Ricarica gratuita per il telefono cellulare: è indebito utilizzo di uno strumento di pagamento (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 6 giugno 2022, n. 21771).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGO Geppino – Presidente –

Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria – Rel. Consigliere –

Dott. SGADARI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

(OMISSIS) YOUNESS, nato a Casablanca (Marocco) il 23 giugno 19xx;

avverso la sentenza emessa il 20 luglio 2020 dalla Corte d’appello di Brescia;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita nella pubblica udienza del 9 febbraio 2020 la relazione fatta dal Consigliere, Dott.ssa Giuseppina Anna Rosaria Pacilli;

Letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale in persona della Dott.ssa Valentina Manuali, che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 9 febbraio 2020 la Corte d’appello di Brescia, in riforma della sentenza emessa il 10 luglio 2019 dal Tribunale di Mantova, ha riqualificato il reato ai sensi dell’art. 55, comma 9, D.Lgs n. 231 del 2007, ora 493 ter cod. pen., e ha confermato nel resto.

All’imputato è stato contestato di aver ricevuto sul proprio telefono cellulare una ricarica telefonica di euro 10,00, di provenienza illecita, in quanto provento del furto perpetrato da ignoti in danno della tabaccheria di proprietà di (OMISSIS) Adriano.

La Corte d’appello ha sussunto il fatto nell’ambito dell’art. 493 ter cod. pen., in luogo dell’originaria qualificazione di ricettazione, che ha escluso, in quanto l’imputato non aveva ricevuto denaro o cose provenienti da reato, ma aveva semplicemente digitato numeri di codici, fornitigli da altri soggetti.

La Corte territoriale ha valorizzato, da un lato, il dato del mancato reperimento di un supporto cartaceo che incorporasse il codice, impresso sulla carta di ricarica telefonica, oggetto di furto, e, dall’altro, l’indebito utilizzo di tale codice da parte dell’imputato per ricaricare il telefono nella sua disponibilità.

Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, che ha dedotto i seguenti motivi:

1) inosservanza dell’art. 597, commi 1 e 3, cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale ricondotto il fatto nell’alveo dell’art. 493 ter cod. pen., pur in difetto della richiesta dell’appellante, il quale, nel contestare la qualificazione operata ai sensi dell’art. 648 cod. pen. dal primo giudice, aveva chiesto soltanto di essere assolto da ogni reato;

2) erronea applicazione della legge e vizi della motivazione, per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto che il supporto plastico, su cui era impresso il codice numerico della ricarica, fosse da considerare carta di credito telefonica o di pagamento.

Una carta di pagamento è una tessera di plastica, emessa da una banca o da un istituto di credito, che permette all’utente di usufruire di diversi servizi finanziari.

Essa non avrebbe nulla a vedere con la ricarica telefonica che costituirebbe solo una, più o meno piccola, somma di denaro, che viene versata sulla propria sim ricaricabile attraverso l’utilizzo di un codice numerico, che si trova su un supporto plastico.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

1.1 Il primo motivo è manifestamente infondato.

Il divieto di reformatio in peius, che secondo il ricorrente sarebbe stato violato dalla Corte d’appello, impone solo che, in assenza dell’impugnazione della Parte pubblica, rimanga immutato il trattamento sanzionatorio applicato all’imputato.

Al riguardo questa Corte (Sez. 2, n. 46712 del 30/10/2019, Rv. 277599) ha già avuto modo di affermare che, in tema di impugnazioni, non viola il divieto di “reformatio in peius” la sentenza che, su appello del solo imputato, dia al fatto una qualificazione giuridica diversa e più grave, ostativa alla declaratoria d’estinzione per prescrizione, in quanto tale divieto non garantisce al condannato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole di quello riservatogli dal primo giudice, ma impedisce soltanto un trattamento sanzionatorio deteriore.

Ne discende che l’operazione ermeneutica, compiuta dal Collegio d’appello, non ha violato il divieto di reformatío in peius.

1.1.1 Giova precisare, pur se la questione non è stata posta dal ricorrente, che la menzionata operazione non si è neppure posta in contrasto con l’art. 6 Cedu.

Come noto, la Corte di Strasburgo, nella sentenza 11 dicembre 2007 – Drassich c. Italia, ha affermato che “poiché l’atto di accusa svolge un ruolo fondamentale nel procedimento penale, l’art. 6, § 3, lett. a) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo riconosce all’imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti”.

Alla luce dei principi contenuti nella sentenza Drassich la Corte di cassazione ha precisato che il rispetto della regola del contraddittorio – che deve essere assicurato all’imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente alla previsione dell’art. 111 Cost, comma 2, secondo la lettura integrata alla luce dell’art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla CEDU – impone esclusivamente che tale diversa qualificazione giuridica non avvenga “a sorpresa”, determinando conseguenze negative per l’imputato, che, per la prima volta, e senza mai avere avuto la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali, al punto tale, cioè, da imporre una diversa e nuova definizione giuridica del fatto medesimo, rispetto a quanto contestato, in punto di fatto e di diritto, nell’imputazione, di cui rappresenta uno sviluppo inaspettato.

Condizione che non si verifica in due occasioni: da un lato, quando l’imputato o il suo difensore abbiano avuto, nella fase di merito, la possibilità comunque di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione; dall’altro, quando la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei possibili (si potrebbe dire “non sorprendenti”) epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la riconducibilità del fatto storico, di cui è stata dimostrata la sussistenza all’esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all’imputato o al suo difensore l’effettivo esercizio del diritto di difesa, ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l’eventuale esclusione dell’una comporta, inevitabilmente, l’applicazione dell’altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione giuridica una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile (cfr. Sez. 5, n. 7984 del 24.9.2012, Rv. 254648; Cass., Sez. 5, n. 1697 del 25.9.2013, Rv 258941; Sez. U. n. 31617 del 26.6.2015, Rv 2644238; Sez. 6, n. 11956 del 15.2.2017, Rv. 269655).

Nel caso in esame, l’imputato, nel contestare dinanzi alla Corte d’appello la qualificazione del fatto come ricettazione, aveva richiamato la giurisprudenza di legittimità e, in particolare, la sentenza n. 21919 del 2016 (v. f. 3 atto di appello), la quale, però, in un caso analogo, non solo aveva escluso la configurabilità del delitto di ricettazione ma aveva qualificato il fatto ai sensi dell’art. 55, comma 5, D.Igs n. 231/2007.

Ne discende che l’appellante, nel richiamare, nel proprio atto di appello, la giurisprudenza di legittimità sul tema, ha dato prova di conoscere l’esatta qualificazione del fatto, così che quella operata dalla Corte territoriale non è avvenuta a sorpresa.

1.2 Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

Nel caso concreto, correttamente è stata esclusa la ricettazione, dal momento che – per espresso disposto legislativo – tale reato ricorre quando il soggetto agente acquista, riceve od occulta “denaro o cose”, provenienti da un qualsiasi delitto, mentre il digitare un numero di codice può semmai riportarsi al concetto di acquisto di un’utilità, che è sicuramente diverso da quello di “cosa”.

Di contro, l’ipotesi di reato individuata è corretta, atteso che l’art. 55, comma 5, D.Lgs. n. 231/2007 punisce chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizio.

Posto che deve trattarsi di una carta o di un documento analogo, idoneo ad assolvere alla propria funzione di strumento finanziario, questa Corte (Sez. 2, n. 38837 del 25/6/2019, Rv. 277097; Sez. 2, n. 47725 del 7/11/2014, Rv. 260792) ha evidenziato in maniera del tutto condivisibile che l’uso indebito della carta di credito o di analoghi strumenti di pagamento ben può realizzarsi attraverso la disponibilità e la spendita dei relativi codici, non essendo necessario il materiale possesso del documento cartaceo o plastificato, costituendo quest’ultimo esclusivamente lo strumento che incorpora le sequenze identificative del titolare del rapporto negoziale, abilitandolo a regolare per tal via le proprie transazioni.

La fattispecie in esame, pertanto, è pienamente integrata anche a fronte della smaterializzazione della condotta, il cui disvalore rimane integro pur se la stessa risulta svincolata dalla disponibilità del supporto fisico. Infatti, l’espressione di “indebito utilizzo” di cui al contestato art. 493 ter cod. pen., che definisce il comportamento illecito sanzionato, individua la lesione del diritto incorporato nel documento, prescindendo dal possesso materiale della carta che lo veicola e si realizza con l’uso non autorizzato dei codici personali.

2. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, udienza del 9 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.