REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. ELISABETTA ROSI – Presidente –
Dott. ANNA MARIA DE SANTIS – Consigliere –
Dott. MARIA DANIELA BORSELLINO – Consigliere –
Dott. SANDRA RECCHIONE – Relatore –
Dott. DONATO D’AURIA – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(omissis) (omissis) nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 26/01/2023 della CORTE di APPELLO di SALERNO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa SANDRA RECCHIONE;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. ALESSANDRO CIMMINO che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente alla pena accessoria e rigetto nel resto;
il difensore della parte civile Avv. (omissis) (omissis) (omissis) concludeva per il rigetto del ricorso depositando conclusioni scritte e nota spese;
l’Avv. (omissis) (omissis), in difesa di (omissis) (omissis), chiedeva l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Cassazione, nel decidere il ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Potenza, che aveva condannato (omissis) (omissis) per il delitto di peculato, confermava l’accertamento dì responsabilità per le condotte di peculato consumate fino al 13 marzo del 2012 e rinviava il processo alla Corte d’appello di Salerno per valutare se, ed in che limiti, le condotte successive al 13 marzo 2012 fossero penalmente rilevanti, oltre che per la rideterminazione della pena principale che doveva tenere conto delle sanzioni vigenti all’epoca della consumazione dei reati.
Si contestava al ricorrente di essersi appropriato, quale mandatario SIAE, di oltre cinquantacinquemila euro, e dopo la revoca del mandato, di essersi qualificato falsamente come mandatario, nonostante non lo fosse più e di avere così continuato a ricevere pagamenti “dei diritti di autore” senza versarli alla SIAE.
La Corte d’appello di Salerno, in sede di rinvio, riteneva che le condotte successive alla revoca del mandato SIAE integrassero il reato di truffa, che tuttavia era prescritto; revocava le statuizioni civili e rideterminava la pena finale in anni due, mesi quattro di reclusione (partendo da un minimo edittale di anni tre e mesi dieci di reclusione); infliggeva, altresì, le pene accessorie dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per anni cinque e mesi sei.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore che deduceva:
2.1. violazione di legge: sarebbe errata la qualificazione giuridica dei fatti successivi alla revoca del mandato come truffa invece che come appropriazione indebita; la corretta qualificazione avrebbe condotto alla dichiarazione di improcedibilità per mancanza di querela; il rilievo della questione doveva rinvenirsi nella incidenza di tali condotte sulla quantificazione della pena;
2.2. violazione di legge (art. 597 cod. proc. pen.) sarebbe stata inflitta una pena superiore a quella stabilita nella prima decisione della Corte d’appello in quanto la sentenza impugnata aveva indicato come pena base quella di anni tre, mesi dieci di reclusione, ovvero una pena superiore al “minimo edittale”;
2.3. violazione di legge (art. 597 cod. proc. pen.) anche in relazione alle pene accessorie sarebbe stata violato il divieto di reformatio in peius previsto dall’articolo 597 cod. proc. pen..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso merita accoglimento nei termini che di seguito si specificheranno.
1.1. Il primo motivo non è consentito perché non sorretto da alcun interesse.
Non risulta, contrariamente a quanto affermato dal ricorrete, che le condotte prescritte, delle quali si invoca la riqualificazione, abbiano influito sulla definizione del trattamento sanzionatorio, sicché il motivo proposto non risulta sorretto da alcun interesse.
1.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato: si deduce la violazione del divieto di reformatio in peius a causa della quantificazione della pena base in misura superiore al mimino edittale (anni tre e mesi dieci di reclusione rispetto ad un minino di anni tre).
Invero neanche la sanzione irrogata dalla sentenza di appello annullata in era stata determinata facendo riferimento al minimo edittale: la pena base stabilita dalla prima sentenza di appello poi annullata era di quattro anni rispetto ad un minimo edittale di tre anni (pag. 3 della Corte di appello del 18 dicembre 2020), sicché non si rileva alcuna violazione del divieto di reformatio in peius.
1.3. Il terzo motivo relativo alla illegittimità delle pene accessorie è fondato.
In materia dei poteri del giudice di appello in ordine alle pene accessorie il collegio riafferma che poiché l’art. 597, terzo comma, cod. proc. pen. non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice d’appello nell’ipotesi di impugnazione proposta dal solo imputato, quelli concernenti le pene accessorie – le quali, secondo il disposto dell’art. 20 cod. pen., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa – al giudice di secondo grado è consentito applicare d’ufficio le pene predette qualora non vi abbia provveduto quello di primo grado, e ciò ancorché la cognizione della specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero (fattispecie in tema di interdizione dai pubblici uffici: Sez. U, n. 8411 del 27/05/1998, Ishaka, Rv. 210979 – 01).
Tuttavia la sentenza impugnata è stata pronunciata dopo l’annullamento con rinvio della cassazione che non ha devoluto alla Corte di appello di Potenza alcuna nuova valutazione in ordine alle pene accessorie.
Pertanto, aumentando la durata dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici (da anni due, ad anni cinque e mesi sei) ed applicando ex novo il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione – risulta violato il mandato rescindente.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio limitatamente alle pene accessorie; la durata dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici deve essere rideterminata in anni due, come stabilito dalla prima sentenza di appello, irrevocabile sul punto, mentre deve essere eliminata la sanzione dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Il ricorso è inammissibile nel resto.
1.4. Essendo il ricorso diretto a censurare solo la pena e non la responsabilità, il giudizio di legittimità non coinvolge gli interessi della parte civile, che quindi non ha diritto alla liquidazione delle spese sostenute nel grado.
Si riafferma, infatti, che non è consentito l’intervento della parte civile nel giudizio di cassazione avente per oggetto esclusivamente il trattamento sanzionatorio o la confisca dei beni degli imputati, in quanto tali questioni non possono avere alcuna incidenza sugli interessi civili e, nel caso in cui l’intervento sia comunque avvenuto, non possono porsi a carico dell’imputato le relative spese (Sez. 1, n. 51166 del 11/06/2018, Gatto Rv. 274935 – 01; Sez. 4, n. 22697 del 09/07/2020, L., Rv. 279514 – 01).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie, rideterminando la durata dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici in anni due ed eliminando l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.
Dichiara inammissibile il ricorso nel resto. Nulla per le spese della parte civile.
Così deciso in Roma, il giorno 24 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2024.