Uno è socio mentre l’altro è un dipendente ed entrano in possesso di un software che, poi, utilizzano nella nuova Ditta. E’ furto o appropriazione indebita? (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 25 novembre 2020, n. 33105).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CATENA Rossella – Presidente –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Rel. Consigliere –

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta – Consigliere –

Dott. BORRELLI Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

MATTONI KATIA nata a STOCCARDA (GERMANIA) il 10/01/1970;

RE DANIELE nato a SAANEN (SVIZZERA) il 02/08/1977;

avverso la sentenza del 09/04/2019 della CORTE APPELLO di ANCONA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa MATILDE BRANCACCIO;

udito il Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa LUCIA ODELLO che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;

udito il difensore presente. avv. Baccaro, che si è riportato ai motivi.

RITENUTO IN FATTO

1. La sentenza della Corte d’Appello di Ancona in epigrafe ha confermato quella del Tribunale di Ascoli Piceno datata 24.7.2018 con cui Katia Mattoni e Daniele Re sono stati condannati alla pena, rispettivamente, di anni uno di reclusione ed euro 400 di multa e di mesi otto di reclusione ed euro 300 di multa per il reato di furto aggravato dall’abuso di prestazione d’opera.

Il furto ha avuto ad oggetto due compact disc della società Progeo s.r.I., uno contenente il software denominato Nutrigeo8, l’altro l’elenco con i dati personali dei clienti della predetta società, da parte dell’imputata Mattoni, già dipendente dell’azienda, specializzata nel peculiare settore dell’elaborazione di piani dieta individualizzati per categorie di soggetti bisognevoli di alimentazioni controllate, e del compagno di costei, l’altro imputato Daniele Re.

L’imputata, lasciato il lavoro dipendente, secondo l’ipotesi di accusa, aveva poi costituito una società avente identico scopo sociale, utilizzando le informazioni trafugate.

2. Il ricorso, affidato al difensore di entrambi gli imputati, l’avv. Mauro Gionni, si compone di tre motivi.

2.1. Il primo argomento di censura formulato dal ricorrente eccepisce violazione di legge per l’inosservanza degli artt. 90, 468 e 191 cod. proc. pen., per essere stati ammessi i testi della difesa di parte civile, la cui lista era stata depositata, tuttavia, prima della rituale costituzione in udienza della parte civile stessa.

Erroneamente il giudice di secondo grado ha ritenuto di rigettare il motivo d’appello analogo proposto nell’impugnazione di merito, citando la giurisprudenza valevole per l’ipotesi in cui la costituzione di parte civile avvenga non già in udienza bensì fuori udienza (in tal caso è corretta l’ammissione della lista testi di parte civile presentata prima del perfezionamento della notificazione dell’atto di costituzione).

In ogni caso, si deduce, le due liste testi della persona offesa sono comunque tardive: la prima udienza del processo è stata, infatti, quella del 3.12.2015 e le liste testi, piuttosto che essere presentate entro il termine di sette giorni liberi precedenti a tale data, sono state depositate, la prima, il 22.4.2016; la seconda, il 2.5.2016.

Dalla violazione di legge deriverebbe l’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei testi proposti dalla persona offesa e l’annullamento della sentenza interamente basata soltanto su tali dichiarazioni.

2.2. Il secondo motivo di ricorso censura violazione di legge in relazione agli artt. 646, 624, 625 cod. pen. per aver erroneamente i giudici di merito qualificato la condotta come fattispecie di furto piuttosto che di appropriazione indebita, rigettando le richieste difensive in tal senso.

La Corte d’Appello, per configurare la condotta come furto, ha citato giurisprudenza di legittimità in cui si ritiene configurabile tale reato, e non quello di cui all’art. 646 cod. pen., nel caso in cui l’agente abbia la detenzione della cosa ma non sia titolare di un autonomo potere dispositivo su di essa.

Ebbene, nel giudizio in corso, la ricorrente Mattoni aveva la chiave della cassaforte ove erano contenuti i compact disc trafugati e poteva, pertanto, disporre del contenuto per intero di essa, sicchè andava ritenuto il reato di appropriazione indebita così come affermato anche da una parte della giurisprudenza di legittimità.

2.3. La terza censura difensiva attiene al vizio di motivazione illogica quanto al rigetto dell’istanza difensiva di assumere una prova decisiva a giudizio della difesa, e cioè una perizia dalla quale si desumesse con certezza se i programmi informatici della NUTRIGE08 e della nuova azienda creata dalla ricorrente – la KEYSON – fossero o meno identici.

Il reato attribuito agli imputati ha avuto una ricostruzione indiziaria e, dunque, assume importanza decisiva il movente, per capire se il furto abbia poi prodotto quell’utilità costituita dall’utilizzazione indebita di un software altrui per il proprio oggetto sociale.

La Corte d’Appello, invece, ha rigettato l’istanza sostenendo che la registrazione SIAE del programma informatico della NUTRIGE08 rendeva inutile la prova, in quanto in ogni caso il programma non poteva essere oggetto di copiatura: ma tale argomentazione è del tutto inconferente rispetto alla richiesta.

In sintesi, non vi sarebbe prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, che una condotta delittuosa sia stata commessa dai due imputati, se non vi è prova del fatto che costoro abbiano poi copiato il contenuto dei cd sottratti, tanto più che i ricorrenti hanno costituito la loro società solo molti anni dopo la data del presunto furto.

2.4. Il quarto motivo di ricorso deduce vizio di motivazione illogica e contraddittoria della parte argomentativa riferita alla qualità indiziante del costo di investimento sostenuto dalla società KEYSON creata dai ricorrenti a fronte di quello, molto più elevato, sviluppato in molti anni di attività e studio dalla ditta derubata.

2.5. Il quinto argomento di censura si rivolge al trattamento sanzionatorio e lamenta l’omessa motivazione relativa alla mancata concessione del beneficio della non menzione, nonché al diniego delle circostanze attenuanti generiche, in favore della ricorrente Mattoni, illogicamente motivati con la valenza ostativa del rapporto di amicizia e fiduciario “tradito”.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto dagli imputati è complessivamente infondato.

2. Il primo motivo deve essere rigettato perché l’eccezione non trova riscontro favorevole nella lettura sistematica degli orientamenti di legittimità in tema di prova processuale.

Sebbene il richiamo giurisprudenziale della Corte di merito sia impreciso, poiché riferito all’orientamento interpretativo elaborato per l’ipotesi in cui la parte civile si sia costituita non, come accaduto nel caso di specie, in udienza, bensì fuori udienza – ed in tal caso ritiene la facoltà di depositare la lista testimoniale prima della notificazione della dichiarazione di costituzione (cfr. per tutte Sez. 4, n. 27388 del 21/2/2018, Di Taranto, Rv. 273411) – la conclusione cui i giudici pervengono sulla legittimità dell’ammissibilità della lista testi depositata prima della formale costituzione, effettuata, appunto, in udienza dibattimentale, è corretta.

Costituisce orientamento pacifico, infatti, quello secondo cui la costituzione di parte civile al dibattimento oltre il termine previsto per la presentazione delle liste ex art. 468, comma primo, cod. proc. pen., non può privare la parte civile stessa del diritto di chiedere prove, ai sensi dell’art. 493, comma secondo, cod. proc. pen., ferma restando la facoltà della controparte di articolare prove contrarie (Sez. 4, n. 44672 del 9/10/2019, Di Lorenzo, Rv. 277361; Sez. 3, Sentenza n. 49644 del 06/10/2015, Rv. 265396; Sez. 3, Sentenza n. 16868 del 08/03/2005, Di Giovannantonio, Rv. 231983).

Del resto, il potere residuale, ma fondamentale alla struttura ed alle finalità del processo, che deriva al giudice dalla disposizione prevista dall’art. 507 cod. proc. pen., chiude il sistema nel senso che è funzionale agli obiettivi propri anche del processo di parti accusatorio prevedere un meccanismo di acquisizione delle prove decisive e assolutamente necessarie che prescinde dalla stessa attività delle parti e promana direttamente dal giudice (cfr. Sez. U, n. 41281 del 17/10/2006, Greco, Rv. 234907; Sez. U, n. 11627 del 6/11/1992, Martin, Rv. 191607), poiché la completezza dei dati cognitivi è funzionale al migliore accertamento della verità, naturale coronario del principio di obbligatorietà dell’azione penale (Sez. 6, n. 25770 del 29/5/2019, Chiesa, Rv. 276217; Sez. 2, n. 34868 del 4/7/2019, Lanza, Rv. 276430; Sez. 2, n. 46147 del 10/10/2019, Janmoune).

Peraltro, in parte, il motivo proposto è anche inammissibile, là dove indica solo genericamente ed apoditticamente le ragioni sulla base delle quali ritiene che, espunta la prova asseritamente ammessa fuori termine, cadrebbe la ricostruzione accusatoria cui hanno aderito i giudici di merito.

3. Il secondo motivo di ricorso è infondato anch’esso.

3.1. Il Collegio rammenta come, al di là di alcune distonie interpretative pure rinvenibili nella risoluzione di fattispecie concrete, nella giurisprudenza di legittimità si afferma da tempo che è configurabile il reato di furto e non quello di appropriazione indebita ove l’agente abbia la detenzione della cosa ma non un autonomo potere dispositivo sul bene (Sez. 4, n. 54014 del 25/10/2018, Veccari, Rv. 274749; Sez. 5, n. 31993 del 5/3/2018; Franceschino, Rv. 273639; Sez. 4, n. 10638 del 2/2/2013, Santoro, Rv. 255289).

Il reato di cui all’art. 646 cod. pen., infatti, si distingue da quello di furto proprio per la situazione di possesso della cosa altrui, là dove la nozione di possesso cui allude la fattispecie incriminatrice coinvolge ogni situazione giuridica che si concretizza nel potere di disporre della cosa in modo autonomo al di fuori della sfera di vigilanza del proprietario, riferendosi, dunque, in tal senso, anche alla detenzione. Quando, invece, l’agente non ha alcuna facoltà idonea ad esercitare il possesso, deve ravvisarsi il delitto di furto e non di appropriazione indebita (Sez. 4, n. 23091 del 14/3/2008, Esposito, Rv. 240295; Sez. 4, n. 10638 del 20/2/2013, Santoro, Rv. 255289; Sez. 5, n. 7304 del 17/12/2014, dep. 2015, Sono, Rv. 262743; Sez. 4, n. 6617 del 24/11/2016, dep. 2017, Frontino, Rv. 269224).

È bene ribadire un’affermazione molto chiara pronunciata da questa Corte sul tema, sebbene non recentemente: il presupposto del delitto di appropriazione indebita è costituito da un preesistente possesso della cosa altrui da parte dell’agente, cioè da una situazione di fatto che si concretizzi nell’esercizio di un potere autonomo sulla cosa, al di fuori dei poteri di vigilanza e di custodia che spettano giuridicamente al proprietario.

Viceversa, quando sussiste un semplice rapporto materiale con la cosa, determinato da un affidamento condizionato e conseguente ad un preciso rapporto di lavoro, soggetto ad una specifica regolamentazione, che non attribuisca all’agente alcun potere di autonoma disponibilità sulla cosa stessa, si ricade nell’ipotesi di furto e non di appropriazione indebita (Sez. 2, n. 7079 del 17/3/1998, Farfarillo, Rv. 178616).

Ciò che è decisiva, quindi, è l’indagine circa il potere di disponibilità sul bene da parte dell’agente: se questo sussiste, il mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità del bene integra il reato di appropriazione indebita; in caso contrario, è configurabile il reato di furto (Sez. 2032 del 15/1/1997, Flosci, Rv. 208668).

L’eco di tali posizioni ermeneutiche si ritrova nella giurisprudenza, parallela a quella in esame, chiamata a decidere tra la configurabilità del reato di peculato piuttosto che di quello di furto nel caso di appropriazione di denaro versato su conti correnti o libretti di deposito: cfr., per una ricostruzione recente ed un esempio di complessità delle fattispecie possibili Sez. 6, n. 52662 del 2/10/2018, Carbone, Rv. 274297.

3.2. Sulla base di tali coordinate interpretative deve essere condotta l’analisi delle fattispecie concrete e, per quel che qui importa, deve esaminarsi il caso sottoposto al Collegio.

Ebbene, risulta dall’istruttoria dibattimentale che la ricorrente Mattoni aveva avuto l’autorizzazione ad aprire la cassaforte per motivi ben precisi e secondo un’operatività molto limitata e specifica: ella ne aveva le chiavi d’accesso allo scopo di prelevare, all’occorrenza e su indicazione dell’amministratore della società Progeo che doveva firmarli, gli assegni contenuti nei carnet aziendali che ivi si trovavano custoditi.

Una posizione individuale, dunque, ben lontana da quella disponibilità autonoma di un bene evocata dalla nozione di possesso contenuta nella disposizione di cui all’art. 649 cod. pen. al fine di rendere configurabile la fattispecie di appropriazione indebita, in luogo di quella di furto. Correttamente, pertanto, la Corte d’Appello ha confermato la qualificazione giuridica del reato in quello previsto dall’art. 624 cod. pen.

Deve essere, in conclusione, affermato il principio secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di furto piuttosto che di quello di appropriazione indebita, ciò che è decisiva è l’indagine circa il potere di disponibilità sul bene da parte dell’agente: se questo sussiste, il mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità del bene integra il reato di appropriazione indebita; in caso contrario, è configurabile il reato di furto; ciò perché, quando sussiste un semplice rapporto materiale con la cosa, determinato da un affidamento condizionato e conseguente ad un preciso rapporto di lavoro, soggetto ad una specifica regolamentazione, che non attribuisca all’agente alcun potere di autonoma disponibilità sulla cosa stessa, si ricade nell’ipotesi di furto e non di appropriazione indebita.

4. Il terzo motivo è manifestamente infondato.

Con l’eccezione proposta i ricorrenti sembrano considerare il movente dell’azione delittuosa come passaggio decisivo per la verifica di sussistenza della gravità indiziaria, in un processo in cui, invece, numerose sono state le ulteriori evidenze, puntualmente ricordate dai giudici di merito, che hanno condotto all’affermazione di colpevolezza.

Ed infatti, la perizia che è stata negata sarebbe decisiva sul piano dell’accertamento di responsabilità se lo fosse il movente dal punto di vista della gravità indiziaria.

Orbene, il ruolo del movente nella complessità di una ricostruzione indiziaria è stato ampiamente esplorato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite e la sua natura, tutt’altro che decisiva, ma anzi di complemento e ausilio a tale ricostruzione, proveniente ordinariamente da un ulteriore, diverso quadro indiziario, è stata affermata con chiarezza, sicchè esso può definirsi un elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza degli indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità (cfr. Sez. U, n. 45276 del 3/10/2003, Andreotti, Rv. 226094; Sez. 1, n. 813 del 19/10/2016, dep. 2017, Lin, Rv. 269287; Sez. 1, n. 17458 del 20/4/2012, Sorrentino, Rv. 252889) e non certo un elemento che, se mancante o non provato del tutto, possa essere ritenuto una prova decisiva a discarico o un tassello in grado di eliminare la valenza probatoria delle ulteriori e concordanti evidenze indiziarie.

Più chiaramente, il movente delittuoso, nella complessità di una ricostruzione indiziaria, ha natura di elemento non decisivo, ma anzi di complemento e ausilio a tale ricostruzione, sicchè esso può definirsi un elemento catalizzatore e rafforzativo della valenza degli indizi posti a fondamento di un giudizio di responsabilità, ma non un elemento che, se mancante o non provato del tutto, può essere ritenuto una prova decisiva a discarico o un tassello in grado di eliminare la valenza probatoria delle ulteriori e concordanti evidenze indiziarie.

Nel caso di specie, il provvedimento impugnato, richiamando anche il contenuto della ricostruzione in fatto proposta dal giudice di primo grado, ha elencato gli snodi fondamentali dell’edificio indiziario, non a caso definito “solido”.

Anzitutto il contesto: effettivamente i ricorrenti hanno creato, dopo le improvvise ed inaspettate dimissioni della Mattoni dalla PROGEO, una propria società, la KEYSON s.r.I., avente l’identico, peculiare e molto specialistico oggetto sociale della PROGEO stessa.

Inoltre, il furto è stato commesso senza segni di scasso prelevando i compact-disc da una cassaforte chiusa la cui combinazione era nota, oltre che ai due amministratori-soci della PROGEO, soltanto alla ricorrente Mattoni, dipendente della società, delegata a mansioni che prevedevano l’accesso alla cassaforte per prelevare gli assegni intestati alla società e consegnarli agli amministratori su richiesta; i due ricorrenti, insieme al figlio della Mattoni, esperto in informatica, avevano convocato un altro dipendente specializzato della PROGEO, il teste De Marco, il quale ha riferito di un tentativo di indurlo a far parte della compagine della nuova società, mostrandogli un programma informatico della società derubata di poco precedente a quello oggetto di furto del quale si erano perciò già impossessati.

Infine, la Corte d’Appello mette in risalto un’importante prova logica: il furto dei compact- disc contenenti il know how aziendale, sotto forma di programma informatico, e la banca dati dei clienti ed utilizzatori dei singoli programmi elaborati sulla base del piano di progetto per l’alimentazione poteva essere utile soltanto a chi avesse intenzione di utilizzarlo per un proprio progetto imprenditoriale nel medesimo settore, non avendo il materiale alcun valore venale in sé.

Dinanzi a tali dati di natura storica e logica la piattaforma indiziaria “vive” e si compie, al di là del movente specifico che indaga il ricorso: e cioè l’essere o meno il programma di software aziendale della nuova società creata dai ricorrenti una “copia” di quello della PROGEO.

Del resto è indubbio – ed anche ciò si coglie nel tessuto argomentativo del provvedimento impugnato – che sarebbe stato sufficiente ai ricorrenti anche non copiare del tutto i cd sottratti per ottenere un avviamento aziendale di tutto rispetto, ad un costo irrisorio (evidenziato dalla Corte d’Appello in circa 10.000 euro) rispetto al valore del prodotto intellettuale trafugato, frutto di anni di evoluzione e studio e quantificato intorno ai 500.000 euro.

5. Il quarto motivo difensivo è inammissibile anzitutto per una sua intrinseca genericità che si rivela quasi al pari di una inintelligibilità e oscurità del vizio motivazionale dedotto.

Sembra di capire che, nel confronto tra i valori di avviamento della nuova società dei ricorrenti e quello del software evoluto della PROGEO, la Corte d’Appello abbia illogicamente motivato sulla loro capacità indiziante.

Tuttavia, la lettura del portato argomentativo del giudice di merito, che in più punti riprende il dato, è univocamente ed agevolmente indirizzata a provare come economicamente la sottrazione del software da parte degli imputati avrebbe realizzato un netto abbattimento dei costi per la loro nuova attività, senza cadute logiche o aporie motivazionali.

In ogni caso, il motivo è inammissibile, poiché denuncia in modo generico ed alquanto confuso il presunto difetto, senza spiegarne in realtà gli esatti termini e muove da una logica di verifica di fatto, chiedendo al Collegio una valutazione di merito, cui non può essere chiamato il giudice di legittimità.

6. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile perché in parte generico e in parte manifestamente infondato.

La motivazione sul diniego delle circostanze attenuanti generiche alla ricorrente Mattoni è adeguata e logica e sostanzialmente valorizza le circostanze di realizzazione del fatto che costituiscono anche ragione dell’aggravamento del suo disvalore, e cioè l’approfittamento di un rapporto di fiducia da parte dell’imputata.

Quanto all’eccezione relativa all’omessa motivazione sul diniego del beneficio della non menzione, deve rilevarsi come gli odierni ricorrenti nulla abbiano esposto tramite l’atto di impugnazione del loro difensore, né alcuna richiesta è stata fatta al riguardo nel corso delle conclusioni rassegnate in udienza dinanzi alla Corte d’Appello. Deve applicarsi, pertanto, il principio sancito dalle Sezioni Unite con la pronuncia Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, Salerno, Rv. 275376 che ha affermato, in tema di sospensione condizionale, un principio valevole anche per gli altri istituti previsti dall’art. 597 co. 5, cod. proc. pen.

La questione di diritto risolta dal massimo Collegio nomofilattico era incentrata sulla necessità, per il giudice dell’appello, di rendere conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. di applicare quel beneficio in assenza di specifica richiesta.

Le Sezioni Unite hanno affermato che, fermo l’obbligo del giudice d’appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito.

Le Sezioni Unite hanno approfondito il tema generale della deroga prevista dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. al principio devolutivo enunciato dal comma primo dello stesso articolo, dichiarandone l’eccezionalità, che si coniuga con la discrezionalità del giudice nell’ordinare (tutti) i benefici previsti dagli artt. 163, 164 e 175 cod. pen.

Con un ragionamento, dunque, valido per tutti i benefici indicati nella disposizione richiamata, tra i quali rientra la non menzione, le Sezioni Unite hanno chiarito che tale discrezionalità rimanda ad un “potere” non vincolato al suo esercizio che diventa un “dovere” del giudice di appello, il cui esercizio, tuttavia, «va correlato sia al suo fondamento normativo, che lo pone come “eccezione” al generale principio devolutivo che governa il giudizio di appello, sia al contenuto “discrezionale” del suo oggetto, che postula, ai fini dell’applicazione dei benefici come del riconoscimento di attenuanti, valutazioni di puro merito».

Pertanto, è lo stretto nesso tra ufficiosità, eccezionalità e discrezionalità del potere dovere attribuito al giudice di appello che porta a escludere che il suo mancato esercizio possa configurare un vizio deducibile in cassazione, poichè «la non decisione sul punto non costituisce violazione di norma penale sostanziale (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) e, neppure, violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.), tale non essendo l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen.; soprattutto la “non decisione”, in appello, sui benefici di legge non è denunciabile come vizio di motivazione per mancanza (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.), laddove la parte – che avrebbe potuto sollecitarne l’esercizio, in relazione ai possibili sviluppi del processo di secondo grado ancorché preceduto da giudizio assolutorio o incompatibile con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena – non abbia richiesto, senza averne fatto (o potuto fare) motivo di impugnazione, l’applicazione del beneficio nel corso del medesimo giudizio di appello».

In conclusione, dunque, il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale “non decisione”, non può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello (Sez. 4, n. 29538 del 28/5/2019, Calcinoni, Rv. 276596).

Infine, deve rilevarsi anche la genericità della richiesta e dell’eccezione formulate con il motivo di ricorso sul punto, che si limita a dedurre l’omessa motivazione sul tema del beneficio della non menzione, ma non contestualizza in alcun modo i caratteri della sua concedibilità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 25 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.