REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. GIACOMO ROCCHI – Presidente –
Dott. DOMENICO FIORDALISI – Consigliere –
Dott. STEFANO APRILE – Relatore –
Dott. MARCO MARIA MONACO – Consigliere –
Dott. VINCENZO GALATI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MESSINA
nei confronti di:
(OMISSIS) (OMISSIS) nato a (OMISSIS) il XX/XX/19XX;
avverso l’ordinanza del 02/02/2024 del GIP del TRIBUNALE di MESSINA;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. STEFANO APRILE;
lette le conclusioni del PG, Dott.ssa Perla LORI che ha concluso per il rigetto del ricorso;
dato avviso al difensore;
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento impugnato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina ha rigettato la richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS) per í reati previsti e puniti dagli artt. 678 e 679 cod. pen.
Il rigetto, con restituzione degli atti, fa leva sulla previsione dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. (nel testo novellato dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, in vigore dal 31/12/2022) ed evidenzia la impossibilità di “valutare la congruità della pena pecuniaria richiesta dal P.M. così come prescritto dalla novella … in mancanza di accertamenti patrimoniali”.
1.1. Il pubblico ministero aveva avanzato la richiesta di decreto penale sulla premessa che sarebbe abnorme, in quanto fondato unicamente su motivi di opportunità, il provvedimento con il quale il Giudice per le indagini preliminari rigettasse la richiesta di emissione di decreto penale di condanna in base alla prognosi negativa circa il pagamento della pena pecuniaria (Sez. 5, n. 14041 del 05/12/2022 – dep. 2023, PM c/ Seke, Rv. 284380), nonché richiamando Sez. U., n. 20569 del 18/01/2018, PM in proc. Ksouri, Rv. 272715, Sez. 4, n. 29349 del 22/05/2018, P.M. in proc. Bini, Rv. 273376, e Sez. 6, n. 17702 del 01/04/2016, P.M. in proc. C M, Rv. 266741.
Nella richiesta, il pubblico ministero aveva sottolineato di avere individuato il tasso di ragguaglio nella misura di 40 euro al giorno (forbice da 5 a 250 euro) e una pena detentiva di 15 giorni di arresto, oltre all’ammenda di euro 100, per complessivi euro 700 di ammenda.
2. Ricorre il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina che chiede l’annullamento del provvedimento impugnato, deducendo l’abnormità e la violazione di legge.
Il ricorrente assume che il GIP non ha tenuto conto che l’organo di accusa, nell’indicare la pena detentiva, si è attestato su un parametro molto basso ai fini della conversione e ha proceduto all’ulteriore riduzione per la scelta del rito, mentre il giudice, se avesse ritenuto la somma non congrua, avrebbe potuto concedere la sospensione condizionale della pena o ammettere l’imputato al pagamento rateale ma, comunque non negargli la possibilità di accedere al rito premiale.
Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità già citata nella richiesta di decreto penale che qualifica come abnorme il provvedimento del GIP che rigetta la richiesta di ammissione al decreto penale di condanna fondata unicamente su motivi di opportunità ovvero esprimendo un giudizio prognostico negativo circa la possibilità di adempiere dell’imputato.
Di analogo contenuto sarebbe la decisione impugnata che oppone la necessità di una ingiustificata indagine patrimoniale, affatto richiesta dalla legge, dalla quale deriva una situazione di stallo perché incide sulla libertà del pubblico ministero di scegliere il rito, che reca anche vantaggi per l’imputato, e che omette di pronunciarsi sulla congruità della pena per la determinazione della quale non è funzionale l’indagine patrimoniale dietro la quale si palesa, in realtà, un non liquet.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, come ritenuto dal Procuratore generale, non è fondato.
2. Il GIP del Tribunale di Messina ha richiamato l’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., come modificato dal D.Igs. 150/2022, il quale stabilisce: «Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva.
Il valore non può essere inferiore a 5 euro, e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare.
Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l’articolo 133-ter del codice penale».
Il GIP ha, dunque, ritenuto necessari gli accertamenti che, secondo l’espressa previsione di legge, consentono di commisurare la pena alla concreta situazione patrimoniale dell’imputato; pertanto ha ritenuto che il pubblico ministero, avendo inteso di fare ricorso al procedimento monitorio, dovesse necessariamente fornire indicazioni circa i parametri in base ai quali commisurare la pena pecuniaria richiesta in sostituzione di quella detentiva, rimanendo in capo al giudice il potere – dovere di valutare la congruità della stessa, sia pure alla luce delle nuove regole di commisurazione stabilite dal novellato art. 459 cod. proc. pen.
Dette regole riguardano, in primo luogo, il criterio di ragguaglio della pena pecuniaria, che risulta modificato nel minimo (5 euro), ed è determinato in misura variabile (da 5 a 250 euro); nella commisurazione della entità pena pecuniaria il giudice deve tener conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Il riferimento a tale parametro, che sostituisce quello previgente che richiamava la sola «condizione economica dell’imputato e del suo nucleo familiare», implica una valutazione più ampia da parte del giudice al quale è rimesso il compito di determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individuando il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato tenendo conto, in termini complessivi, non solo della situazione economica personale e familiare dell’imputato, ma anche delle condizioni patrimoniali e di vita dello stesso e del suo nucleo familiare, intesi quale ulteriore, personalizzante, parametro di valutazione.
3. Ciò premesso, l’ordinanza impugnata non è abnorme perché non ha interferito con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale, né è stata adottata in violazione di legge.
3.1. Non è, anzitutto, calzante il richiamo a Sez. 5, Seke, cit., poiché, a differenza del principio citato, nel caso in esame il GIP non ha fatto alcun riferimento alla prognosi negativa circa il pagamento della pena pecuniaria indicata nella richiesta del pubblico ministero.
3.2. È, invece, puntuale il richiamo, operato dal Procuratore generale, a Sez. 2, n. 27892 del 16/05/2023, non massimata, che ha esaminato un caso identico a quello oggetto del ricorso.
Come si è ricordato, le Sezioni Unite, in tema di decreto penale di condanna, hanno affermato che deve «qualificarsi come abnorme il provvedimento di restituzione degli atti, motivato da ragioni di mera opportunità, che si traduca in una manifestazione di dissenso rispetto alla scelta, di esclusiva pertinenza dell’organo dell’accusa, di introdurre il procedimento monitorio ed in un’arbitraria usurpazione da parte del giudice di facoltà, riservate dall’ordinamento alla parte pubblica, in conseguenza della difforme considerazione sull’utilità del rito e sui suoi futuri sviluppi» (Sez. U, Ksouri, cit.).
La pronuncia ha ribadito quanto in precedenza affermato da Sez. 6, C., cit., proprio in ordine all’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti da parte del GIP che sia fondato sulla «prognosi negativa circa l’adempimento da parte dell’imputato dell’obbligo di pagamento della pena pecuniaria».
Sul tema della individuazione dei limiti del controllo giudiziale sulla richiesta di introduzione del rito monitorio, Sez. U. Ksouri, cit., ha precisato che l’ordinanza di rigetto della richiesta costituisce «espressione del legittimo esercizio del potere cognitivo conferito al giudice per le indagini preliminari dall’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., che, al di fuori di qualsiasi automatismo decisorio ed in coerenza col ruolo funzionale di quel giudice, gli riconosce la possibilità di un ampio sindacato sul merito dell’istanza».
Nei medesimi termini si è espressa anche Sez. 4, Bini, cit., che, dopo aver passato in rassegna la casistica relativa al potere cognitivo e decisorio del giudice, ha concluso nel senso di ritenere sussistente un orientamento tutt’altro che restrittivo della giurisprudenza circa la individuazione dei confini entro i quali può svolgersi il controllo giudiziale sulla richiesta del P.M. di introduzione del rito speciale di cui agli artt. 459 e ss., cod. proc. pen. (la decisione è stata così massimata: «non è abnorme l’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari rigetti la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, salvo che il provvedimento interferisca con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione»; in applicazione del principio, la S.C. ha escluso l’abnormità del provvedimento impugnato, ritenendolo riconducibile alla valutazione della congruità della pena attribuita al GIP, in un caso di restituzione degli atti al pubblico ministero, motivato in ragione della mancata allegazione da parte di quest’ultimo di elementi idonei a determinare le condizioni economiche dell’imputato, quale elemento di cui, ai sensi dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., deve tenersi conto per determinare il valore giornaliero in caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva).
4. Le richiamate sentenze costituiscono un fondamentale assetto giurisprudenziale che si rivela centrale per la decisione del caso oggetto del giudizio.
Il provvedimento, con il quale il giudice ha ritenuto la mancanza di elementi per valutare la congruità della pena indicata in sostituzione dal P.M. richiedente, non presenta alcuno dei profili strutturali dell’abnormità dedotta, ponendosi all’interno del controllo giudiziale previsto dalla legge e, in particolare, rispettoso del dettato normativo. Peraltro, la critica sviluppata dal ricorrente, che ha ritenuto di avere effettuato una “congrua” richiesta di decreto penale di condanna perché attestata sui minimi, non si mostra specifica e si palesa, piuttosto, caratterizzata da censure di merito.
Si tratta, cioè, di un argomento che non si confronta specificamente con la decisione impugnata che ha fatto riferimento al difetto di informazioni sulla situazione patrimoniale dell’imputato, carenza che il ricorso non contesta, e che pretende di sindacare il giudizio sulla congruità della pena che spetta al giudice di compiere sulla base dei parametri legali e degli elementi ritenuti necessari per la valutazione, anche secondo il disposto normativo specifico dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen.
4.1. Il ricorso va, quindi, rigettato; va fissato il seguente principio di diritto:
«non è abnorme l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari rigetti la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, perché, in mancanza di elementi sufficienti per commisurare la pena alla concreta situazione patrimoniale dell’imputato e per valutare i parametri in base ai quali commisurare la pena pecuniaria richiesta in sostituzione di quella detentiva, il provvedimento non interferisce con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione».
P. Q. M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso il 17 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2024.