REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCIA ESPOSITO – Presidente –
Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO – Consigliere –
Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO – Consigliere –
Dott. FABRIZIO AMENDOLA – Rel. Consigliere –
Dott. GUALTIERO MICHELINI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 17040-2023 proposto da:
(omissis) (omissis) S.P.A. (già (omissis) S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE (omissis) (omissis) 53, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis), rappresentata e difesa dall’avvocato (omissis) (omissis) (omissis);
-ricorrente-
contro
(omissis) (omissis) (omissis), elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato (omissis) (omissis) (omissis), che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 769/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 12/07/2023 R.G.N. 419/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del23/04/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.
RILEVATO CHE
1. la Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto l’opposizione proposta, nell’ambito di un procedimento ex legen. 92 del 2012, da (omissis) (omissis) Spa avverso l’ordinanza che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato il 6.7.2021 a (omissis) (omissis) (omissis), all’esito di una procedura ex lege n. 223 del 1991, con riconoscimento della tutela prevista dal comma 4 del novellato art. 18 S.d.L.;
2. la Corte territoriale, in estrema sintesi, ha ritenuto che, innanzitutto, la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, comma 3, l. n. 223 del 1991, non contenesse “da un lato l’esposizione delle ragioni per le quali l’ambito in cui operare la scelta dei lavoratori da licenziare sia stato limitato al sito di (omissis) e dall’altro le ragioni per le quali i lavoratori di (omissis) non svolgessero mansioni fungibili con quelli dei siti di (omissis) ed (omissis)”;
che l’accordo positivo raggiunto con le OO.SS. il 1° luglio 2021 non fosse idoneo a “sanare” la riscontrata carenza della comunicazione di apertura della procedura, anche perché non emergeva da detto accordo “che siano state comunicate dalla società e verificate consapevolmente e compiutamente dalle organizzazioni sindacali le ragioni per le quali la platea dei lavoratori soggetti al licenziamento sia stata limitata al sito di (omissis) nonché le ragioni per le quali le mansioni dei lavoratori di (omissis) debbano considerarsi non fungibili rispetto a quelle dei lavoratori degli altri siti della società”;
che l’onere di provare la fungibilità nelle diverse mansioni era stato dalla (omissis) “dedotto e documentalmente provato”;
quanto alla tutela, la Corte milanese ha considerato come “l’illegittima, […], delimitazione della platea dei lavoratori sui quali operare la scelta ai fini del licenziamento ai soli lavoratori del sito di (omissis), implichi conseguentemente e necessariamente una non corretta applicazione dei criteri di scelta indicati”, con conseguente applicazione del comma 4 dell’art. 18 l. n. 300 del 1970;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con cinque motivi, cui ha resistito l’intimata con controricorso;
parte ricorrente ha anche comunicato memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
1. i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito;
1.1. col primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, co. 3, della L. n. 223/1991 nonché dell’art. 5 della L. n. 223/1991, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte milanese ravvisato un vizio di forma della comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo, individuando un’omissione informativa nell’assenza di indicazioni circa l’infungibilità delle mansioni dei licenziandi senza che il relativo onere fosse prescritto dalla normativa anzidetta, per come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità;
1.2. con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, co. 12, della L. n. 223/1991, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., per aver escluso l’efficacia sanante all’accordo sindacale raggiunto all’esito dell’esame congiunto ed aver ammesso la contestazione avversaria sulla correttezza dei criteri di scelta in assenza dell’eccezione e della prova circa la maliziosa elusione dei poteri di controllo sindacale da parte della datrice di lavoro;
1.3. con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonché dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., perché la sentenza impugnata avrebbe erroneamente attribuito in capo all’azienda l’onere di provare l’infungibilità delle mansioni, sostenendo che la giurisprudenza di legittimità grava il lavoratore di eccepire e provare la fungibilità delle mansioni; nonché per aver erroneamente considerato incontestate le mansioni dedotte dalla lavoratrice, quando le allegazioni sono state espressamente contestate dalla datrice di lavoro;
1.4. col quarto mezzo si denuncia: “nullità della sentenza per travisamento delle prove ex art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c.”; si deduce che la Corte territoriale avrebbe travisato le prove testimoniali e documentali acquisite in giudizio su aspetti controversi quali il contenuto della comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo, il contenuto dell’accordo sindacale concluso all’esito dell’esame congiunto ed il trasferimento della lavoratrice antecedente al licenziamento;
1.5. con il quinto motivo la sentenza impugnata viene censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 5, co. 3 l. n. 223/1991 in relazione all’art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c. per aver confermato l’applicazione della tutela reintegratoria –in luogo di quella indennitaria ex art. 18, co. 5 e 7 L. n. 300/1970 –“a fronte di un rilevato (seppur inesistente) vizio di forma nella comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo”;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. il primo motivo è infondato, in quanto la pronuncia impugnata è conforme a consolidata giurisprudenza di questa Corte in punto di delimitazione della platea dei lavoratori entro la quale effettuare la scelta dei destinatari di un licenziamento collettivo (da ultimo, diffusamente, v. Cass. n. 1512 del 2024);
2.1.1. la regola generale scritta nel primo comma dell’art. 5, l. n. 223 del 1991, è che “l’individuazione dei lavoratori da licenziare” deve avvenire avuto riguardo al “complesso aziendale” (cfr. Cass. n. 5373 del 2019);
la giurisprudenza di questa Corte ha consentito che la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale possa essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore o sede territoriale, ma “purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti”, con la conseguenza che “qualora nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali” (Cass. n. 4678 del 2015; Cass. n. 22178 del 2018; v., ancora di recente, Cass. n. 12040 del 2021);
la delimitazione della platea dei lavoratori destinatari del provvedimento di messa in mobilità o di licenziamento è, peraltro, condizionata (cfr. Cass. n. 981 del 2020; Cass. n. 14800 del 2019) agli elementi acquisiti in sede di esame congiunto, non potendo rappresentare l’effetto dell’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma dovendo essere giustificata dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione del personale adeguatamente esposte nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, della legge n.223 del 1991, onde consentire alle OO.SS. di verificare il nesso fra le ragioni che determinano l’esubero di personale e le unità lavorative che l’azienda intenda concretamente espellere (ex plurimis: Cass. n. 32387 del 2019; Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 880 del 2013; Cass. n. 22825 del 2009);
ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, infatti, è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991, ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata (sin da Cass. n. 8474 del 2005 e, più di recente, Cass. n. 15953 del 2021; Cass. nn. 203, 4678 e 21476 del 2015; Cass. nn. 2429 e 22655 del 2012; Cass. n. 9711 del 2011), ma anche che gli addetti prescelti non svolgessero mansioni fungibili con quelle di dipendenti assegnati ad altri reparti o sedi (cfr., tra le altre, Cass. n. 13783 del 2006; Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 15953 del 2021);
infatti, si è precisato che la comparazione dei lavoratori – al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità – non deve necessariamente interessare l’intero complesso aziendale, ma può avvenire (secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico – produttive) nell’ambito della singola unità produttiva, purché la predeterminazione del limitato campo di selezione sia giustificata dalle suddette esigenze tecnico- produttive ed organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale;
tuttavia, si è esclusa (da ultimo Cass. n. 20671 del 2023) la sussistenza di dette esigenze ove i lavoratori da licenziare siano idonei – per acquisite esperienze e per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti o sedi (tra le recenti v. Cass. nn. 21306, 18416 e 2221 del 2020; in precedenza Cass. n. 13783 del 2006; Cass. n. 21015 del 2015);
in altri termini, l’individuazione della platea dei lavoratori interessati non può coincidere automaticamente con quelli addetti all’unità produttiva da sopprimere, senza una ulteriore specificazione relativa alle mansioni effettivamente svolte e alla loro comparabilità con quelle dei lavoratori degli altri settori o unità dell’impresa (cfr. Cass. n. 13953 del 2015; Cass. n. 21015 del 2015; Cass. n. 22672 del 2018; Cass. n. 21886 del 2020);
“ne consegue l’illegittimità della scelta in ragione dell’impiego dei lavoratori da porre in mobilità in un reparto soppresso o ridotto, senza tener conto del possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altri settori aziendali” (Cass. n. 33889 del 2022), professionalità equivalente dei lavoratori non coinvolti dalla procedura che ci occupa che appare incontestata nella fattispecie all’attenzione del Collegio;
in particolare, poi, è stato ribadito il principio secondo cui, di per sé, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, non assume rilievo, ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo”, non contemplandosi, tra i parametri dell’art. 5, l. n. 223 del 1991, “la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo la regola legale all’esigenza di assicurare che i procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro” (v. Cass. n. 17177 del 2013; Cass. n. 32387 del 2019; Cass. n. 22040 del 2023);
2.1.2. nella specie la Corte milanese applica consapevolmente gli esposti princìpi; se la regola legale è che “l’individuazione dei lavoratori da licenziare” deve avvenire avuto riguardo al “complesso aziendale” nella sua interezza, al fine di restringere il campo in cui è delimitata la platea dei licenziandi, il datore di lavoro dovrà indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti di una determinata unità produttiva o settore aziendale, ma anche le ragioni per le quali gli addetti alla unità o settore soppresso o ridimensionato non possano essere utilizzati e comparati con dipendenti del restante complesso aziendale, perché, ad esempio, non svolgano mansioni fungibili con quelle di coloro che lavorano nel resto dell’azienda;
nella sentenza impugnata si afferma chiaramente che la comunicazione di avvio della procedura non conteneva tali specificazioni, di modo che le censure di parte ricorrente non evidenziano realmente errori di diritto, quanto piuttosto ci si duole dell’interpretazione offerta dai giudici del merito di detta comunicazione e dei suoi allegati, ma ciò involge apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di questa Corte;
2.2. non merita condivisione anche il secondo motivo di ricorso;
l’art. 1, comma 45, della legge n. 92 del 2012 ha introdotto all’art. 4, comma 12, della legge n. 223 del 1991, il seguente periodo: “Gli eventuali vizi della comunicazioni di cui al comma 2 del presente articolo possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo”;
questa Corte ha già precisato che si tratta di un elemento del tutto innovativo nell’ambito della procedura che assicura il controllo sindacale sulla riduzione del personale, privo di efficacia retroattiva;
si è pure precisato che la ratio ispiratrice dell’intervento del legislatore sta “nella possibilità (solamente eventuale, considerato che le parti “possono” provvedere a sanare) di concludere un accordo prevedendo, espressamente, la sanatoria di eventuali vizi” (Cass. n. 3045 del 2017);
ne deriva che la sottoscrizione dell’accordo sindacale in cui viene dato atto dell’espletamento positivo dell’esame congiunto mediante il raggiungimento di un accordo non ha, di per sé sola, efficacia sanante, occorrendo, invece, interpretare la volontà negoziale delle parti per verificare se abbiano inteso sanare i vizi formali della comunicazione di cui al comma 2 dell’art. 4 della l. n. 223 del 1991;
nella specie, i giudici del merito, nel doppio grado, hanno escluso l’efficacia “sanante” dell’accordo sindacale raggiunto in corso di procedura, anche perché – come ricordato nello storico della lite –dall’accordo del 1° luglio 2020 “non emerge che siano state comunicate dalla società e verificate consapevolmente e compiutamente dalle organizzazioni sindacali le ragioni per le quali la platea dei lavoratori soggetti al licenziamento sia stata limitata al sito di Vittuone nonché le ragioni per le quali le mansioni dei lavoratori di (omissis) debbano considerarsi non fungibili rispetto a quelle dei lavoratori degli altri siti della società”;
peraltro, nel caso all’attenzione del Collegio, la mancata indicazione delle ragioni che limitassero i licenziamenti ai dipendenti di una determinata unità produttiva o settore aziendale non rappresentava un mero vizio formale della comunicazione ex art. 4, comma 3, l. n. 223/91, ma atteneva ad un presupposto sostanziale che poteva consentire la delimitazione della platea dei licenziandi in deroga alla regola generale stabilita dal comma 1 dell’art. 5 della stessa legge;
2.3. il terzo motivo di ricorso è inammissibile in quanto non si confronta adeguatamente con la ratio decidendi della sentenza impugnata sul punto;
la Corte territoriale non ha affatto deciso in applicazione della regola formale imposta dall’art. 2697 c.c., statuendo la soccombenza della società per non aver assolto ad un onere probatorio sulla medesima incombente; al contrario, ha ritenuto che l’onere di provare la fungibilità nelle diverse mansioni fosse stato dalla (omissis) “dedotto e documentalmente provato”, mentre le critiche a tale valutazione esorbitano dai confini del giudizio di legittimità;
2.4. parimenti inammissibile il quarto motivo;
questa Corte a Sezioni unite ha oramai chiarito, disattendendo l’indirizzo cui viene fatto cenno nel motivo di ricorso, che: «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale» (Cass. SS.UU. n. 5792 del 2024);
concorso dei presupposti di legge che, per quanto riguarda il vizio di cui al n. 4 dell’articolo 360 c.p.c., ricorre esclusivamente, per il tramite delle norme che impongono al giudice l’obbligo di motivazione, nella quadruplice nota declinazione che le stesse Sezioni Unite più volte ne hanno dato: la «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico» e la «motivazione apparente»;
il «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e la «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (cfr., tra le altre, Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016);
mentre i presupposti di legge per evocare il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sono stati definiti nei ristretti limiti posti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, presupposti neanche prospettati con il motivo in scrutinio;
inoltre, Cass. SS.UU. n. 5792/2024 ha pure evidenziato che, “se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, […], rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre il significato che ad esso è riconosciuto (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), il giudizio di cassazione obbiettivamente scivolerebbe verso un terzo grado destinato a svolgersi non sulla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle «carte» processuali, sicché la latitudine del giudizio di legittimità neppure ripristinerebbe l’assetto ante riforma del 2012, ma lo espanderebbe assai di più”, assegnando “alla Corte di cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito”;
il che è quanto sollecitato dalla censura in esame che, pertanto, va dichiarata inammissibile;
2.5. l’ultimo motivo di ricorso è infondato in quanto la sentenza impugnata sul punto è conforme alla giurisprudenza di questa Corte (di recente, tra molte, v. Cass. n. 22040 del 2023);
2.5.1. invero, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale debba riferirsi a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell’esigenza aziendale collegata all’appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina violazione dei criteri di scelta per la quale l’art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, prevede l’applicazione del comma 4 dell’art. 18 novellato della l. n. 300 del 1970” (v. Cass. n. 18847 del 2016; Cass. n. 20502 del 2018);
da tempo, infatti, questa Corte (Cass. n. 12095 del 2016; Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 2587 del 2018; Cass. n. 19010 del 2018) ha interpretato il comma 3 dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, comma 46, l n. 92 del 2012, distinguendo il “caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12”, per il quale opera la tutela meramente indennitaria, dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”, per il quale si applica la tutela reintegratoria: mentre la non corrispondenza della comunicazione al modello legale di cui al comma 9 dell’art. 4 della l. n. 223 del 1991 costituisce “violazione delle procedure”, il diverso “caso di violazione dei criteri di scelta” si ha non nell’ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive;
2.5.2. del tutto coerentemente, quindi, la Corte territoriale ha ritenuto che, nella specie, non ricorresse una mera violazione procedurale per incompletezza delle comunicazioni prescritte bensì una violazione sostanziale rappresentata dall’applicazione di criteri di scelta ad una platea di licenziabili illegittimamente delimitata rispetto all’intero complesso aziendale, con conseguente applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012;
3. conclusivamente, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
3.1. non può, invece, essere accolta la sollecitazione di parte controricorrente alla condanna della società ex art. 96, comma 3, c.p.c.;
come noto detta disposizione prevede una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata previste dai commi 1 e 2 dello stesso articolo, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale;
la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 20018 del 2020 e Cass. n. 3830 del 2021);
reputa il Collegio che tale abuso non sia ravvisabile nella specie, non ricorrendo un’ipotesi assimilabile ad una di quelle esemplificativamente previste da questa Corte, quali la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi palesemente inammissibili, oppure incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privi di autosufficienza oppure contenenti la mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondati sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360, n. 5 c.p.c., ove sia applicabile, ratione temporis, l’art. 348 ter u.c. c.p.c. (v. Cass. n. 22208 del 2021);
3.2. invece, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre esborsi pari ad euro 200,00, spese generali al 15% ed accessori secondo legge.
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, da atto per la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 23 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2024.