenta libertà di dedurre ogni prova a discolpa e garantisca piena esplicazione del contraddittorio, ma anche quella di ottenere il riconoscimento della completa innocenza, da considerare il bene della vita costituente l’ultimo e vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale» (punto 8 del Considerato in diritto).

Va peraltro sottolineato come tanto la sentenza n. 175 del 1971 in materia di amnistia, quanto la sentenza n. 275 del 1990 relativa alla prescrizione, siano state pronunciate in riferimento a processi penali già instaurati; e come la ratio decidendi di entrambe queste sentenze sia ritagliata proprio su questa ipotesi.

Particolarmente eloquente, in proposito, la motivazione della sentenza n. 175 del 1971, in cui si sottolinea che, con l’obbligo per il giudice di dichiarare l’estinzione del reato «in tutti i giudizi in corso al momento del sopravvenire di un procedimento di amnistia», viene «compromessa irreparabilmente la soddisfazione dell’interesse ad ottenere una sentenza di merito, vincolando invece l’imputato a soggiacere ad una pronuncia di proscioglimento, la quale, appunto perché non scende ad accertare e neppure solo a delibare la fondatezza dell’accusa […] non conferisce alcuna certezza circa l’effettiva estraneità dell’imputato all’accusa contro di lui promossa, e quindi lascia senza protezione il diritto alla piena integrità dell’onore e della reputazione». E ancora, alla riga seguente, il riferimento è alla «rilevanza costituzionalmente protetta dell’interesse di chi sia perseguito penalmente ad ottenere non già solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga alla irrogazione di una pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza».

«[G]iudizi in corso», «accusa contro di lui promossa», «perseguito penalmente»: tutte le espressioni utilizzate in questa densa motivazione richiamano la situazione di un «imputato» che sia già stato formalmente accusato di un reato in un giudizio. Non già quella di chi sia meramente sottoposto a indagini in seguito a una notitia criminis che lo riguardi.

La stessa sentenza n. 275 del 1990, pur se motivata in termini assai più sintetici, allude chiaramente alla medesima situazione processuale, allorché afferma, nel capoverso conclusivo della motivazione, che «in presenza della rinuncia alla estinzione, il giudice non potrà dare ad essa immediata applicazione perché il reato non è estinto, e dovrà, perciò, dare ingresso alle prove richieste e pronunciarsi sulla imputazione». Il riferimento è, anche qui, ad un giudizio già incardinato: l’unico contesto, d’altronde, in cui un «giudice» sia tenuto a «dare ingresso alle prove richieste» dall’imputato a proprio discarico.

3.3.– Recependo il dispositivo della sentenza n. 275 del 1990, il legislatore del 2005, nel riscrivere l’art. 157 del codice penale, ha espressamente precisato al settimo comma che «[l]a prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato».

Ancora una volta, il riferimento testuale è qui soltanto all’imputato, e dunque a colui nei cui confronti è stata esercitata l’azione penale ai sensi dell’art. 60, comma 1, cod. proc. pen.

Ciò non escluderebbe, in verità, la possibilità di estendere in via ermeneutica alla persona sottoposta alle indagini il diritto di rinunciare alla prescrizione. In effetti, l’art. 61 cod. proc. pen. dispone in via generale che «[i] diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari» (comma 1), e che «[a]lla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito» (comma 2). Tuttavia, l’applicabilità di questa regola generale – dettata con riferimento allo specifico contesto del codice di procedura penale – non può essere considerata automaticamente e necessariamente trasferibile a una regola dettata dal codice penale con riferimento alla prescrizione: istituto di cui è pacifica, nella stessa giurisprudenza di questa Corte, la natura sostanziale anziché processuale (ex multis, sentenze n. 140 del 2021, punto 12 del Considerato in diritto; n. 278 del 2020, punto 9 del Considerato in diritto; n. 115 del 2018, punto 10 del Considerato in diritto).

Né può essere considerato decisivo, contrariamente a quanto sostenuto nelle proprie memorie e poi in udienza dalla difesa della parte, l’uso dell’avverbio «sempre» da parte dell’art. 157, settimo comma, cod. pen. L’espressione è qui riferita a chi sia già «imputato» ai sensi dell’art. 60 cod. proc. pen.: il quale potrà pertanto – nell’intero arco di tempo che va dall’esercizio dell’azione penale sino al momento in cui il provvedimento che lo riguarda divenga irrevocabile – rinunciare alla prescrizione. Purché, però, abbia già assunto la qualifica di imputato.

Il dato normativo non è, dunque, conclusivo in un senso o nell’altro.

3.4.– Quanto alla giurisprudenza penale, il quadro è – se possibile – ancora più sfocato.

Una ormai remota sentenza, intervenuta all’indomani dell’entrata in vigore del vigente codice di procedura penale, ha negato che la persona sottoposta a indagini abbia il diritto di rinunciare all’amnistia (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 12 dicembre 1991-4 febbraio 1992, n. 2314), in tal modo confinando il principio espresso dalla sentenza n. 175 del 1971 di questa Corte alla posizione del solo imputato.

Sulla stessa scia si è mossa, in materia di rinuncia alla prescrizione, una pronuncia che ha giudicato non fondato un ricorso avverso un decreto di archiviazione per prescrizione, in cui l’interessato si doleva – esattamente come nel caso oggetto del giudizio a quo – di non essere stato posto in grado di rinunciarvi durante le indagini preliminari (Corte di cassazione, sezione sesta penale, ordinanza 26 ottobre-7 dicembre 2005, n. 45001).

Una più recente decisione ha invece ritenuto ammissibile e fondato un ricorso contro un decreto di archiviazione per prescrizione relativo a un imputato che vi aveva già espressamente rinunciato durante le indagini (Cass., n. 26289 del 2018): il che logicamente presuppone l’implicito riconoscimento della possibilità, anche per la persona sottoposta alle indagini, di rinunciarvi – nel caso allora in esame, allo scopo di conservare il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione conseguente alla custodia cautelare subita. Diritto che una costante giurisprudenza nega in larga misura, in caso di estinzione del reato per prescrizione, a chi abbia subito un periodo di custodia (sul punto, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 ottobre 2014-20 gennaio 2015, n. 2451; sezione quarta penale, sentenza 15 ottobre-4 novembre 2013, n. 44492).

Una pronuncia di poco successiva, infine, ha negato che una persona già sottoposta a indagini avesse un «interesse concreto all’instaurazione del contraddittorio» relativamente a un decreto di archiviazione per prescrizione emesso de plano dal GIP, senza che la persona medesima – che peraltro in quel caso non aveva subito alcuna custodia cautelare, né aveva allegato alcun altro pregiudizio discendente dalle indagini – avesse avuto la possibilità di rinunciare alla prescrizione. Infatti, osserva la sentenza, il decreto di archiviazione è «atto concepito dal legislatore come anteriore all’esercizio dell’azione penale, correlato alla insussistenza degli estremi per esercitarla, che in nessun modo può pregiudicare gli interessi della persona indicata come responsabile nella notizia di reato, o l’interesse della pubblica accusa a riaprire le indagini» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 23 ottobre-15 novembre 2019, n. 46491; in precedenza, nello stesso senso, sezione terza penale, sentenza 17 novembre 2015-12 gennaio 2016, n. 818, e sezione prima penale, sentenza 23 febbraio-18 marzo 1999, n. 1560).

La giurisprudenza penale di legittimità non pare, dunque, avere ancora affrontato – quanto meno ex professo – la questione, centrale ai fini dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, se alla persona sottoposta alle indagini debba essere riconosciuto in via generale – e dunque, a prescindere dal caso specifico in cui sia stata destinataria di una misura cautelare – quel medesimo diritto di rinunciare alla prescrizione che è pacificamente riconosciuto all’imputato, a valle dell’esercizio dell’azione penale.

3.5.– Questa Corte è pertanto chiamata, per la prima volta, a valutare se i parametri costituzionali evocati dal rimettente – e cioè il diritto alla difesa in giudizio e al contraddittorio, oltre che l’eguaglianza di trattamento tra imputato e indagato – impongano di estendere anche a quest’ultimo il diritto già riconosciuto all’imputato dalla sentenza n. 275 del 1990.

3.6.– In proposito, va anzitutto ribadito come la ratio essenziale delle pronunce di questa Corte con le quali si è riconosciuto all’imputato il diritto costituzionale di rinunciare all’amnistia e alla prescrizione riposi sulla necessità di consentire all’imputato medesimo di tutelare il proprio onore e la propria reputazione contro il pregiudizio rappresentato da un’accusa formalizzata nei suoi confronti. L’imputato deve, in tal caso, essere posto in condizione di difendersi in giudizio contro l’accusa, e in particolare di esercitare il proprio diritto di «difendersi provando» (sentenza n. 318 del 1992, punto 5 del Considerato in diritto, nonché, ex multis, sentenza n. 260 del 2020, punto 7.6. del Considerato in diritto), ossia di addurre prove in giudizio a proprio discarico, oltre che di contestare le prove poste a fondamento dell’accusa.

Non pare, tuttavia, a questa Corte che tale diritto debba in ogni caso estendersi anche alla fase precedente all’esercizio dell’azione penale.

3.7.– In effetti, la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato che consegue all’acquisizione di una notitia criminis non implica ancora che il pubblico ministero abbia effettuato alcun vaglio, per quanto provvisorio, sulla sua fondatezza: tant’è vero che l’art. 335-bis cod. proc. pen. esclude oggi espressamente qualsiasi effetto pregiudizievole di natura civile o amministrativa per l’interessato in ragione di tale iscrizione, la quale è un atto dovuto una volta che il pubblico ministero abbia ricevuto una notizia di reato attribuita a una persona specifica. Più in generale, l’iscrizione nel registro è – e deve essere considerata – atto “neutro”, dal quale sarebbe affatto indebito far discendere effetti lesivi della reputazione dell’interessato, e che comunque non può in alcun modo essere equiparato ad una “accusa” nei suoi confronti.

Parallelamente, il provvedimento di archiviazione, con cui il GIP si limita a disporre la chiusura delle indagini preliminari conformemente alla richiesta del pubblico ministero, costituisce nella sostanza null’altro che un contrarius actus rispetto a quello – l’iscrizione nel registro delle notizie di reato – che determina l’apertura delle indagini preliminari. Se “neutro” è il provvedimento iniziale, altrettanto “neutro” non può che essere il provvedimento conclusivo. Ad ogni effetto giuridico.

3.8.– Naturalmente, questa Corte è ben conscia della gravità dei danni che possono essere provocati alla reputazione delle persone – e, a cascata, alla loro vita familiare, sociale, professionale – a seguito della indebita propalazione, in particolare tramite la stampa, internet e i social media, della mera notizia dell’apertura di procedimenti penali nei loro confronti, così come di eventuali provvedimenti di archiviazione che diano comunque conto degli elementi a carico raccolti durante le indagini, pur concludendo poi nel senso della impossibilità di esercitare l’azione penale, per intervenuta prescrizione o per altra delle ragioni indicate dagli artt. 408 e 411 cod. proc. pen.

Tuttavia, fermo restando quanto si dirà in ordine al carattere del tutto indebito dei provvedimenti di archiviazione per prescrizione che esprimano valutazioni sulla colpevolezza della persona già sottoposta alle indagini (infra, punto 4.1.), il tema qui in discussione è se i rimedi per la tutela della reputazione dell’interessato debbano, per necessità costituzionale, comprendere anche la rinuncia alla prescrizione, allo scopo di ottenere una pronuncia liberatoria sul merito della notitia criminis.

Al riguardo, va sottolineato come l’interessato disponga anzitutto dei mezzi ordinari a difesa della propria reputazione – a cominciare dalla denuncia e/o querela per calunnia e diffamazione aggravata, sino all’azione aquiliana – contro qualsiasi privato che lo abbia ingiustamente accusato di avere commesso un reato, nonché contro ogni indebita utilizzazione, da parte dei media, degli elementi di indagine e dello stesso provvedimento di archiviazione, così da presentare di fatto la persona come colpevole.

Inoltre, un elementare principio di civiltà giuridica impone che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un’indagine sfociata in un provvedimento di archiviazione debbano sempre essere oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati, dovendosi in particolare assicurare all’interessato le più ampie possibilità di contraddittorio, secondo le regole procedimentali o processuali vigenti nel settore ordinamentale coinvolto. E ciò tenendo sempre conto che durante le indagini preliminari la persona sottoposta alle indagini ha possibilità assai limitate per esercitare un reale contraddittorio rispetto all’attività di ricerca della prova del pubblico ministero e ai suoi risultati (riassunti o meno che siano in un provvedimento di archiviazione), i quali dunque non potranno sic et simpliciter essere utilizzati in diversi procedimenti senza che l’interessato possa efficacemente contestarli, anche mediante la presentazione di prove contrarie.

3.9.– Tutto ciò posto, questa Corte non ritiene debba riconoscersi in via generale alla persona sottoposta a indagini la titolarità di un diritto costituzionale ad un accertamento negativo su qualsiasi notitia criminis che la riguardi, da realizzare già nello specifico contesto del giudizio penale. Un diritto, insomma, che implichi la possibilità di “difendersi provando” contro accuse mai formalizzate dal pubblico ministero.

Ove si intendesse ravvisare un tale diritto, occorrerebbe infatti chiarire in quale sede processuale, e innanzi a quale autorità giudiziaria, esso sarebbe destinato ad essere esercitato.

Le indagini preliminari, all’evidenza, non sono strutturate dal legislatore come luogo idoneo per esercitare un tale diritto alla prova. La persona sottoposta alle indagini può, certo, compiere indagini difensive attraverso il proprio avvocato; ma non ha alcun mezzo per obbligare il pubblico ministero ad assumere prove a proprio discarico.

Il diritto alla prova può, invece, fisiologicamente esercitarsi nell’ambito del processo, in cui si dispiegano tutti i diritti e le garanzie difensive riconosciute all’imputato dal codice di procedura penale, e prima ancora dalla Costituzione. Ma l’imputato, ancora una volta, non ha alcun mezzo per obbligare il pubblico ministero, e poi lo stesso GIP, a provocare l’instaurazione di un processo, al solo fine di poter dimostrare l’infondatezza della notitia criminis.

Ed invero – pur nell’ambito di un sistema processuale in cui, per vincolo costituzionale, il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale – la sussistenza dei presupposti di legge per il suo esercizio, nel singolo caso concreto, resta affidata dalla legge vigente alla prudente valutazione dello stesso pubblico ministero, sotto il controllo del GIP, ed eventualmente del giudice dell’udienza preliminare. In particolare, l’art. 408, comma 1, cod. proc. pen., impone al pubblico ministero di valutare se gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari consentano di «formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca»; e di richiedere al GIP l’archiviazione del procedimento nell’ipotesi in cui egli ritenga di escludere tale ragionevole previsione.

La ratio della disposizione – che enuncia oggi uno standard più selettivo rispetto a quello, in vigore sino al 2022, imperniato sulla mera sussistenza di «elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio» – sottende la consapevolezza, da parte del legislatore, che il processo penale è una risorsa scarsa, che implica costi ingenti a carico di tutte le persone coinvolte, in termini materiali ed “esistenziali” (sentenza n. 149 del 2022, punto 5.1.1. del Considerato in diritto), oltre che oneri economici importanti per l’intera collettività. Una risorsa, dunque, da utilizzare con parsimonia, e che il legislatore ha inteso, non certo irragionevolmente, sottrarre alla disponibilità tanto della persona sottoposta alle indagini, quanto della stessa persona offesa – la quale può soltanto opporsi innanzi al GIP alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero (art. 410 cod. proc. pen.), ma non determinare essa stessa l’esercizio dell’azione penale.

3.10.– Le considerazioni che precedono conducono a escludere che dai parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente discenda, in via generale, il diritto della persona sottoposta alle indagini a rinunciare alla prescrizione.

Se, infatti, il diritto a rinunciare alla prescrizione deriva dal diritto di “difendersi provando”, secondo quanto affermato in sostanza dalla giurisprudenza di questa Corte poc’anzi richiamata, il suo riconoscimento già durante le indagini preliminari dovrebbe idealmente accompagnarsi al riconoscimento di un potere dispositivo della persona sottoposta alle indagini di provocare l’instaurazione di un processo, in cui quel diritto possa essere utilmente esercitato. Potere – però – che il sistema processuale vigente non le riconosce, e che non le sarebbe riconosciuto nemmeno laddove le odierne questioni di legittimità costituzionale fossero accolte, posto che al pubblico ministero e poi al GIP residuerebbe sempre la possibilità, rispettivamente, di chiedere l’archiviazione e di archiviare il procedimento, ritenendo non ragionevolmente prevedibile una sentenza di condanna sulla base degli elementi acquisiti nel corso delle indagini.

Né può ritenersi sussistente alcun vulnus all’art. 3 Cost. in conseguenza del differente trattamento della persona sottoposta alle indagini rispetto all’imputato, quanto al diritto di rinunciare alla prescrizione. La differenza di trattamento si giustifica proprio considerando la loro differente situazione: la prima attinta da una mera notitia criminis, atto “neutro” dal quale non deve – per esplicita indicazione normativa – derivare alcuna conseguenza pregiudizievole; il secondo accusato invece formalmente della commissione di un reato da parte del pubblico ministero, attraverso un atto di esercizio dell’azione penale che è funzionale all’instaurazione di un giudizio, nel quale i suoi diritti difensivi garantiti dalla Costituzione e dal codice di rito potranno pienamente dispiegarsi.

Né, infine, sussiste una irragionevole disparità di trattamento tra l’ipotesi in cui l’archiviazione è richiesta per prescrizione ovvero per particolare tenuità del fatto. In quest’ultimo caso, infatti, l’interessato potrebbe essere soggetto a un provvedimento di archiviazione a valenza «soltanto parzialmente liberatoria, con la quale si dà pur sempre atto dell’avvenuta commissione di un fatto di reato, ancorché in concreto non punibile per la particolare esiguità del danno o del pericolo cagionato» (sentenza n. 116 del 2023); provvedimento che, peraltro, sarà iscrivibile nel casellario giudiziale. E ciò a differenza di quanto accade nel caso di archiviazione per prescrizione: provvedimento “neutro”, che – come meglio si dirà (infra, punto 4.1.). – deve limitarsi a dare atto dell’avvenuto decorso del tempo necessario a prescrivere, senza esprimere alcuna valutazione sulla effettiva commissione del fatto di reato.

3.11.– In definitiva, il diritto a rinunciare alla prescrizione, che questa Corte ha riconosciuto nella sentenza n. 275 del 1990, deve essere rettamente inteso come diritto a difendersi “nel giudizio” contro un’accusa già formulata dal pubblico ministero, al fine di vedere riconosciuta nel merito l’infondatezza di tale accusa; ma non implica anche che si debba derivare dai principi costituzionali un generale diritto “al giudizio”, ossia un diritto a che sia instaurato un processo nel quale l’interessato sia posto in condizioni di dimostrare l’infondatezza di qualsiasi notitia criminis che lo riguarda.

Da ciò deriva, altresì, l’insussistenza di un vincolo costituzionale, al cui riconoscimento mirano le questioni di legittimità costituzionale ora all’esame, nel senso della necessaria previsione di un obbligo, a carico del pubblico ministero, di avvisare la persona sottoposta alle indagini della richiesta di archiviazione per prescrizione formulata nei suoi confronti: obbligo che il rimettente fa discendere, per l’appunto, dall’assunto di un diritto dell’indagato a rinunciare alla prescrizione medesima.

3.12.– La conclusione ora raggiunta appare in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che – in particolare – ha in un’occasione negato che fosse stato violato il diritto di accesso a un tribunale stabilito dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU in conseguenza dell’impossibilità, per un deputato turco, di rinunciare all’immunità di cui godeva in quanto parlamentare e di ottenere un giudizio sul merito delle accuse formulate nei suoi confronti (Corte EDU, grande camera, sentenza 3 dicembre 2009, Kart contro Turchia); e in un’altra occasione ha escluso, richiamando quel precedente, la violazione del diritto alla presunzione di innocenza di cui all’art. 6, paragrafo 2, CEDU, in un caso in cui il ricorrente, tra l’altro, si doleva dell’impossibilità di ottenere un giudizio sul merito della propria responsabilità penale, a fronte di un provvedimento di archiviazione delle indagini per amnistia (Corte EDU, sentenza 17 gennaio 2017, Béres e altri contro Ungheria).

In entrambe le occasioni, la Corte ha sottolineato che «il diritto di ottenere un giudizio in merito a un’accusa penale non è assoluto, in particolare quando non si è verificato alcun effetto dannoso fondamentale e irreversibile in capo alle parti» (Kart contro Turchia, paragrafo 113; Béres e altri contro Ungheria, paragrafo 33).

3.13.– L’inesistenza di un generale diritto costituzionale dell’interessato a un accertamento negativo sulla (mera) notitia criminis non esclude, infine, che un diritto a rinunciare alla prescrizione possa invece essere riconosciuto a chi sia stato in concreto attinto, durante le indagini preliminari, da misure limitative dei propri diritti fondamentali, subendo così – con le parole della Corte EDU – un pregiudizio rilevante per effetto dell’uso di poteri coercitivi da parte dell’autorità giudiziaria; e ciò sulla base di una (pur provvisoria) valutazione di fondatezza della notitia criminis medesima, da parte del pubblico ministero e dello stesso GIP, secondo i diversi standard richiesti per l’adozione di tali misure. In effetti, come poc’anzi rammentato (supra, 3.4.), la giurisprudenza penale ha riconosciuto tale diritto a chi abbia subito un periodo di custodia cautelare, e abbia pertanto un concreto interesse a rinunciare alla prescrizione.

Anche rispetto alle specifiche ipotesi in parola, peraltro, l’introduzione di un obbligo di avviso relativo alle richieste di archiviazione per prescrizione formulate dal pubblico ministero non risulterebbe indispensabile rispetto alla finalità di permettere all’interessato di rinunciarvi, avendo egli necessariamente avuto conoscenza delle indagini nel momento stesso in cui è stato attinto dalla misura coercitiva.

4.– La sostenibilità costituzionale della conclusione che nega, in linea di principio, l’esistenza di un diritto costituzionale a rinunciare alla prescrizione in capo alla persona sottoposta alle indagini riposa sull’assunto secondo cui né dalla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato, né dal provvedimento di archiviazione, debba essere fatta discendere alcuna conseguenza giuridica pregiudizievole per l’interessato (supra, punto 3.7.).

Il caso concreto oggetto del giudizio a quo è, però, emblematico di una specifica patologia, rappresentata da una richiesta di archiviazione per prescrizione, le cui argomentazioni sono integralmente fatte proprie dal GIP, nella quale si indugia – prima della constatazione del decorso del termine prescrizionale dal momento di commissione del fatto descritto dalla notitia criminis – in apprezzamenti sulla fondatezza della notitia criminis stessa.

Simili provvedimenti sono gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona interessata; e devono pertanto essere rimossi attraverso appropriati rimedi processuali.

4.1.– Richieste o decreti di archiviazione che, anziché limitarsi a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, esprimano giudizi sulla colpevolezza dell’interessato, violano in maniera eclatante – oltre che la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. – il suo diritto di difesa, inteso anche quale diritto di “difendersi provando”: diritto che è in radice negato dall’affermazione, da parte del pubblico ministero o del GIP, del carattere veritiero, o comunque affidabile, degli elementi acquisiti nel corso di un’indagine, senza che sia assicurata all’indagato – che potrebbe anzi essere rimasto del tutto ignaro dell’indagine – alcuna effettiva possibilità di contraddirli, ed eventualmente di provare il contrario.

Provvedimenti siffatti risultano, d’altra parte, indebiti anche a fronte della considerazione che, una volta riscontrato l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, gli stessi poteri di indagine e di valutazione del pubblico ministero sui fatti oggetto della notitia criminis vengono meno, non operando nella fase delle indagini preliminari né per il pubblico ministero, né per il GIP, l’obbligo di apprezzare – con priorità logica rispetto alla verifica delle cause estintive del reato – l’evidenza dell’innocenza della persona sottoposta alle indagini, come accade invece nell’ambito del giudizio, ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (Corte di cassazione, ordinanza n. 45001 del 2005; sezione sesta penale, sentenza 19 ottobre-16 novembre 1990, n. 2702).

Infine, richieste o decreti di archiviazione così motivati perdono, per ciò solo, il carattere di “neutralità” che li dovrebbe caratterizzare, e sono in concreto suscettibili di produrre – ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade – gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate. Ciò che, in ipotesi, potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato, laddove ricorrano i presupposti rispettivamente previsti dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) e dal decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150).

4.2.– Del possibile rimedio contro simili provvedimenti si è ampiamente discusso tra le parti in sede di udienza, anche sulla scorta dei quesiti loro preventivamente posti ai sensi dell’art. 10, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Al riguardo, occorre anzitutto sottolineare il rilievo oggi assunto sul tema dalla direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. L’art. 4, paragrafo 1, di tale direttiva prevede che «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, […] le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole».

Al paragrafo 2 dello stesso art. 4, la direttiva dispone inoltre che «[g]li Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell’obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l’articolo 10». Tale ultima disposizione prevede, a sua volta, il dovere a carico degli Stati membri di assicurare che «gli indagati e imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti conferiti dalla presente direttiva».

Nel trasporre la direttiva nell’ordinamento italiano, il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188, recante «Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali», ha introdotto nel codice di procedura penale un nuovo art. 115-bis. Tale disposizione prevede un rimedio ad hoc per il caso in cui la persona sottoposta a indagini o l’imputato sia indicata quale colpevole in «provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato», come, per l’appunto, la richiesta o il decreto di archiviazione per prescrizione, in cui l’autorità giudiziaria (salve talune specialissime ipotesi in cui debba contestualmente applicare un provvedimento di confisca obbligatoria: sul punto, sentenza n. 172 del 2023) è semplicemente tenuta a prendere atto dell’avvenuto decorso del tempo e disporre, conseguentemente, l’archiviazione del procedimento penale.

4.3.– Peraltro, anche prima dell’introduzione di tale rimedio – verosimilmente inapplicabile, ratione temporis, nel giudizio a quo – il combinato disposto degli artt. 4 e 10 della direttiva 2016/343/UE, il cui termine di recepimento era fissato al 1° aprile 2018, già conferiva alla persona sottoposta alle indagini un diritto, immediatamente azionabile, a un rimedio effettivo.

Una risalente sentenza di legittimità aveva, del resto, già ritenuto affetto da abnormità un decreto di prescrizione per amnistia in cui il GIP si era diffuso sulla qualificazione giuridica del fatto e sulla sussistenza del delitto oggetto della notitia criminis (Cass., n. 1560 del 1999).

Tale qualificazione potrebbe in ipotesi attagliarsi anche al caso, strutturalmente identico, in cui un decreto di archiviazione per prescrizione contenga nella sostanza una valutazione di colpevolezza della persona sottoposta a indagini, che il vigente sistema processuale considera invece come contenuto tipico di una sentenza di condanna.

Provvedimenti siffatti evidenziano, a ben guardare, una vera e propria deviazione del provvedimento rispetto allo scopo tipico dell’atto, nel senso – più in particolare – di «esercizio di un potere previsto dall’ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge», e perciò di «carenza di potere in concreto» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 26 marzo-22 giugno 2009, n. 25957, nonché, più di recente, ex multis, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-8 gennaio 2021, n. 418), con un effetto di grave vulnus ai diritti costituzionali dell’interessato (per recenti ipotesi in cui la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto affetto da abnormità il decreto di archiviazione, anche in ragione della lesione del diritto di difesa dell’interessato, si vedano Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 settembre-3 dicembre 2021, n. 44926; sezione seconda penale, sentenza 20 aprile-3 maggio 2021, n. 16779; sezioni unite penali, sentenze 22 marzo-24 settembre 2018, n. 40984 e 28 novembre 2013-30 gennaio 2014, n. 4319).

4.4.– Se, comunque, l’individuazione del rimedio appropriato in queste ipotesi resta riservata alla valutazione della giurisprudenza di legittimità, questa Corte non può non sottolineare che un adeguato soddisfacimento delle esigenze costituzionali di tutela del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio relativamente a decreti di archiviazione per prescrizione, i quali indebitamente abbiano espresso valutazioni sulla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini, è componente essenziale della sostenibilità costituzionale del delicato bilanciamento tra opposti interessi cristallizzato nel vigente ordinamento processuale.

In altre parole, il mancato riconoscimento alla persona sottoposta alle indagini di un diritto a provocare un accertamento negativo della notitia criminis nell’ambito di un giudizio penale non è costituzionalmente illegittimo soltanto in quanto l’ordinamento sia in grado – per altra via – di assicurare un rimedio effettivo contro ogni eventuale violazione, da parte dall’autorità giudiziaria, del diritto fondamentale della persona medesima a non essere presentata come colpevole senza avere potuto difendersi e presentare prove a proprio discarico.

E tale rimedio non potrebbe comunque essere subordinato alla rinuncia alla prescrizione da parte dell’interessato, nei limiti in cui tale diritto sia in concreto esercitabile. In effetti, la persona sottoposta alle indagini, se non ha in via generale il diritto di rinunciarvi, ha invece il pieno diritto di avvalersi della prescrizione, che è posta a tutela anche del suo soggettivo interesse a essere lasciata in pace dalla pretesa punitiva statale, rimasta inattiva per un rilevante lasso di tempo dalla commissione del fatto a lei attribuito, senza che tale legittima scelta di avvalersi della prescrizione comporti, per l’interessato, la perdita del suo diritto fondamentale a non essere pubblicamente additato come colpevole in assenza di un accertamento giudiziale.

5.– A queste essenziali condizioni, le questioni sollevate debbono essere dichiarate non fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, commi secondo e terzo, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria l’11 marzo 2024

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

SENTENZA