REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Presidente –
Dott. CIAMPI Francesco Maria – Consigliere –
Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere –
Dott. CASA Filippo – Consigliere –
Dott. APRILE Ercole – Consigliere –
Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –
Dott. CAPUTO Angelo – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto dal:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari
nel procedimento nei confronti di:
(OMISSIS) (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 02/12/2021 dal Tribunale di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente, dott. Angelo Caputo;
udito in udienza camerale il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott. Giovanni Di Leo, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza deliberata il 02/12/2021, il Tribunale di Catanzaro, quale giudice dell’appello cautelare, ha rigettato l’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari avverso l’ordinanza del 10/07/2021 con la quale il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Castrovillari aveva dichiarato la cessazione della misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria applicata ad (OMISSIS) (OMISSIS) in relazione all’imputazione provvisoria del reato di abusiva attività finanziaria ex art. 132, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (d’ora in poi, TUB).
A fondamento della decisione, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Castrovillari e, confermandola, il Tribunale di Catanzaro hanno posto il rilievo che, a seguito della riformulazione dell’art. 132 TUB operata dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, non trova più applicazione l’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 e la pena massima comminata per il reato di abusiva attività finanziaria è di quattro anni di reclusione, sicché il termine massimo di durata della misura non custodiale era decorso.
2. Avverso l’indicata ordinanza del Tribunale di Catanzaro ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, denunciando – nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. – erronea applicazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 141 del 2010, dell’art. 132 TUB, dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005, degli artt. 12 e 15 delle preleggi, dell’art. 2 cod. pen., nonché degli artt. 303 e 308 cod. proc. pen.
Aderendo a un orientamento della giurisprudenza di legittimità e richiamando l’art. 12 delle preleggi, il Pubblico ministero ricorrente sottolinea, per un verso, che gli artt. 2 e 33 della legge 7 luglio 2009, n. 88, nel disciplinare i princìpi e i criteri direttivi della delega poi attuata con il d.lgs. n. 141 del 2010, non contengono alcun riferimento a modifiche delle sanzioni penali previste dal TUB, sicché un’interpretazione costituzionalmente orientata conduce a escludere dimezzamento dei livelli edittali che si risolverebbe in un eccesso di delega, con conseguente illegittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. 141 del 2010.
Ad avviso del ricorrente, il criterio interpretativo dell’intenzione del legislatore e quello letterale escludono che vi sia stata una modifica della sanzione penale, come ulteriormente confermato dal rilievo che l’art. 39 della legge n. 262 del 2005 non è stato inciso dalla novella, sicché, operando un rinvio mobile al contenuto delle disposizioni del TUB, la modifica intervenuta su queste ultime comporta che il rinvio si intenda riferito alla norma così come interpolata.
Osserva ancora il ricorrente che la ratio della circostanza aggravante di cui all’art. 39 della legge n. 262 del 2005 è apprestare una rigorosa tutela degli interessi protetti dalla norma incriminatrice, il che ha orientato il legislatore nel senso di operare sull’art. 39 cit. con il meccanismo del rinvio mobile.
Sottolinea il ricorso come non sussista alcuna incompatibilità tra la circostanza aggravante di cui all’art. 39 cit. e la nuova disciplina di cui all’art. 132 TUB, così come modificato dalla riforma del 2010, il che esclude l’abrogazione tacita dello stesso art. 39 della legge n. 262 del 2005. L’art. 8 del d.lgs. n. 141 del 2010, invero, non ha regolato l’intera materia, determinando appunto il citato fenomeno abrogativo, mentre, a voler ipotizzare che il legislatore avesse inteso modificare la pena base dell’abusivismo finanziario, tale modificazione non si estenderebbe automaticamente all’inasprimento sanzionatorio previsto dall’aggravante di cui all’art. 39 cit.
3. Investita della cognizione del ricorso, la Quinta Sezione penale, con ordinanza n. 36748 del 16 settembre 2022, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, ravvisando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione se la riformulazione dell’art. 132 TUB ad opera dell’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 141 del 2010 realizzi un fenomeno di successione di leggi penali, in relazione al trattamento sanzionatorio determinato per effetto del raddoppio dell’entità delle pene previsto dall’art. 39 della legge n. 262 del 2005, ovvero se l’art. 39 cit., nel prevedere il raddoppio delle pene di cui, tra l’altro, al TUB, detti una regola destinata a rimanere insensibile ai mutamenti normativi concernenti queste ultime pene.
Ricostruite le vicende normative che hanno caratterizzato l’art. 132 TUB, l’ordinanza di rimessione dà atto del contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità.
Secondo un primo orientamento, infatti, in materia di abusivo esercizio dell’attività di intermediazione finanziaria, la disposizione di cui all’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 141 del 2010 non ha abrogato l’aumento di sanzione previsto dall’art. 39 della legge 262 del 28 dicembre 2005 (Sez. 5, n. 18544 del 27/02/2013, Strada, Rv. 255192).
Un diverso, maggioritario, indirizzo sostiene, invece, che, in materia di esercizio abusivo dell’attività di intermediazione finanziaria, la disposizione dell’art. 8, comma 2, cit., avendo integralmente sostituito il testo originario dell’art. 132 TUB, riformulandone sia la parte precettiva sia quella sanzionatoria, ha tacitamente abrogato, con riferimento a detta fattispecie, la previsione dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005, che stabiliva il raddoppio delle pene comminate, tra l’altro, dal TUB (Sez. 5, n. 12777 del 16/11/2018, dep. 2019, Albertazzi, Rv. 275996 – 02; conf., ex plurimis, Sez. 2, n. 43670 del 23/09/2021, Piromalli, Rv. 282311).
4. Il Presidente aggiunto in data 12 ottobre 2022 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la sua trattazione l’odierna udienza camerale ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen. In data 24 gennaio 2023 ne ha disposto lo svolgimento nelle forme della trattazione orale, su richiesta del Sostituto Procuratore generale Giovanni Di Leo a norma dell’art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato, da ultimo, in forza dell’art. 5-duodecies del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199.
5. Con requisitoria scritta del 6 febbraio 2023 (richiamata in sede di discussione orale), il Sostituto Procuratore generale ha concluso per l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Catanzaro e per l’enunciazione del principio di diritto secondo cui l’art. 39 della legge n. 262 del 2005, in quanto norma primaria, contenente una previsione generale ed astratta valida per tutte le sanzioni previste dal TUB, non risultando in alcun modo derogata dalla legge delega n. 88 del 2009, risulta ancora vigente e applicabile a tutti i reati e le sanzioni amministrative ivi previste.
La requisitoria aderisce all’impostazione di 5, n. 18544 del 2013, Strada, cit., sottolineando che l’art. 39 della legge n. 262 del 2005 «opera quello che comunemente viene definito un “rinvio mobile” ad altra norma o complesso di norme regolanti una determinata attività o materia».
Osserva inoltre il Sostituto Procuratore generale che l’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 141 del 2010, ossia la norma delegata che ha riformulato l’art. 132 TUB, «non ha affatto riscritto la “intera materia” oggetto della norma che si pretende abrogare “in parte qua”, e cioè né l’art. 39 sopra citato – che prevede genericamente il raddoppio – né il testo unico bancario, al quale tale norma si riferisce, posto che ne delinea diversamente soltanto una delle molte fattispecie sanzionatorie esistenti in tale testo», sicché «non è possibile affermare che l’art. 132 TUB, modificato dall’art. 8 comma 2 del decreto legislativo n. 141 del 2010, esaurisca l”‘intera materia” oggetto dell’art. 39 della legge 262 del 2005, né che la sua applicazione renda impossibile l’applicazione di quest’ultima che si rivolge all’intero TUB oltre ad altro testo».
La requisitoria sottolinea poi che l’art. 2, comma 1, lett. e), della delega di cui alla legge n. 88 del 2009, inizia con l’inciso «al di fuori dei casi previsti delle norme penali vigenti», norme che, quindi, dovevano intendersi come da non modificare, mentre l’art. 33 della stessa legge, relativo specificamente al recepimento della Direttiva 2008/48/CE, non menziona mai il Titolo VIII del TUB, riguardante le varie fattispecie penali.
Deduce quindi che l’orientamento accolto da Sez. 5, n. 18544 del 2013, Strada, cit. risulta costituzionalmente conforme, laddove l’adesione al contrario indirizzo imporrebbe di «verificare, nei termini della non manifesta infondatezza, il possibile contrasto dell’art. 8 del d.lgs. n. 141 del 2010 con l’art. 76 Cost.».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta all’esame delle Sezioni Unite deve essere definita nei seguenti termini: «Se la riformulazione dell’art. 132 del d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385, riguardante il reato di abusiva attività finanziaria, ad opera dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. 13 agosto 2010 n. 141, abbia comportato l’abrogazione tacita della previsione di cui all’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, 262, che ha stabilito il raddoppio delle pene previste, anche per detto reato, dal d.lgs. n. 385 del 1993 citato, ovvero se, invece, detto art. 39 abbia dettato una regola destinata a rimanere comunque insensibile alle modifiche sanzionatorie inerenti le fattispecie ivi ricomprese».
2. Il contrasto che le Sezioni Unite sono chiamate a comporre vede contrapporsi due Il primo di essi, più risalente, è stato delineato da Sez. 5, n. 18544 del 2013, Strada, cit., secondo cui, in materia di abusivo esercizio dell’attività di intermediazione finanziaria, la disposizione di cui all’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 141 del 2010 non ha abrogato l’aumento di sanzione previsto dall’art. 39 della legge n. 262 del 28 dicembre 2005. Intervenuta, come nella fattispecie oggetto dell’ordinanza impugnata, in tema di decorso dei termini di fase di una misura cautelare, la sentenza Strada, richiamate in sintesi le vicende normative che hanno caratterizzato l’art. 132 TUB, si sofferma sulla più recente di esse, ossia quella derivata dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 141 del 2010, che ha riformulato la disposizione stabilendo la pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa dal 2.065 a 10.329 euro (la stessa della formulazione anteriore, salvo l’adeguamento delle lire in euro).
Il d.lgs. n. 141 del 2010 è stato adottato in attuazione della legge n. 88 del 2009, che, all’art. 33, delegava il Governo a recepire, tra l’altro, la Direttiva dell’U.E. sul credito al consumo, dettando i relativi princìpi e criteri direttivi, princìpi e criteri stabiliti, in via generale, dall’art. 2 della legge delega.
Ora, osserva la sentenza Strada, in nessun punto degli artt. 2 e 33 della legge n. 88 del 2009, che fissano principi e criteri direttivi della delega legislativa, si fa riferimento a una modifica delle sanzioni penali previste dal TUB, sicché un eventuale dimezzamento dei livelli edittali «si risolverebbe in un eccesso di delega legislativa, con conseguente illegittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141».
Poiché, osserva ancora Sez. 5, n. 18544 del 2013, Strada, cit., nell’interpretazione delle norme di un decreto legislativo assume una valenza decisiva l’analisi dei principi e dei criteri della delega legislativa, la norma delegata va interpretata nel significato compatibile con detti principi e criteri direttivi; pertanto, deve ritenersi che il legislatore delegato non abbia voluto modificare la sanzione penale prevista dall’art. 132 TUB, ma si sia limitato a operare «una mera risistemazione delle figure sanzionatorie, al fine di adattarle alla nuova disciplina in materia di intermediari finanziari contenute nel Titolo V del testo unico bancario, senza incidere sulle scelte di politica criminale».
Pertanto, «è rimasto immutato il trattamento sanzionatorio della fattispecie», tanto più che l’art. 39 della legge n. 262 del 2005 non fa riferimento specifico a una singola figura di reato, ma a tutte quelle previste dal TUB, alcune delle quali sono rimaste estranee all’innovazione legislativa del 2010: anche sotto il profilo letterale, osserva conclusivamente la sentenza Strada, l’abrogazione dell’art. 39 cit. ad opera dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 141 del 2010 deve essere esclusa.
3. L’orientamento contrario è stato sostenuto da Sez. 5, n. 12777 del 2018, dep. 2019, Albertazzi, cit., che ha affermato il principio di diritto secondo cui, in materia di esercizio abusivo dell’attività di intermediazione finanziaria, la disposizione dell’art. 8, comma 2, della legge 13 agosto 2010, n. 141, che ha integralmente sostituito il testo originario dell’art. 132 TUB, riformulandone sia la parte precettiva sia quella sanzionatoria, ha tacitamente abrogato, con riferimento a detta fattispecie, la previsione dell’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, che stabiliva il raddoppio delle pene comminate, tra l’altro, dallo stesso TUB.
Premesso che l’interpretazione costituzionalmente orientata incontra un limite nel tenore letterale della norma, la sentenza Albertazzi richiama l’art. 15 delle preleggi e, segnatamente, la figura dell’abrogazione tacita per regolamentazione dell’intera materia già disciplinata dalla legge anteriore.
Al riguardo, osserva che l’art. 8 del d.lgs. n. 141 del 2010 ha «sostituito integralmente il testo previgente, in relazione al quale era stato previsto il raddoppio delle pene, operando una vera e propria novazione della fonte di produzione del reato di cui all’art. 132 TUB»; per tale reato, successivamente al generalizzato raddoppio disposto dall’art. 39 della legge n. 262 del 2005, ha previsto una pena detentiva da sei mesi a quattro anni di reclusione.
Rimarcato come l’abrogazione operi sulle norme e non sulle relative fonti di produzione e che la questione in esame non riguarda l’interpretazione della norma, quanto il diverso fenomeno della successione tra le leggi (e, in particolare, l’abrogazione), la sentenza Albertazzi sottolinea che la sostituzione della disposizione ha riguardato l’intera norma incriminatrice, sia nella sua dimensione precettiva, che nella sua dimensione sanzionatoria, determinando un’abrogazione della cornice edittale risultante dal combinato disposto di cui al previgente art. 132 TUB e all’art. 39 della legge n. 262 del 2005.
Di conseguenza, il reato di cui all’art. 132 TUB è disciplinato da una fonte di produzione, ossia l’art. 8, comma 2, del d.lgs. 141 del 2010, diversa e successiva da quella in relazione alla quale l’art. 39 della legge n. 264 del 2005 aveva disposto il raddoppio delle pene: in difetto di coordinamento e di espressa previsione legislativa, l’art. 39 cit., osserva ancora la sentenza Albertazzi, non può essere applicato anche alla nuova norma incriminatrice, che, nel 2010, ha “sostituito” la precedente, pur nell’ambito di una continuità del tipo di illecito.
Osserva conclusivamente Sez. 5, n. 12777 del 2018, dep. 2019, Albertazzi, cit., che, trattandosi di una norma incriminatrice, in relazione alla quale vige, in termini ancor più stringenti, il principio di stretta legalità, deve dunque affermarsi che, nell’ambito di un fenomeno di successione di leggi nel tempo, il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria, previsto dall’art. 132 TUB, è stato modificato non soltanto nella parte precettiva, limitatamente alla individuazione dei soggetti operanti nel settore finanziario, ma anche nella parte sanzionatoria, con una riduzione dei limiti edittali, ripristinati nella misura originaria di sei mesi e quattro anni di reclusione.
3.1. All’indirizzo propugnato dalla sentenza Albertazzi hanno espressamente aderito varie decisioni della Corte.
Sez. 2, n. 43670 del 23/09/2021, Piromalli, Rv. 282311 ha escluso l’ultrattività, con riferimento al reato di cui all’art. 132 TUB, del raddoppio di pene previsto dall’art. 39 della legge n. 262 del 2005, non potendo dubitarsi dell’effetto abrogativo dell’art. 8 del d.lgs. n. 141 del 2010 quanto al pregresso regime sanzionatorio.
Un duplice argomento orienta l’opzione della sentenza Piromalli: da una parte, osserva la Seconda Sezione, in presenza di un fenomeno di successione di leggi nel tempo, avendo la nuova disposizione normativa ridisegnato integralmente la cornice edittale quanto al reato di intermediazione finanziaria abusiva, non vi sono margini per ritenere operante il raddoppio dei termini previsti dalla precedente disposizione in forza dell’art. 39 cit.; dall’altra, l’inequivoca lettera della norma non consente «una interpretazione di segno diverso al fine di escludere il paventato profilo di incostituzionalità per eccesso di delega».
Anche le coeve Sez. 5, n. 28700 del 17/06/2022, Mari e Sez. 5, n. 28960 del 17/06/2022, Cosentino ritengono che si sia in presenza di una successione di leggi penali nel tempo con abrogazione tacita – ai sensi dell’art. 15 delle preleggi – della disposizione frutto del combinato disposto dell’originario art. 132 TUB e dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005, abrogazione determinata dalla sostituzione integrale della disposizione precedente: «la nuova previsione, infatti, ha integralmente preso il posto di quella già vigente e la scelta di lasciare inalterata la pena detentiva rispetto all’originario apparato sanzionatorio, pur nella consapevolezza del legislatore che nelle more vi era stata la modifica in peius di cui all’art. 39 cit., non può avere altro significato che quello di una riscrittura integrale della disposizione, con la precisa volontà di riportare la sanzione a quella anteriore alla legge 262 cit.».
4. Come si è visto, le sentenze dalle quali è nato il contrasto che le Sezioni Unite sono chiamate a comporre non hanno argomentato le rispettive tesi attraverso il riferimento all’istituto del rinvio, riferimento operato, invece, dal Pubblico ministero ricorrente e dal Procuratore generale presso questa Corte nella requisitoria sopra citata, l’uno e l’altro favorevoli alla tesi secondo cui l’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 prevede un rinvio mobile.
Tale ricostruzione dei rapporti tra l’art. 39 della legge n. 262 del 2003 e l’art. 132 TUB non può essere condivisa.
Su un piano generale, la dottrina (in particolare, quella costituzionalistica) offre l’indicazione che si ha rinvio in quei casi in cui un determinato atto si “appropria” del contenuto prescrittivo di un altro atto, non inciso, quest’ultimo, in alcun modo per effetto del richiamo da parte del primo.
Si tratta, dunque, di una “tecnica di collegamento”, che presuppone l’esistenza di due disposizioni, una attiva e una passiva: la disposizione attiva è quella “rinviante”, in quanto opera il richiamo e non può che essere applicata unitamente alla disposizione passiva, che assume, invece, la fisionomia della disposizione “richiamata”, il cui contenuto normativo è indispensabile per completare il significato, prima, e l’applicazione in concreto, poi, della disposizione “rinviante”.
Il tipo di collegamento tra le due disposizioni segna la nota dicotomia dell’istituto del rinvio: il rinvio fisso (o recettizio o statico) riguarda una disposizione richiamata nel testo storicamente vigente al momento in cui venne previsto il rinvio con l’introduzione della disposizione rinviante (o in altro momento normativamente definito), senza che debba tenersi conto delle modifiche che la disposizione richiamata possa conoscere nel tempo; al contrario, il rinvio mobile (o formale o dinamico) collega la disposizione rinviante a quella richiamata non solo nella formulazione attuale al momento del rinvio, ma anche in quelle eventualmente succedutesi a seguito della sua modifica (e, dunque, in ultima analisi, a tutte le diverse formulazioni che la fonte richiamata può, nel tempo, conoscere).
Applicando – secondo la prospettiva qui non condivisa – le nozioni, in estrema sintesi, evocate alla vicenda normativa in esame, l’art. 39 della legge n. 262 del 2005 rappresenterebbe la disposizione rinviante, mentre l’art. 132 TUB sarebbe la disposizione richiamata. Il che, però, mette in luce alcune rilevanti aporie.
Nel caso in esame, infatti, il rapporto di collegamento tra disposizione rinviante e disposizione richiamata verrebbe, per così dire, “capovolto”, perché sarebbe la seconda, ossia l’art. 132 TUB (che non prevede alcun rinvio quoad poenam all’art. 39 della legge n. 262 del 2005), ad appropriarsi dei contenuti normativi (la previsione del raddoppio dell’entità delle pene comminate) della prima, ossia dell’art. 39 cit. In altri termini, non è la norma che si “appropria” del contenuto normativo dell’altra a prevedere il rinvio a quest’ultima.
Le parti hanno fatto riferimento a Sez. 1, n. 6775 del 28/01/2005, E., Rv. 230148, ma in quel caso era la norma che conteneva il rinvio – l’art. 576, comma primo, n. 5), cod. pen. – ad “appropriarsi” dei contenuti normativi delle norme richiamate, ossia, segnatamente, delle norme relative ai reati sessuali, sicché, alla modifica di queste ultime, correttamente si pose il problema della natura – fissa o mobile – del rinvio operato dall’art. 576 cit.
Ora, che il “capovolgimento” di cui si è detto sia incompatibile con la fisionomia e con la logica del rinvio è confermato dall’identità degli approdi interpretativi a seconda che il rinvio sia considerato fisso o mobile. In entrambi i casi, infatti, il contenuto normativo dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005, ossia il raddoppio dell’entità delle pene di cui alle normative citate, continuerebbe a integrare la disposizione dettata dall’art. 132 TUB, con la sostanziale irrilevanza dell’individuazione della natura del rinvio.
Sarebbe, questa, la conseguenza, del fatto che la previsione del “rinvio” è contenuta nella disposizione che deve “cedere” il proprio contenuto normativo alla disposizione richiamata, laddove nell’istituto del rinvio è la previsione del rinvio stesso nella disposizione – appunto – “rinviante” ad assicurare questo effetto. Insomma, la disposizione che rappresenta il punto di partenza del collegamento in cui si sostanzia il rinvio risulta carente dell’essenziale previsione del rinvio stesso, mentre tale previsione è contenuta nella disposizione passiva, ossia in quella che disciplina i contenuti di cui la disposizione “rinviante” dovrebbe appropriarsi.
La fisionomia e la logica, nel sistema delle fonti, del rinvio, dunque, mal si attagliano alla vicenda normativa in esame, sicché i rapporti tra art. 39 della legge n. 262 del 2005 e art. 132 TUB possono (o, come si vedrà, potevano) essere ricostruiti in termini di mera integrazione, in combinato disposto appunto, tra i contenuti normativi di due diposizioni.
5. Chiarita l’estraneità dell’istituto del rinvio alla disamina del tema in questione, mette conto, in limine, di ricostruire (a grandi linee e nei limiti necessari all’esame di tale tema) l’articolato quadro normativo di
5.1. Imprescindibile, al riguardo, è muovere dalle fonti di diritto dell’Unione europea. La Direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai contratti di credito ai consumatori ha sostituito la Direttiva 87/102/CEE del Consiglio, che rappresentò, in materia di crediti al consumo, uno dei primi strumenti di armonizzazione nel settore della tutela dei consumatori e, segnatamente, in materia di credito al consumo. Scopo della Direttiva 2008/48/CE è assicurare che «il mercato offra un livello di tutela dei consumatori sufficiente, in modo da assicurare la fiducia dei consumatori» (Considerando 8) e «una piena armonizzazione che garantisca a tutti i consumatori della Comunità di fruire di un livello elevato ed equivalente di tutela dei loro interessi e che crei un vero mercato interno» (Considerando 9).
L’ambito applicativo della Direttiva è definito, innanzitutto, dalla nozione di consumatore, nozione che il legislatore dell’Unione identifica in «una persona fisica che, nell’ambito delle transazioni disciplinate dalla presente direttiva, agisce per scopi estranei alla sua attività commerciale o professionale» (art. 3). L’estraneità del “consumatore” ai rapporti facenti capo a un’attività d’impresa e a un’attività professionale delinea nitidamente il contesto di riferimento della direttiva in una duplice direzione, ossia come relativo a fenomeni socialmente diffusi, ma dotati di assai modesta rilevanza sistemica sul piano dell”‘impatto” sul sistema finanziario complessivamente considerato (come si vedrà infra anche a proposito del c.d. microcredito).
Del resto, la fisionomia della prospettiva finalistica e della dimensione oggettiva della Direttiva cui si è fatto cenno trova chiara conferma nei limiti da essa stessa posti alla propria sfera applicativa. Ai sensi dell’art. 2, infatti, la direttiva del 2008 non si applica ai contratti di credito garantiti da ipoteca o da analoga garanzia, ai contratti di credito per importo totale eccedente i 75 mila euro, ai contratti di credito finalizzati all’acquisto o alla conservazione di immobili, ai contratti di credito nella forma di concessione di scoperto da rimborsarsi entro un mese, etc.
In forza dell’art. 23 della Direttiva, infine, «gli Stati membri stabiliscono le norme relative alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate a norma della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione», mentre «le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive».
5.2. La legge comunitaria del 2008 (legge 7 luglio 2009, 88) stabilì, all’art. 2, i princìpi e i criteri direttivi per l’attuazione di tutte le direttive recepite dalla stessa legge e, all’art. 33, quelli specificamente relativi al decreto legislativo di recepimento della direttiva sul credito al consumo, prevendendo in particolare, che il novum normativo sarebbe stato collocato nell’ambito del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (TUB) e non nel Codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), come pure era stato prospettato nel dibattito dottrinale, anche alla luce del fatto che la disciplina di cui alla direttiva era stata attuata, nei Paesi dell’Unione, o in codici di settore (come il Codice del consumo) o in provvedimenti ad hoc.
I contenuti della delega di cui all’art. 33 cit., peraltro, erano ben più ampi e significativi del recepimento della direttiva europea, includendo l’estensione di determinati strumenti di protezione e di poteri amministrativi inibitori, il coordinamento di alcune normative con le previsioni del TUB e la revisione di altre, la rimodulazione di alcune discipline già previste dal TUB.
5.3. E’ stato così emanato il d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141.
In ordine alla pregressa disciplina del credito al consumo, la novella del 2010, con la disciplina dettata dal Titolo I, si caratterizza per il rafforzamento della tutela del consumatore, attraverso, ad esempio, la ridefinizione dei criteri di determinazione del TAEG (tasso annuo effettivo globale), l’allargamento del perimetro oggettivo di applicazione della disciplina stessa, incentrata sull’individuazione di un finanziamento di piccolo-medio importo, non finalizzato all’investimento immobiliare, connotato dalla corresponsione di interessi e dalla restituzione in più soluzioni prolungate nel tempo, l’inclusione nell’ambito applicativo della stessa dei cc.dd. finanziamenti di liquidità (finanziamenti garantiti da ipoteca di durata inferiore ai cinque anni).
Il complessivo disegno del legislatore delegato ha poi visto la riformulazione dell’art. 106 TUB (con l’unificazione dell’albo generale e dell’albo speciale, quest’ultimo in precedenza disciplinato dall’art. 107 TUB), cui si associa una limitazione della riserva alle sole attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, restando quindi esclusi dalla relativa disciplina l’intermediazione in cambi e l’attività di assunzione di partecipazioni. A norma dell’art. 2, comma 1, lett. e) del regolamento di cui al d.m. 2 aprile 2015, n. 53 (recante «norme in materia di intermediari finanziari in attuazione degli articoli 106, comma 3, 112, comma 3, e 114 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nonché dell’articolo 7-ter, comma 1-bis, della ·egge 30 aprile 1999, n. 130»), nelle attività di concessione di finanziamenti rientrano anche i finanziamenti erogati nella forma del credito ai consumatori, così come definito dall’art. 121 TUB.
Fuori dal novero delle modifiche attinenti al credito al consumo, il d.lgs. n. 141 del 2010 ha introdotto modifiche analogamente molto significative. L’art. 7 del d.lgs. n. 141 del 2010 ha sostituito in toto il Titolo V del TUB (relativo, come si vedrà, ai «soggetti operanti nel settore finanziario»), introducendo, negli artt. 111 e 112 TUB, una disciplina ad hoc, per il microcredito e per i confidi.
Il microcredito, nato, come è noto, dall’esperienza della Grameen Bank (di cui ha conservato la “missione” di concedere finanziamenti, sulla base della sola fiducia, a soggetti non in grado di fornire garanzie), consiste in prestiti di piccolo importo destinati a soggetti che non avrebbero accesso al credito; si tratta, in particolare, di finanziamenti non eccedenti i 75 mila euro per l’avvio o l’esercizio di lavoro autonomo o microimpresa ovvero non eccedenti i 10 mila euro per i finanziamenti anche a favore di persone fisiche in condizione di particolare vulnerabilità economica o sociale, purché non assistiti da garanzie reali, finalizzati all’inclusione sociale e finanziaria del beneficiario e prestati a condizioni più favorevoli di quelle prevalenti sul mercato.
I confidi, invece, esercitano in via esclusiva l’attività di garanzia collettiva dei fidi e dei servizi ad essi connessi o strumentali (mentre quelli che la esercitano solo in via prevalente, ossia unitamente ad altre attività di concessione di finanziamenti, devono, come si è sostenuto in dottrina, essere iscritti all’albo di cui all’art. 106 TUB), con l’istituzione di un organismo di diritto privato per la tenuta del relativi elenchi (art. 112-bis TUB). L’attività dei confidi si realizza, ad esempio, attraverso la dazione di garanzie personali o reali ovvero per il tramite della stipula di contratti volti a realizzare il trasferimento del rischio.
6. Richiamato, nei suoi termini essenziali, il quadro normativo di riferimento, è tempo di esaminare più da vicino le norme chiamate immediatamente in causa dalla questione rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite.
6.1. L’incriminazione dell’abusivismo finanziario è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge 5 luglio 1991, n. 197 (che convertì in legge, con modificazioni, il decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143, recante provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio) ed è poi stata trasfusa nell’art. 132 TUB, che, inizialmente, prevedeva due distinte fattispecie delittuose, concernenti, la prima, l’esercizio dell’attività finanziaria nei confronti del pubblico in mancanza dell’iscrizione nell’elenco generale di cui all’art. 106 TUB e, la seconda, l’esercizio di tale attività non nei confronti del pubblico in difetto di iscrizione nell’apposita sezione a norma dell’art. 113 TUB, mentre una circostanza aggravante riguardava i casi di adozione delle modalità tipiche delle banche o idonee a trarre in inganno il pubblico circa la legittimazione allo svolgimento dell’attività bancaria.
Con il d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (c.d. decreto Eurosim, che recepiva la Direttiva 93/22/CEE del 10 maggio 1993 relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari e la Direttiva 93/6/CEE del 15 marzo 1993 relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi), l’abusivismo non nei confronti del pubblico fu assoggettato a un trattamento penale meno severo, posto che la relativa fattispecie assunse natura contravvenzionale e la circostanza aggravante sopra indicata vide il proprio ambito applicativo circoscritto alla residua fattispecie delittuosa, per poi essere abrogata dal d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342.
6.2. La legge 28 dicembre 2005, n. 262 aggiunse, con l’art. 38, al primo comma dell’art. 132 TUB un periodo in forza del quale la medesima pena della prima parte si applicava a chiunque svolgesse l’attività riservata agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107, in assenza dell’iscrizione nel medesimo elenco.
Ma l’innovazione più rilevante (e più significativa ai fini dell’esame della questione rimessa alla cognizione di queste Sezioni Unite) è rappresentata dal raddoppio delle comminatorie edittali sancito dall’art. 39, comma 1, della legge 262 del 2005 per i reati previsti da una serie di plessi normativi, ossia quelli relativi al TUB, al testo unico della finanza (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) e a quello sulla vigilanza sulle assicurazioni (d.lgs. 12 agosto 1982, n. 576).
L’inciso per cui il raddoppio incontra i limiti posti per ciascun tipo di pena dal Libro I, Titolo II, Capo II del codice penale fa sì che la drastica impennata della risposta sanzionatoria nei settori indicati chiami in causa principalmente la reclusione, posto che, in queste materie, l’arresto e le pene pecuniarie sono già assestate su cornici edittali elevate e prossime ai massimi legislativi.
L’opzione legislativa ha incontrato critiche pressoché unanimi nel dibattito dottrinale, che ne ha messo in luce, in uno con il carattere simbolico, la configurazione indiscriminata “per blocchi” del raddoppio, a sua volta foriera di possibili tensioni sul piano della ragionevolezza e della salvaguardia del principio di proporzionalità.
6.3. La fattispecie incriminatrice dell’abusiva attività finanziaria è stata quindi rimodellata in modo molto significativo dall’art. 8, comma 2, del lgs. n. 141 del 2010, sostituendo in toto l’art. 132 TUB, che, nella nuova formulazione, così recita: «Chiunque svolge, nei confronti del pubblico una o più attività finanziarie previste dall’art. 106, comma 1, in assenza dell’autorizzazione di cui all’art. 107 o dell’iscrizione di cui all’articolo 111 ovvero dell’art. 112, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da euro 2.065 ad euro 10.329».
All’unificazione, già segnalata, degli albi di cui ai previgenti artt. 106 e 107 TUB (con la previsione di un unico albo al quale dovranno iscriversi tutti i soggetti che vogliano esercitare l’attività di concessione di finanziamenti nei confronti del pubblico) corrisponde la modifica dell’art. 132 TUB, che ora richiama la seconda disposizione per definire il precetto sanzionato.
D’altra parte, il complessivo, ampio, intervento novellatore del 2010 ha visto poi una riduzione dell’area della rilevanza penale delineata dall’art. 132 TUB. Per un verso, infatti, va registrata la limitazione dell’ambito della riserva, che l’art. 106 TUB circoscrive all’«attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma» (comprese quelle del credito ai consumatori ex art. 121 TUB, come modificato dall’art. 1 del d.lgs. n. 141 del 2010 in sede di attuazione della Direttiva 2008/48/CE), con conseguente espunzione dal paradigma punitivo di cui all’art. 132 TUB, come si è visto (supra, § 5.3), dell’intermediazione in cambi e dell’attività di assunzione di partecipazioni.
Espunzione che segue quella, di poco anteriore, stabilita dall’art. 35 del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11 con riferimento alla prestazione di servizi di pagamento, sanzionata dalla fattispecie ad hoc di cui all’art. 131-ter TUB.
Abrogata la fattispecie contravvenzionale di cui al previgente comma 2 dell’art. 132 TUB, restano oggetto della riserva delineata dall’art. 106, come si è visto, le attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, sanzionate, se abusive, dall’art. 132, nel cui ambito applicativo, però, rientrano anche le attività abusive ( ossia realizzate in difetto di iscrizione nei rispettivi elenchi) di “microcredito” e dei confidi, rispettivamente disciplinate, come si è visto, dagli artt. 111 e 112 TUB.
I riferimenti alla disciplina di cui agli artt. 111 e 112 TUB erano estranei alla formulazione della fattispecie anteriore alla novella con la quale è stata recepita la Direttiva europea (alla quale, comunque, non sono collegati) e hanno introdotto innovazioni che hanno modificato funditus la fisionomia del reato di abusiva attività finanziaria.
Per quanto riguarda la disciplina del microcredito, essa, come chiarisce la relazione illustrativa dello schema di decreto, persegue l’obiettivo di favorire lo sviluppo di soggetti che «presentano un indubbio rilievo sociale e che posseggono tendenzialmente una scarsa rilevanza sistemica».
A proposito, invece, della disciplina dei confidi, è significativo che il relativo elenco non sia tenuto dalla Banca d’Italia, ma da un organismo di diritto privato (art. 112-bis TUB), così delineando un regime di vigilanza senz’altro meno stringente, regime a sua volta correlato all’attività dei confidi di garanzia collettiva dei fidi e dei servizi ad essi connessi o strumentali, potendo svolgere prestazioni di garanzia a favore dell’amministrazione finanziaria dello Stato, per l’esecuzione dei rimborsi di imposte alle imprese consorziate o socie, gestione di fondi pubblici di agevolazione e stipula di contratti con le banche assegnatarie di fondi pubblici di garanzia per disciplinare i rapporti con le imprese consorziate o socie al fine di facilitarne la fruizione (art. 112, comma 5, TUB).
7. Le indicazioni offerte dalla ricognizione del rilevante intervento novellatore del TUB realizzato dal d.lgs. n. 141 del 2010 (e non circoscritto al recepimento, pur di notevole rilievo, della Direttiva 2008/48/CE) convergono nella conclusione, in linea con l’indirizzo maggioritario, che da tale intervento è conseguita l’abrogazione tacita dell’art. 39 della legge 262 del 2005 nella parte in cui faceva riferimento al reato di abusiva attività finanziaria di cui all’art. 132 TUB.
7.1. La Corte costituzionale osserva che il riconoscimento della fattispecie dell’abrogazione tacita deve essere accertato con il massimo rigore, al fine di preservare il ruolo del giudice penale rispetto alla legge e scongiurare il rischio che il medesimo giudice possa vedersi attribuito o comunque svolgere «il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.)» (sent. n. 115 del 2018). Di conseguenza, il riconoscimento di un’ipotesi di abrogazione tacita deve essere il frutto di uno scrutinio saldamente ancorato alla disciplina legale e solo all’esito di una disamina strettamente correlata ai dati normativi.
A tali criteri è necessario, quindi, attenersi nella ricostruzione dell’assetto normativo in cui si colloca il reato di abusiva attività finanziaria e nell’individuazione della soluzione della questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite.
Al riguardo, un valido punto di riferimento è offerto da Sez. U, n. 698 del 24/10/2019, dep. 2020, Sinito, Rv. 277470, lì dove ha puntualizzato che «il fenomeno abrogativo delle leggi trova la sua disciplina nell’art. 15 preleggi, nell’ambito del quale la dottrina suole distinguere le seguenti tipologie di abrogazione: a) l’abrogazione espressa: si verifica quando una norma successiva espressamente dichiara abrogata una norma precedente; b) l’abrogazione tacita che si verifica quando: b1) la norma successiva si rivela essere incompatibile con quella precedente [ … ]; b2) la nuova norma disciplina ex novo una determinata materia, sicché si sostituisce alla precedente norma anche nel caso in cui questa non sia del tutto incompatibile con la nuova (cd. abrogazione per rinnovazione della materia)».
7.2. E’ quest’ultima ipotesi di abrogazione tacita che ricorre nel caso in esame. Naturalmente, il giudizio sulla riconoscibilità del fenomeno abrogativo sub specie di abrogazione per rinnovazione della materia postula una valutazione logico-giuridica incentrata, come con estrema chiarezza si evince dal passo di Sez. U, Sinito appena riportato, sul rapporto tra la precedente norma (l’art. 132 TUB ante novella del 2010) e quella nuova (la medesima disposizione modificata dal legislatore delegato del 2010). Ne consegue che i riferimenti, a proposito del punto in esame, all’art. 39 della legge n. 262 del 2005 (e al rilievo che l’art. 132 TUB dopo le modifiche non esauriva la materia oggetto della disciplina del raddoppio) risultano inconferenti.
D’altra parte, il raffronto deve investire innanzi tutto la disposizione novellata e, in uno con essa, il contesto normativo in cui si colloca, contesto, come subito si vedrà, da individuarsi soprattutto nel Titolo V del TUB ( dedicato ai «soggetti operanti nel settore finanziario»), mentre nessun rilievo, ai fini della ricostruzione logico-giuridica tra le discipline in successione riveste, ad esempio, il Titolo I del TUB dedicato alla disciplina delle autorità creditizie (Banca d’Italia, etc.).
Nel quadro dell’integrale sostituzione, ad opera dell’art. 7 del d.lgs. n. 141 del 2010, del Titolo V del TUB, all’interno del quale sono collocate tutte le norme di riferimento della norma incriminatrice dell’abusiva attività finanziaria (ossia, gli artt. 106, 107, 111 e 112 TUB), l’art. 132 TUB è stato interamente sostituito dall’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 141 cit. e prevede oggi una disciplina che, a profili riconducibili alla precedente disposizione, ne affianca di nuovi di notevole rilievo. L’accorpamento degli albi già previsti dagli artt. 106 e 107 e la conseguente unificazione dei regimi relativi a tutti gli esercenti l’attività di concessione di finanziamenti verso il pubblico si è riflessa nella stessa formulazione dell’art. 132, il cui ambito applicativo (già ridimensionato dal citato art. 35 del d.lgs. n. 11 del 2010) ha anche conosciuto, come si è visto, significative contrazioni, oltre all’abrogazione della fattispecie contravvenzionale di cui al secondo comma della disposizione anteriore alla novella del 2010.
Decisivo, poi, è il rilievo delle modifiche afferenti ai confidi e al “microcredito”, modifiche che vedono regimi di vigilanza meno rigorosi affidati (non già alla Banca d’Italia, bensì) a soggetti privati e la fattispecie incriminatrice correlarsi anche ad attività di «scarsa rilevanza sistemica»: nell’una e nell’altra direzione, il “verso” delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 141 del 2010 segnala un significativo ridimensionamento del complessivo disvalore dell’abusivismo finanziario, almeno in alcune delle fattispecie ricomprese nella norma incriminatrice. Fattispecie, queste ultime, rispetto alle quali il raddoppio della comminatoria edittale sancito dall’art. 39 della legge n. 262 del 2005 vedrebbe senz’altro acuite le segnalate possibili tensioni sul piano della ragionevolezza della risposta sanzionatoria e sulla “tenuta” del principio di proporzionalità.
La riformulazione della disposizione di cui all’art. 132 TUB operata dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 141 del 2010, unita alla riscrittura del titolo dedicato ai «soggetti operanti nel settore finanziario», rappresenta, pur in presenza di plurimi e significativi profili di continuità normativa nel nucleo, per così dire, “storico” della fattispecie incriminatrice (cfr. Sez. 5, n. 12777 del 2018, dep. 2019, Albertazzi, cit.), una nuova regolamentazione della disciplina del reato di abusiva attività finanziaria, con conseguente – parziale – abrogazione per rinnovazione della materia dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005 nella parte in cui il raddoppio delle comminatorie edittali era riferibile anche al reato di cui all’art. 132 TUB.
La soluzione della tacita abrogazione parziale dell’art. 39 cit. è del tutto in linea con i canoni dell’interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto all’allargamento dell’area applicativa del reato di abusiva attività finanziaria a fatti di scarsa rilevanza sistemica fa corrispondere il venir meno del meccanismo del raddoppio delle comminatorie introdotto dalla legge del 2005. Il sensibile, rilevante ridimensionamento del disvalore del fatto di cui alla fattispecie ex art. 132 TUB discende, dunque, da una nuova disciplina della materia, che – fermi i profili di continuità normativa già segnalati – ha determinato la tacita abrogazione della norma che, sancendo il raddoppio della comminatoria edittale del (parzialmente nuovo) reato, non può, sul piano logico giuridico, rientrare nella nuova regolamentazione della materia. Di conseguenza, la novella del 2010 ha sancito l’abrogazione tacita di quel “frammento” dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005 relativo all’art. 132 TUB.
La Corte è ben consapevole del fatto che, a fronte della perdurante vigenza dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005, successivi interventi novellatori sulle fattispecie incriminatrici caratterizzate (almeno in origine) dal raddoppio della comminatoria edittale sancito dalla disposizione citata possono determinate asimmetrie sanzionatorie nell’assetto complessivo delle varie materie. Asimmetrie, queste, che sembrano destinate a proiettare nel tempo quelle censure di irragionevolezza e sproporzione dell’art. 39 cit. formulate, all’indomani della sua introduzione, da autorevole dottrina: esse, però, da una parte, non sono suscettibili di essere ricomposte in questa sede (e, verosimilmente, richiederebbero una complessiva ridefinizione delle cornici sanzionatorie dei reati previsti dai plessi normativi interessati al “raddoppio” delle pene stabilito dall’art. 39 cit.), ma, dall’altra, non possono esimere il giudice di legittimità dal doveroso compito di ricostruire, con il rigoroso approccio metodologico sopra indicato, le singole vicende normative portate al suo esame.
8. Deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto: <<La riformulazione dell’art. 132 del lgs. 1 settembre 1993, n. 385, riguardante il reato di abusiva attività finanziaria, ad opera dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141 ha comportato l’abrogazione tacita dell’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, nella parte in cui stabiliva il raddoppio delle pene comminate per il reato di cui all’art. 132 cit.».
9. Come si è visto, sia il ricorrente, sia il Procuratore generale presso questa Corte eccepiscono l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, dell’art. 132 TUB, come modificato dall’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 141 del 2010, ove interpretato – come ritenuto da queste Sezioni Unite – nel senso dell’intervenuta parziale abrogazione tacita dell’art. 39 della legge n. 262 del 2005. La questione prospettata è manifestamente infondata.
9.1. In limine, deve darsi conto di un profilo di ammissibilità di tale questione.
E’ nota la complessa e controversa problematica dell’ammissibilità di interventi manipolativi in malam partem del giudice delle leggi in materia penale. Il consolidato orientamento della Corte costituzionale, infatti, è nel senso che «la possibilità di una dichiarazione di illegittimità costituzionale in materia penale con effetti in malam partem incontra un limite nel principio della riserva di legge, che governa tale materia in forza dell’art. 25, secondo comma, Cost.», sicché «non sono ammissibili pronunce con effetti in malam partem che derivino dall’introduzione di nuove norme penali o dalla manipolazione di quelle esistenti (…], perché il principio sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove fattispecie criminose o estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità» (Corte Cost., orci. n. 285 del 2012; conf., ex plurimis, sent. n. 394 del 2006, ord. n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009).
L’orientamento richiamato ha però conosciuto una rilevante eccezione proprio nel caso in cui la questione di legittimità costituzionale sia volta a sollecitare il vaglio del giudice delle leggi sull’esercizio da parte del Governo della delega legislativa conferitagli, con la conseguente ammissibilità delle questioni che denunciano l’eccesso di delega.
Di grande rilievo, in questo senso, è la sentenza n. 5 del 2014, che ha enunciato con chiarezza i termini dell’eccezione e le sue ragioni. Secondo la sentenza ora citata, infatti, quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone una questione di legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo su delega del Parlamento, il sindacato della stessa Corte costituzionale non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale, In quanto detto principio «rimette al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare, ed è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa», sicché «la verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata diviene […] strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost.».
Ribadito anche di recente (Corte cost., sent. n. 105 del 2022), l’indirizzo da ultimo richiamato rende ragione dell’ammissibilità, sotto il profilo indicato, della questione di legittimità costituzionale in esame.
9.2. Pur ammissibile, detta questione è manifestamente infondato.
Come si è visto supra (§ 5.1), la Direttiva 2008/48/CE prevede, all’art. 23, per un verso, che «gli Stati membri stabiliscono le norme relative alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate a norma della presente Direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione» e, per altro verso, che «le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive». Il riferimento alla previsione di sanzioni “efficaci, proporzionate e dissuasive” include anche il possibile intervento rispetto a sanzioni penali: tipico della normativa europea, tale riferimento è funzionale, come sottolinea in modo concorde la dottrina, a rimettere al legislatore dello Stato membro l’opzione circa il tipo di sanzione da prevedere e la sua specifica definizione (fermo restando l’eventuale giudizio della Corte di giustizia sull’adeguatezza di tale opzione). Viene dunque in rilievo, come pure si è osservato, un «obbligo di risultato», da correlare ai tre parametri dell’efficacia, della proporzionalità e della dissuasività.
In questo senso, anche la Corte di giustizia ha affermato che, qualora una normativa dell’Unione non preveda una sanzione specifica, gli Stati membri devono adottare tutte le misure in grado di garantire la portata e l’efficacia del diritto dell’Unione: a tal fine, essi conservano «un potere discrezionale in ordine alla scelta di tali misure», ma devono vigilare affinché «le violazioni del diritto dell’Unione ove necessario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva» (Corte di Giustizia, 07/10/2010, Stils Met).
Nella stessa prospettiva, la Corte di giustizia, già nella sentenza nota come relativa al “mais greco” (Corte di Giustizia, 21/09/1989, Commissione delle Comunità europee), aveva già stabilito i princìpi cc.dd. della sanzione adeguata (§ 23: qualora una disciplina comunitaria non contenga una specifica norma sanzionatoria di una violazione o che rinvii in merito alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, il diritto dell’Unione «impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario») e di assimilazione (§ 24: pur conservando la scelta delle sanzioni, gli Stati devono vegliare a che «le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva»).
Del resto, lo stesso Considerando 47 della Direttiva 2008/48/CE sottolinea che la scelta delle sanzioni è stata lasciata alla discrezionalità degli Stati membri, fermo restando che esse devono essere, appunto, effettive, proporzionate e dissuasive, mentre l’art. 2, comma 1, della legge n. 88 del 2009 fa espresso riferimento ai contenuti delle direttive da applicare. Proprio con riguardo alla legge comunitaria del 2008, la Corte costituzionale ne ha ravvisato la ratio nel recepimento delle prescrizioni contenute nelle varie direttive, «in uno con la finalità di conseguire il grado più elevato possibile di ottemperanza alle medesime» (Corte cost., sent. n. 174 del 2021).
Ora, è del tutto pacifico, nella giurisprudenza costituzionale, che «nel caso di delega per l’attuazione di una direttiva comunitaria, i principi che quest’ultima esprime si aggiungono a quelli dettati dal legislatore nazionale e assumono valore di parametro interposto» (Corte cost., sent. n. 250 del 2016; conf., ex plurimis, sent. n. 49 del 1999). La prospettazione del ricorrente circa l’eccesso di delega in cui si risolverebbe la tesi contrapposta a quella dallo stesso sostenuta non tiene conto della norma di cui alla Direttiva dell’Unione.
Né in senso contrario è dirimente il riferimento ai princìpi e ai criteri direttivi dettati dagli artt. 2 e 33 della delega legislativa di cui alla legge n. 88 del 2009. Invero, al di là dei rilievi di seguito proposti, ugualmente consolidato, nella giurisprudenza costituzionale, è il principio per cui «nel caso di delega per l’attuazione di una direttiva comunitaria, i principi che quest’ultima esprime si aggiungono a quelli dettati dal legislatore nazionale e assumono valore di parametro interposto, potendo autonomamente giustificare l’intervento del legislatore delegato» (Corte cost., sent. n. 210 del 2015; conf., ex plurimis, sent. n. 134 del 2013 e n. 32 del 2005).
9.3. Neppure può argomentarsi sulla base della riferibilità dell’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE a una sola delle tipologie di finanziamenti presi in considerazione (dall’art. 106 e) dall’art. 132 TUB (ossia, ai crediti al consumo).
Esercitata validamente la delega posta direttamente dalla fonte di diritto dell’Unione europea, il legislatore delegato ha equiparato (o, meglio, ha, sostanzialmente, continuato a equiparare) la comminatoria edittale delle altre figure sussumibili nel paradigma punitivo di cui all’art. 132 TUB, ossia di quelle riconducibili alla disciplina dettata – per l’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti – dagli art. 106 e 107 TUB, alla comminatoria delle figure non appartenenti a quello che si è definito come nucleo storico della fattispecie incriminatrice, quali le ipotesi correlate alla disciplina del microcredito e dei confidi (pur non del tutto omogenee, queste ultime, alle prime).
La validità dell’opzione del legislatore delegante (derivante in prima battuta – è bene ribadirlo – dall’esercizio della delega alla luce del criterio direttivo di cui all’art. 23 della direttiva dell’Unione) si ricollega al rilievo che, almeno tendenzialmente (ossia, in particolare, pur con l’abrogazione della contravvenzione di cui al comma 2 dell’art. 132 TUB), l’assoggettamento alla medesima comminatoria edittale di tutte le figure di abusiva attività finanziaria costituisce una costante dell’evoluzione normativa dell’art. 132 TUB e trova giustificazione nella fisionomia della norma incriminatrice, costruita intorno a un elemento costitutivo negativo, ossia allo svolgimento dell’attività finanziaria in difetto dell’autorizzazione di cui all’art. 107 TUB o dell’iscrizione di cui agli artt. 111 e 112 TUB.
In virtù di questo elemento costitutivo negativo, la sussistenza del reato è integrata dall’esercizio dell’attività finanziaria in assenza di uno qualsiasi dei titoli abilitativi o ammissivi stabiliti dalla legge in relazione a ciascuna tipologia di attività finanziaria. Tanto più che, per alcune di esse (ad esempio, per le condotte di erogazione di finanziamenti), la concreta “catalogazione” nell’ambito della singole figure delineate dal legislatore (credito al consumo o microcredito, ad esempio) può risultare in concreto problematica.
Applicato validamente il criterio direttivo previsto dalla Direttiva sul credito al consumo, il legislatore delegato, anche alla luce delle considerazioni svolte e in linea con il principio di assimilazione di cui si è detto, ha “completato” il complessivo riassetto della norma incriminatrice, adeguandolo e riconducendo ad unum la configurazione della fattispecie incriminatrice e la cornice sanzionatoria del reato. In tal modo, oltre a ridurre l’impatto delle specifiche problematiche relative alla qualificazione delle varie fattispecie sussumibili nell’art. 132 TUB, il ridimensionamento della comminatoria edittale garantisce un quadro sanzionatorio senz’altro più consono a una norma incriminatrice caratterizzata (con l’avvento del d.lgs. n. 141 del 2010) dall’espunzione delle tipologie di attività finanziarie sopra indicate e dall’inclusione di fatti, come quelli relativi al microcredito e ai confidi, caratterizzati da un basso rischio sistemico.
9.4. Tale “completamento” è del tutto in linea con le indicazioni offerte dal giudice delle leggi. La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha chiarito che «l’art. 76 Cost. non impedisce l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante […], dovendosi escludere che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo», sicché «neppure il silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema può impedire, a certe condizioni, l’adozione di norme da parte del delegato […], trattandosi in tal caso di verificare che le scelte di quest’ultimo non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega» (Corte cost., sent. 47 del 2014, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità, sollevata anche in riferimento all’art. 76 Cost., dell’art. 60 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 nella parte in cui non consente l’applicazione della sospensione condizionale della pena – istituto riferibile al trattamento sanzionatorio – nel procedimento penale dinanzi al giudice di pace).
Dunque, «il legislatore delegato ha margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne rispetti la ratio e che l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo» (Corte cost., sent. n. 59 del 2016), posto che «la determinazione dei principi e criteri direttivi non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante» (ex plurimis, Corte cost., sent. n. 426 del 2008; nella stessa prospettiva, aderendo all’orientamento della giurisprudenza costituzionale, Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 27887001 – 04).
Ora, un duplice rilievo si impone.
Da una parte, il “silenzio” in tema di sanzioni segnalato a proposito dell’art. 33 della delega ex lege n. 88 del 2009 perde di rilievo alla luce della giurisprudenza costituzionale richiamata.
D’altra parte, rimodulato (sulla base della delega ex art. 23 della Direttiva 2008/48/CE) il trattamento sanzionatorio del reato di cui all’art. 132 TUB con riguardo al credito al consumo, la novella legislativa ha uniformato, “completandolo”, detto trattamento anche in relazione alla norma incriminatrice in toto considerata.
Non coglie, dunque, nel segno il riferimento – tratto dall’art. 2, comma 1, lett. e), settimo periodo, legge n. 88 del 2009 – all’identità delle sanzioni già comminate dalle leggi vigenti per violazioni omogenee e di pari offensività.
Invero, incentrato in via esclusiva sulla comminatoria della pena, detto riferimento trascura di considerare sia il precetto e il sensibile ridimensionamento del disvalore complessivo dell’art. 132 TUB correlato alle rilevanti innovazioni operate dal d.lgs. n. 141 del 2010, sia, con tale ridimensionamento, la minore offensività, propria, dopo la novella del 2010, del reato di abusiva attività finanziaria. Il che priva di rilievo ai fini in esame la disposizione richiamata.
Inoltre, l’incipit della disposizione ex art. 2, comma 1, lett. c), cit. («al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti») è stato interpretato dalla Corte costituzionale come inteso a «precludere al Governo la possibilità di incidere […] sulla disciplina penale più generale, di fonte codicistica o comunque afferente ad ambiti e ad interessi che, per quanto implicati anche nella nuova normativa, in essa non si esauriscano» (Corte cost., sent. n. 174 del 2021 cit.); al contrario, le varie figure sanzionate dall’art. 132 TUB hanno il comune denominatore dell’esercizio di un’attività finanziaria contra ius in quanto connotata dall’elemento costitutivo negativo evidenziato, il che – ferme restando le conseguenze, anche sul piano della problematica distinguibilità in concreto di ciascuna di esse, messe in luce supra al § 9.3. – circoscrive, esaurendolo, il disvalore complessivo associato alla fattispecie incriminatrice. Resta dunque esclusa, rispetto a tale fattispecie, la limitazione richiamata.
D’altra parte, come si è visto, la giurisprudenza costituzionale è ferma nell’affermare che i principi espressi dalla fonte europea si aggiungono a quelli dettati dal legislatore nazionale e assumono valore di parametro interposto, potendo autonomamente giustificare l’intervento del legislatore delegato: conclusione, quest’ultima, che, a ben vedere, rappresenta una concreta espressione del tendenziale primato del diritto dell’Unione su quello degli Stati membri.
Infine, deve essere valutato l’ulteriore profilo messo in luce dalla giurisprudenza costituzionale al fine di riconoscere la validità ex art. 76 Cast. del decreto delegato, ossia la coerenza con indirizzi generali della stessa legge delega e l’atteggiarsi delle norme a coerente sviluppo della stessa.
Al riguardo, è sufficiente ricordare che il d.lgs. n. 141 del 2010 – oltre a espungere dalla disciplina di cui all’art. 106 TUB alcune ipotesi di attività finanziaria già assoggettate a quel regime autorizzatorio (e, quindi, in allora, rientranti nella sfera di operatività dell’art. 132 TUB) – ha ampliato l’ambito applicativo della fattispecie di abusiva attività finanziaria fino a ricomprendervi le attività di “microcredito” e dei confidi caratterizzate, come si è più volte rimarcato, da scarsa rilevanza sistemica o assoggettati alla vigilanza – non della Banca d’Italia, ma – di organismi privati.
In linea con l’opzione operata dal legislatore delegato sulla base dell’art. 23 della Direttiva europea, l’intervento comportante il ridimensionamento della comminatoria edittale del reato di cui all’art. 132 TUB rappresenta un completamento coerente con le scelte del legislatore stesso e in armonia, come si è visto, con il principio di proporzionalità della pena.
Il prospettato eccesso di delega risulta, dunque, ictu oculi insussistente.
10. Alla luce delle conclusioni raggiunte, l’ordinanza impugnata è immune dai vizi denunciati e, pertanto, il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari deve essere
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso il 23/02/2023.
Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2023.