REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da
Dott. ROSA PEZZULLO – Presidente –
Dott. LUCIANO CAVALLONE – Consigliere –
Dott. MICHELE CUOCO – Relatore –
Dott. CARLO RENOLDI – Consigliere –
Dott. GIORDANO ROSARIA – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
Milosa Davide nato a Milano il 29 agosto 1972;
Travaglio Marco nato a Torino il 13 ottobre 1964;
avverso la sentenza del 16 ottobre 2024 della Corte d’appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Michele Cuoco;
lette la memoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Giuseppe Sassone, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
lette le memorie depositate il 26 marzo e il 3 aprile 2025 dall’avv. (omissis) (omissis), che ha insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. Davide Milosa e Marco Travaglio sono stati tratti a giudizio per rispondere rispettivamente, dei reati di cui agli artt. 595, commi 2 e 3, e 57 cod. pen., perché, il primo, nella sua qualità di autore dell’articolo apparso sul quotidiano “Il Fatto Quotidiano” e sul relativo sito web il 15 maggio 2019, avrebbe offeso la reputazione di (omissis) (omissis), ed il secondo, nella sua qualità di direttore responsabile, avrebbe omesso il relativo controllo sul contenuto dell’articolo pubblicato.
Secondo la prospettazione accusatoria, la diffamazione si sarebbe sostanziata nell’aver attribuito al (omissis), professore presso l’Università degli studi Luigi Bocconi, di intrattenere rapporti con (omissis) (omissis), nipote incensurato del boss della ‘ndrangheta Giosofatto Molluso, e nell’aver ricollegato a tale rapporto un cospicuo incremento reddituale da parte delle società delle quali il (omissis) è azionista di maggioranza.
La prospettazione accusatoria è stata integralmente confermata in primo grado e, all’esito dell’appello proposto dagli imputati, anche dalla Corte territoriale.
2. Il ricorso è proposto nell’interesse di entrambi gli imputati e si articola in quattro motivi d’impugnazione.
I primi tre, formulati sotto il profilo della violazione degli artt. 21 Cost., 1, 51, 59 e 595 cod. pen., deducono che il fatto deve ritenersi scriminato in ragione del legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria (sussistente quanto meno sotto il profilo putativo), alla luce della veridicità dei dati fattuali riportati nell’articolo, della continenza del lessico utilizzato e dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia.
La difesa sostiene che il giornalista si sarebbe limitato a dare atto di dati fattuali pacificamente accertati, riferendo, fedelmente, gli esiti delle indagini; esiti dai quali emergevano non solo i predetti dati fattuali, scrupolosamente riportati dal giornalista nella loro individuale dimensione storica, ma anche quell’unitaria lettura consequenziale che, nella prospettiva accusatoria, fondava il contenuto diffamatorio dell’articolo (che il (omissis) fosse coinvolto in affari illeciti rimasti occulti per la sua vicinanza a potenti ambienti criminosi).
Un dubbio, quest’ultimo, sostiene la difesa, esplicitamente prospettato dagli stessi investigatori attraverso la sistemazione in rapporto di stretta consequenzialità dei fatti accertati (il precedente del 1993 per associazione per delinquere ed estorsione, la partecipazione maggioritaria nelle plurime aziende delle quali è procuratore il nipote del boss, il notevole incremento dei redditi delle società da lui partecipate), ma che, nella struttura rappresentativa dell’articolo, è sempre stato doverosamente bilanciato dalla costante esplicitazione che il (omissis) non era soggetto indagato, che le indagini erano ancora in corso e che non vi era alcuno sviluppo penale nei suoi confronti.
In questi termini, a fronte di una rappresentazione veritiera di dati fattuali, espressa con continenza di forme e pubblicata, nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, in ragione dell’interesse pubblico connesso al particolare profilo professionale del (omissis), alcuna diffamazione potrebbe essere addebitata al giornalista ed alcuna responsabilità per omesso controllo potrebbe essere imputata al direttore.
Il quarto attiene al trattamento sanzionatorio e lamenta, sotto il profilo della violazione di legge, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod pen., illogicamente esclusa in ragione di un’indimostrata gravità della lesione subita dalla persona offesa.
3. Con separate memorie depositate il 26 marzo e il 4 aprile 2025, la difesa dei ricorrenti ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato.
Oggetto dell’imputazione, per come si è detto, è l’articolo apparso sul quotidiano “Il Fatto Quotidiano” e sul relativo sito web il 15 maggio 2019, ritenuto lesivo della reputazione di (omissis) (omissis), al quale, secondo la prospettazione accusatoria, attraverso la suggestiva rappresentazione di fatti particolarmente evocativi (i rapporti con (omissis) (omissis), nipote incensurato del boss della ‘ndrangheta Giosofatto Molluso, e i paralleli incrementi reddituali delle società delle quali il (omissis) è azionista di maggioranza), posti in stretta consequenzialità logica, verrebbe consapevolmente attribuito uno “stigma di mafiosità”, di vicinanza agli ambienti mafiosi, in mancanza di un concreto interesse pubblico alla conoscenza della vicenda.
I ricorrenti ritengono che le condotte oggetto dell’imputazione siano scriminate dal legittimo esercizio del diritto di cronaca; i giudici di merito, invece, che ne siano stati travalicati i relativi confini.
Cosicché la questione sottoposta alla valutazione di questa Corte attiene alla verifica del corretto esercizio di tale diritto e, in particolare, del rispetto dei necessari requisiti della verità oggettiva della notizia (nella peculiare configurazione che questo limite trova nell’ambito della cronaca giudiziaria), della continenza delle forme e dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia (che ne giustifica la diffusione).
Ciò considerato, questa Corte ritiene che i fatti, così come contestati, integrino effettivamente una lesione della reputazione del (omissis) e, quindi, abbiano un’oggettiva valenza diffamatoria, ma siano giustificati dal legittimo esercizio del diritto di cronaca, svolto nel rispetto della verità dei contenuti e della continenza della forma e a tutela di un interesse pubblico alla conoscenza della notizia divulgata.
Che la pubblicazione della notizia abbia una valenza oggettivamente diffamatoria non può revocarsi in dubbio (né tanto è contestato dalla difesa), essendo stato evocata, pur con le doverose precisazioni, una certa cointeressenza ambienti mafiosi.
Ma una condotta oggettivamente diffamatoria può essere giustificata se, essa stessa, espressione di altro parallelo diritto, di pari rango costituzionale, quale, nello specifico, il diritto di cronaca giornalistica, espressione della libertà di pensiero e di stampa riconosciute dall’art. 21 Cost., diritto pubblico soggettivo che si sostanzia nel potere – dovere conferito al giornalista di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata (Sez. 5, n. 4492 del 12/01/1982, Rv. 153477).
L’esercizio del diritto di cronaca, tuttavia, può giustificare un’oggettiva lesione della personale reputazione di un individuo, solo se la rappresentazione offerta risponda ad un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati (tale da legittimare la compressione dei simmetrici diritti della persona incisi dalla divulgazione dei fatti) ed offra una descrizione della realtà coerente con la verità oggettiva (o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) e rappresentata in forma «civile» (tanto nell’esposizione dei fatti, quanto nella loro valutazione).
In altri termini, essendo il giornalista un semplice intermediario tra il fatto e l’opinione pubblica, la divulgazione della notizia lesiva deve essere giustificata da un oggettivo interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti e resa con l’adozione di modalità espressive adeguate allo scopo informativo (cfr., ex plurimis, Cass. civ. n. 690 del 2010; Cass. civ. n. 22190 del 2009; Cass. civ. n. 17172 del 2007).
Entro questi limiti, il bilanciamento tra l’interesse individuale alla tutela di diritti della personalità quali l’onore, la reputazione e la riservatezza, e quello, costituzionalmente protetto, alla libera manifestazione del pensiero deve risolversi in favore di quest’ultimo, avuto riguardo al prevalente diritto dell’opinione pubblica ad essere informata ed a formarsi un convincimento in ordine a vicende di rilevante interesse collettivo.
Ciò considerato, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, il criterio della verità si risolve nella necessaria coerenza della notizia divulgata rispetto al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria (Sez. 5, n. 13782 del 29/01/2020, Rv. 278990), non solo sotto il profilo della mera correttezza formale dell’esposizione (Cass. civ., n. 8065, del 31/03/2007, Rv. 598568), ma anche sotto quello, sostanziale, della complessiva rappresentazione dell’intero contesto investigativo, che deve essere condotta, costantemente, nel rispetto della necessaria presunzione di non colpevolezza.
Tanto più nella delicata fase delle indagini preliminari, dove – proprio in ragione della fluidità ed dell’ontologica incertezza del contenuto delle investigazioni – è doveroso un racconto asettico, senza enfasi od indebite anticipazioni di colpevolezza, non essendo consentito al giornalista aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell’ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel lettore facili suggestioni, in spregio del dettato costituzionale di innocenza dell’imputato (ed a fortiori dell’indagato) sino alla sentenza definitiva (Sez. 5, n. 3674 del 27/10/2010, dep. 2011, Rv. 249699; Sez. 5, n. 4158 del 18/09/2014, dep. 2015, Rv. 262169).
Se, infatti, il cronista non è certamente tenuto a verificare la fondatezza dell’accusa (dovendo, piuttosto, controllarne rigorosamente i termini di formulazione), parimenti non può indulgere ad alcuna preconcetta opzione di responsabilità, rendendo una ricostruzione in chiave colpevolista.
Cosicché, se, di certo, non gli si può impedire di avere, al riguardo, un’opinione da manifestare, non gli è però consentito rappresentare la vicenda in termini diversi da ciò che è realmente allo stato: null’altro che un mero progetto di accusa attorno ad ipotesi d’illecito e di penale responsabilità, tutte però da verificare.
Ed è quanto emerge dall’articolo in contestazione: l’autore non solo non si è discostato dagli esiti investigativi e dai conseguenti atti giudiziari divulgati, ma non ha neanche travalicato, nelle modalità di rappresentazione, i limiti propri della continenza, avendo descritto, correttamente, le chiare emergenze processuali, nell’interesse generale alla conoscenza del fatto.
Un interesse che non può essere escluso solo dalla sua oggettiva estraneità rispetto ai fatti oggetto dell’indagine penale; circostanza, questa che, alla luce delle funzioni di interesse generale svolte dal Morabito (professore in una dei più prestigiosi atenei italiani) e dei significativi interessi economici da lui gestiti, in alcun modo incide sull’attitudine dei fatti narrati a contribuire alla formazione della pubblica opinione, offrendo al cittadino dati astrattamente utili affinché egli stesso possa liberamente orientare le proprie scelte.
L’articolo, infatti, dopo aver ripetutamente chiarita l’estraneità del (omissis) rispetto alle indagini, si limita a dare atto, fedelmente, degli esiti delle indagini, rappresentando i fatti in esse accertati (il ruolo svolto dal (omissis), il precedente giudiziario del (omissis), il notevole incremento reddituale nel periodo di collaborazione con il (omissis) e la sua significativa disponibilità economica) e, con essi, anche quell’unitaria lettura consequenziale che, nella prospettiva accusatoria, ha fondato il contenuto diffamatorio dell’articolo; circostanza non solo desumibile dalla sistemazione in rapporto di stretta consequenzialità dei fatti accertati (contestata al giornalista, ma operata dagli stessi investigatori), ma chiaramente manifestata nell’esplicita richiesta di consultazione della banca dati della DDA, avanzata dagli investigatori all’esplicito fine di “accertare eventuali legami tra (omissis) e la criminalità organizzata”.
In questi termini, la pubblicazione della notizia oggettivamente diffamatoria deve ritenersi giustificata dal diritto di cronaca giornalistica, per cui la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, perché il fatto contestato al Milosa non costituisce reato e quello contestato al Travaglio non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Davide Milosa perché il fatto non costituisce reato.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Marco Travaglio perché il fatto non sussiste.
Roma, 15/04/2025
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2025.