Stupefacenti: negati gli arresti domiciliari all’imputato che fa parte alla criminalità organizzata (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 25 maggio 2020, n. 15728).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUMU Giacomo – Presidente

Dott. CENCI Daniele – Consigliere

Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere

Dott. FERRANTI Donatella – Consigliere

Dott. DI SALVO Emanuele – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

HOXHA FRANCESCO nato a ALTAMURA il 26/07/1994;

avverso l’ordinanza del 12/12/2019 del TRIB. LIBERTA’ di BARI;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. EMANUELE DI SALVO;

sentite le conclusioni del PG, Dott.ssa Mariella DE MASELLIS, che conclude per il rigetto del ricorso;

udito il difensore avv. Pierluigi Rossi del foro di Roma in sostituzione dell’avv. Carlucci Donato come da nomina a sostituto depositata in udienza, ne chiede l’annullamento senza rinvio.

RITENUTO IN FATTO

1. Hoxha Francesco ricorre per cassazione avverso l’ordinanza in epigrafe indicata, che ha rigettato l’istanza di riesame, confermando la misura cautelare della custodia in carcere, applicatagli dal G.i.p. in ordine al reato di cui all’art. 74 d.P.R. 9-10-1990, n. 309.

2. Il ricorrente, premesso di aver interesse all’esclusione delle aggravanti di cui agli artt. 74, comma 4, I. stup. e 416 bis.1 cod. pen., in quanto da ciò deriverebbero diversi e più ridotti termini di custodia cautelare nonché l’elisione della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e l’eliminazione degli effetti preclusivi del giudicato cautelare, deduce, con il primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ravvisabilità dell’aggravante della disponibilità di armi, poiché il Tribunale del riesame, attraverso una copiosa attività di integrazione, ha supplito all’assenza grafica di motivazione dell’ordinanza genetica in punto di conoscenza, da parte dell’indagato, ex art. 59 cod. pen., della situazione di fatto sulla base della quale l’aggravante è stata ravvisata. Il Tribunale è andato però ben oltre i poteri di integrazione motivazionale attribuiti al giudice del controllo.

I giudici di merito hanno, infatti, esteso l’aggravante della disponibilità delle armi da parte dei membri dell’associazione mafiosa, di cui facevano parte i coindagati, indistintamente a tutti gli appartenenti al sodalizio ex art. 74 I. stup e, per l’effetto, anche al ricorrente, il quale però non è indagato del delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen.

Inconferente è anche il richiamo alle cessioni di armi effettuate dall’associazione mafiosa al più tardi nel febbraio 2017 e quindi molto prima dell’arco temporale di operatività del sodalizio finalizzato al traffico degli stupefacenti, attivo dall’ottobre al novembre 2017.

La disponibilità delle armi è dunque antecedente all’ottobre 2017, data di costituzione dell’associazione finalizzata al narcotraffico.

D’altronde, le intercettazioni effettuate comprovano che Cifarelli Nicola aveva la disponibilità di armi e non che queste ultime fossero detenute da Sforza Giovanni, unico soggetto con il quale l’odierno ricorrente intratteneva rapporti.

Né si può escludere che tali soggetti avessero la disponibilità delle armi utisinguli e non già come appartenenti al gruppo mafioso.

2.1. Non è ravvisabile neanche l’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen.

L’intercettazione n. 1903, rit. 2335/ 17, costituisce, infatti, frutto di un evidente errore di trascrizione. Ed è comunque inconciliabile con l’argomentazione del Tribunale secondo cui Cifarelli avrebbe intimato all’acquirente di tenere fuori dalle forniture di droga “quelli di fuori Altamura”.

D’altronde, i giudici di merito non citano alcun episodio caratterizzato dal metodo mafioso.

Per di più, nel medesimo contesto spaziale e temporale operavano altri sodalizi che non acquistavano alcunché dall’associazione mafiosa o da quella di narcotrafficanti in contestazione ed operavano liberamente sul mercato.

Ciò è incompatibile con il metodo mafioso. L’aggravante non sussiste nemmeno sotto il profilo dell’agevolazione dell’attività dell’associazione mafiosa.

Anche su questo punto l’ordinanza genetica è priva di motivazione ed è dunque nulla l’ordinanza del tribunale del riesame che ha integralmente motivato al riguardo. In ogni caso, da nulla si desume la consapevolezza di agevolare l’associazione mafiosa in capo al ricorrente, poiché la circostanza che quest’ultimo sia nato e cresciuto ad Altamura non comporta la conoscenza della capacità criminale di terzi, anche in considerazione dell’età e dell’incensuratezza di Hoxha.

Del resto, l’aggravante è contraddittoriamente contestata soltanto con riferimento al reato associativo e non anche ai reati- fine.

Caso mai è da ritenersi che sia stata l’associazione dedita al narcotraffico ad essere agevolata dall’associazione mafiosa e non il contrario, poiché quest’ultima, esercitando un controllo diretto sul mercato degli stupefacenti in quel di Altamura, consentiva l’attività di spaccio, considerato anche che i promotori delle due associazioni erano gli stessi. In ogni caso l’associazione dedita al narcotraffico non agevolava quella mafiosa ma semmai ne era vittima.

2.2. Sotto il profilo delle esigenze cautelari, l’ordinanza impugnata difetta di qualsivoglia motivazione in ordine all’incidenza del decorso del tempo e all’intervenuta recisione di ogni legame tra il ricorrente e l’associazione dedita al narcotraffico.

L’Hoxha è assoggettato da 14 mesi all’applicazione di altra misura cautelare, ancora in corso, senza che vi siano state violazioni delle prescrizioni.

L’attestazione rilasciata dal SERT al ricorrente comprova la negatività di quest’ultimo a tutti gli esami clinici effettuati nel corso del programma terapeutico. E non può essere comunque applicata ad un’associazione dedita al traffico di stupefacenti la regola di esperienza, valida soltanto per le associazioni di tipo mafioso, della tendenziale stabilità del sodalizio in difetto di elementi contrari attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo.

3. Si chiede pertanto annullamento dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Occorre, in primo luogo, chiarire che non sembra sussistere, in capo al ricorrente, in relazione al primo e al secondo motivo di ricorso, l’interesse di cui all’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., che, come è noto, costituisce requisito di ammissibilità di qualsiasi impugnazione.

Quest’ultimo è, infatti, correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento oggetto dell’impugnazione e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione del predetto provvedimento, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante (cfr. ,explurimis, Sez. U., 13-12-1995, Timpani, Rv. 203093; Sez. 1, n. 47496 del 17-10-2003).

Orbene, nel caso in esame, quand’anche il ricorso venisse accolto e le aggravanti di cui all’art. 74, comma 4, I. stup. e 416 bis.1 cod. pen. venissero eliminate, i termini di custodia cautelare rimarrebbero inalterati, dovendo trovare, in ogni caso, applicazione, relativamente alla fase delle indagini preliminari e al processo di primo grado, rispettivamente l’art. 303, comma 1, lett. a), n. 3), cod. proc. pen., che prevede un termine di custodia cautelare di un anno); e l’art. 303,Iett. b), n 3), cod. proc. pen., che prevede un termine di 1 anno e 6 mesi, poiché per il reato di cui all’art. 74 I. stup. è contemplata la pena della reclusione superiore nel massimo a venti anni.

Così come rimarrebbe inalterata la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., poiché il delitto di cui all’art. 74 I. stup. rientra comunque nel novero dei reati di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., per i quali l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. prevede la detta presunzione relativa.

Oscuro risulta poi il riferimento, da parte del ricorrente,al giudicato cautelare, in assenza di argomentazioni che valgano a specificare e chiarire su quali elementi si fondi tale riferimento.

L’accoglimento del ricorso non apporterebbe dunque alla sfera giuridica del ricorrente alcun vantaggio concreto ed attuale. Viceversa concretezza ed attualità sono requisiti coessenziali e indefettibili dell’interesse ad impugnare (Cass., Sez. 6, n. 24637 del 21-4-2006, Rv.234734).

La carenza di interesse comporta l’inammissibilità del primo e del secondo motivo di ricorso.

2. Si osserva, comunque, ad abundantiam, come il primo motivo di ricorso esuli dal numerus clausus delle censure deducibili in sede di legittimità, investendo profili di valutazione della prova e di ricostruzione del fatto riservati alla cognizione del giudice di merito, le cui determinazioni, al riguardo, sono insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum.

Nel caso di specie, il Tribunale ha evidenziato la rilevanza probatoria delle dichiarazioni acquisite durante la fase delle indagini preliminari e dei colloqui intercettati, da cui si evince che l’associazione in contestazione aveva la disponibilità di armi da sparo sia comuni che da guerra e che Hoxha Francesco era costantemente informato, in forza della fiducia in lui riposta, da Sforza Giovanni delle questioni che riguardavano l’operatività dell’associazione.

Dalle cadenze motivazionali dell’ordinanza impugnata è dunque enucleabile una ricostruzione dei fatti precisa e circostanziata, avendo il Tribunale preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuto alle proprie conclusioni attraverso una disamina completa ed approfondita delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili da parte del giudice di legittimità.

In questa sede può solo aggiungersi che, a norma dell’art. 59 cod. pen., l’aggravante di cui all’art. 74, comma 4, l. stup. può essere riconosciuta in capo ai partecipi del sodalizio, sotto il profilo della consapevolezza, da parte loro, del carattere armato dell’associazione, anche sulla base di un atteggiamento colposo (Cass., Sez. 2, n. 44667 del 6-1-2013, Rv. 257611).

3. Infondata è anche la doglianza concernente l’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen.

Il Tribunale ha infatti sottolineato, al riguardo, come attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e le conversazioni intercettate, fosse emersa l’operatività di un’associazione dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti operante in Altamura, con a capo sempre il duo Abramo – Sforza, che capeggiava anche un’associazione di tipo mafioso e che aveva fra i propri fornitori un’ampia compagine camorristica denominata clan Parisi di Bari.

Era risultato altresì che il sodalizio in esame, attraverso l’opera dei suoi membri, imponeva agli altri spacciatori le sostanze stupefacenti da trafficare e il relativo costo di acquisto, nel territorio controllato, in relazione alle proprie convenienze economiche.

D’altronde – aggiunge il Tribunale – l’Hoxha era l’adepto di Sforza Giovanni, che era a capo sia dell’associazione di stampo mafioso operante sul territorio sia dell’associazione finalizzata allo spaccio, ed era dunque ben consapevole di avere a che fare con il capo dell’omonimo clan mafioso, in quel momento attivo sul territorio.

L’esistenza del detto clan era stata già riconosciuta con sentenza passata in giudicato e lo Sforza era già stato condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen.: circostanze tutte ben note ad Hoxha, nato e cresciuto in Altamura, anche perché dalle intercettazioni era emerso che Sforza Giovanni raccontava ad Hoxha i delitti da lui commessi nell’ambito del clan mafioso, che costituivano manifestazione del controllo del territorio da parte del predetto clan.

I rilievi formulati dal giudice a quo si collocano in una prospettiva pienamente aderente a quanto sottolineato da Sez. U, 19-12-2019, Chioccini, la quale ha condivisibilmente ritenuto che l’aggravante speciale già prevista dall’art. 7 d. I. 13 maggio 1991 n. 152 ed oggi inserita nell’art. 416 bis.1 cod. pen., che prevede l’aumento di pena quando la condotta tipica si è consumata “al fine di” agevolare l’attività delle associazioni mafiose, abbia natura soggettiva e si applichi al concorrente solo se da lui conosciuta.

Tutte le risultanze acquisite sono state dunque esaminate con grande cura dal giudice a quo,che ha analizzato, in particolare, i contenuti delle conversazioni captate, riportandone, nel quadro di una articolata ricostruzione fattuale, i passi salienti ed evidenziandone la significazione dimostrativa.

Ed è d’altronde appena il caso di sottolineare che l’interpretazione dei contenuti delle conversazioni intercettate e delle espressioni usate dagli interlocutori è questione di fatto, che è rimessa alla valutazione del giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità ove le relative valutazioni siano motivate,come nel caso in disamina, in conformità ai criteri di logica e alle massime di esperienza (Cass., Sez. 5 n. 47892 del 17-11-2003, Serino).

D’altronde, in tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione del fatto a quella compiuta dai giudici di merito, bensì di stabilire se, come nel caso in disamina, questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni, a preferenza di altre (Sez. U., 13-12-1995, Clarke, Rv. 203428).

4. Non è, d’altronde, censurabile l’esercizio, da parte del Tribunale, dei propri poteri d’integrazione della motivazione.

Ciò è, infatti, del tutto conforme agli approdi ermeneutici cui è pervenuta la giurisprudenza di questa suprema Corte, la quale si è ripetutamente espressa nel senso che l’ordinanza applicativa della misura e quella che decide sulla richiesta di riesame sono tra loro strettamente collegate e complementari, sicchè l’apparato giustificativo del provvedimento del tribunale del riesame integra e completa quello dell’ordinanza genetica, sanandone le eventuali carenze motivazionali (Sez. U., 17-4-1996, Moni).

In questo orizzonte concettuale si inserisce la legge n. 47 del 2015, la quale è innanzitutto intervenuta, a monte, sul contenuto dell’ordinanza cautelare, aggiungendo ai requisiti già previsti a pena di nullità ex art. 292 cod. proc. pen., quello dell'”autonoma valutazione” dei gravi indizi, delle esigenze cautelari e degli elementi forniti dalla difesa.

E poi ha aggiunto, nel corpus dell’art. 309, comma 9, la regola secondo cui il tribunale annulla il provvedimento genetico se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art 292 cod. proc. pen., delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa.

Di talché si è affermato in giurisprudenza che il potere integrativo del tribunale del riesame, previsto dall’art. 309, comma 9, cod. proc. pen., come novellato dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, non opera per le ipotesi di motivazione mancante o apparente ovvero priva dell’autonoma valutazione degli indizi, delle esigenze cautelari e degli elementi forniti dalla difesa, poiché in tali casi il legislatore ha individuato un vizio di motivazione del titolo cautelare genetico e non emendabile, al quale deve seguire necessariamente l’annullamento del provvedimento impositivo della misura ( Cass., Sez. 1 n. 5787 del 21-10-2015, dep. 2016, Rv. 265984).

Ma tale vizio non è certamente ravvisabile nel caso di specie, risultando dagli ampi stralci dell’ordinanza genetica riportati nella motivazione del provvedimento impugnato che il G.i.p. ha ampiamente motivato sia in ordine all’aggravante della disponibilità di armi che in ordine al ricorrere dell’aggravante di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen.

Sotto il primo profilo il G.i.p. ha infatti posto in evidenza come l’associazione avesse la disponibilità di armi da sparo sia comuni che da guerra, sulla base di quanto emerso dalle risultanze analiticamente indicate dal G.i.p. e riportate alle pagine 7-8 del provvedimento impugnato.

Sotto il secondo profilo, il G.i.p. ha posto in evidenza come il gruppo malavitoso avesse fatto ricorso a tutta la sua carica di intimidazione derivante dalla pericolosità delle condotte, attuate con determinazione, e dalla stretta coesione dei suoi membri, in grado di rendere le vittime inermi e omertose, giungendo così a ottenere lo scopo di coartare e assoggettare i pregiudicati locali, alcuni anche di lungo corso e inseriti in circuiti associativi, quindi avvezzi ad ambienti criminali e per nulla remissivi.

Infatti il clan, in considerazione del prestigio criminale acquisito, svolgeva la propria attività delinquenziale in regime di monopolio, impedendo che terzi soggetti estranei all’associazione potessero spacciare.

È risultato altresì che il sodalizio in esame, attraverso l’opera dei suoi membri, imponeva agli altri spacciatori quali sostanze stupefacenti dovessero essere trafficate e il relativo costo di acquisto, nel territorio controllato, in relazione alle proprie convenienze economiche.

Ciò sulla base delle risultanze analiticamente indicate dal G.i.p. e riportate alle pagine 8-12 del provvedimento impugnato.

Dunque la motivazione dell’ordinanza genetica era tutt’altro che mancante o non contenente una autonoma valutazione del materiale probatorio agli atti.

5. Nemmeno l’ultimo motivo di ricorso può trovare accoglimento.

Infatti, già prima della modifica dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. ad opera dell’art. 4, comma 1, I. 16-4-2015 n. 47, Corte cost. 22-7-2011 n. 231 aveva dichiarato, come è noto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui, nel prevedere che, allorquando sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, debba essere applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che vengano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui vi siano risultanze specifiche, relative al caso concreto, dalle quali emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

In quest’ordine di idee, anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato che, perfino in relazione ai processi per fatti di criminalità organizzata, l’assenza di elementi in grado di attestare un concreto rischio di ordine cautelare impedisce di giustificare la detenzione in carcere dell’accusato per l’intero processo (CEDU, 3 -3-2009, Hilgartner c/ Polonia).

Legittimamente dunque il giudice può applicare misure gradate, rivalutando il quadro cautelare (Cass., Sez. 2, n. 17012 del 8-1-2012, Rv. 252733) e tenendo presente che l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti non presuppone necessariamente, né sotto il profilo fenomenico né sotto il profilo normativo, l’esistenza di una struttura organizzativa complessa, essendo una fattispecie “aperta”, idonea a qualificare in termini di rilevanza penale situazioni fortemente eterogenee, oscillanti dal sodalizio a vocazione transnazionale all’organizzazione di tipo “familiare”.

Un panorama così variegato impone al giudice di valutare attentamente ogni singola fattispecie concreta sottoposta al suo esame, onde stabilire se le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con misure diverse da quella intramurale, comunque in grado di assicurare l’allontanamento dell’indiziato dal contesto delinquenziale.

In questa prospettiva, assume rilievo ogni risultanza idonea ad indurre a ritenere impossibile che il soggetto possa continuare a fornire il suo contributo alla compagine associativa per conto della quale egli ha operato, con la conseguenza che, ove ciò non risulti, persiste la presunzione di pericolosità (Cass., Sez. 6, n. 46060 del 14-11-2008, Rv. 242041 ; Sez. 3, n. 305 del 12-12-2006, dep. 2007, Rv. 235367; Sez. 5, n. 48430 del 19-11-2004, Rv. n. 231281). Ogni valutazione, al riguardo, è riservata al giudice di merito e le relative determinazioni sono insindacabili in sede di legittimità ove siano supportate da adeguata motivazione (Cass., 2-8-1996, Colucci; Cass. 21- 7-1992, Gardino, Rv. 191652; Cass., 26-5-1994, Montaperto, Rv. 199030).

Tuttavia l’obbligo di motivazione diviene più intenso ove la difesa rappresenti elementi idonei, nella sua ottica, a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari o la possibilità di soddisfarle con misure di minore afflittività (Sez U., n. 16 del 5-10-1994, Demitry, Rv. 199387 ; Sez. 1, 14-7-1998, Modeo).

Nel caso di specie, il Tribunale ha evidenziato la dedizione del ricorrente ad affari illeciti, desumibile dalle modalità dei fatti in esame, e l’esigenza di impedire che l’indagato possa riprendere i contatti con gli ambienti della criminalità organizzata ai quali è contiguo e reiterare condotte della stessa tipologia. Ciò impedisce anche l’applicazione della misura gradata degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, non potendo esser vinta la presunzione di adeguatezza della sola misura intramurale.

D’altronde – aggiunge il Tribunale – non è possibile ritenere adeguata la misura cautelare domiciliare per il solo fatto che ad essa l’indagato è stato sottoposto dopo l’arresto del 26 ottobre 2018, poiché in quel procedimento il Tribunale non aveva a disposizione il materiale emerso nell’ambito dell’indagine in esame e non era noto che Hoxha facesse parte di un’associazione finalizzata allo spaccio, aggravata ex art. 416 bis.1 cod. pen.e con disponibilità di armi.

Trattasi di apparato giustificativo adeguato, esente da vizi logico-giuridici ed aderente ad una corretta impostazione concettuale in tema di motivazione del provvedimento cautelare, segnatamente in relazione al parametro di cui ‘all’art. 275 cod. proc. pen., in quanto ancorato a specifiche circostanze di fatto ( Cass., Sez. 3, n. 306 del 3-12-2003, dep. 2004, Scotti) e pienamente idoneo ad individuare, in modo puntuale e dettagliato, gli elementi atti a denotare l’attualità e la concretezza del pericolo di reiterazione criminosa, non fronteggiabile con misure meno gravose di quella disposta (Cass., 24-5- 1996, Aloè ,Rv. 205306); con esclusione di ogni congettura (Cass., 19-9-1995, Lorenzetti) e attenta focalizzazione dei termini dell’attuale ed effettiva potenzialità di commettere determinati reati, connessa alla disponibilità di mezzi e alla possibilità di fruire di circostanze che renderebbero altamente probabile la ripetizione di delitti della stessa specie (Cass. 28-11-1997, Filippi ,Rv. 209876; Cass. 9-6-1995, Biancato, Rv. 202259).

6. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila, determinata secondo equità, in favore della Cassa delle ammende. Vanno infine espletati gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1bis, disp. att. cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

Si provveda ai sensi dell’art. 94, comma 1bis, disp. att. cod. proc. pen.

Così deciso in Roma, il 24 aprile 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.