Attesta di non essere titolare di pensione INPS per ottenere l’assegno per i lavori socialmente utili: è truffa (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 29 settembre 2021, n. 35721).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PAOLA Sergio – Presidente –

Dott. TUTINELLI Vincenzo – Consigliere –

Dott. AGOSTINACCHIO Luigi – Consigliere –

Dott. COSCIONI Giuseppe – Rel. Consigliere –

Dott. RECCHIONE Sandra – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) MARIO nato a SCIACCA il 16/12/19xx;

avverso la sentenza del 09/12/2019 della CORTE APPELLO di PALERMO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE COSCIONI;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. STEFANO TOCCI, che ha chiesto rigettarsi il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 9 dicembre 2019, confermava la sentenza di primo grado con la quale (OMISSIS) Mario era stato condannato per il reato di truffa, per avere attestato falsamente al Comune di Sciacca, nelle domande di sussidio per periodi di utilizzazione in lavori socialmente utili, di non essere titolare di pensione diretta e di non aver presentato domanda di pensione diretta, nonostante fosse titolare di pensione INPS fin dal mese di dicembre 1991.

1.1 Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione i difensori di (OMISSIS), eccependo che, in base al capo di imputazione, il raggiro sarebbe consistito nell’avere dichiarato di non essere titolare di pensione diretta ritenendo erroneamente tale presupposto requisito indispensabile per essere ammesso al sussidio di LSU (lavoratore socialmente utile), posto che la disciplina richiamata nella rubrica accusatoria (D.Lgs. 501/96) era quella transitoria, mentre quella regolatrice della fattispecie era incentrata sull’art. 8 comma 5 del D.Lgs. 468/97, successivamente modificata ed aggiornata, che si limita esclusivamente a stabilire l’incompatibilità del sussidio LSU con alcuni redditi rispetto ad altri, ma non stabilisce ex se l’essenzialità del requisito, né alcuna altra sanzione; in particolare, la norma citata prevede che in caso di avvio alle attività di lavori socialmente utili, i titolari di assegno di pensione di invalidità possono optare per il trattamento di cui al comma 3 dello stesso articolo (assegno LSU), e quindi anche in caso di percezione di pensione di invalidità, il soggetto può essere avviato in osservanza piena della legge, alle attività socialmente utili alla condizione che egli opti per la percezione dell’assegno di invalidità o, piuttosto, per la percezione del sussidio LSU: pertanto, la percezione dell’assegno di invalidità non poteva costituire raggiro o artifizio per l’ammissione al lavoro quale LSU, né la sua mancanza costituiva un presupposto indispensabile per essere avviato al lavoro o percepire l’assegno.

I difensori aggiungono che unico requisito per essere avviato al lavoro quale LSU è lo stato di disoccupazione dell’interessato, per cui la successiva percezione del sussidio non opzionata poteva dare luogo solo ad un’azione di ripetizione dell’indebito da parte dell’ente erogatore (INPS); con riferimento all’elemento soggettivo, la Corte aveva omesso del tutto di considerare la testimonianza di (OMISSIS) Giuseppe e di Michele (OMISSIS), da cui risultava che il lavoratore non apportava alcun contributo eziologico alla formazione della dichiarazione, ma vi apponeva solo la firma.

1.2 I difensori eccepiscono che la Corte di appello aveva travisato il motivo di appello, laddove il ricorrente aveva disconosciuto i contenuti della domanda, in quanto la Corte di appello si era soffermata a commentare le firme delle domande, mentre nell’atto di appello si era contestato che le dichiarazioni venivano compilate dal patronato ed in un momento differente venivano poi firmate dagli interessati, senza alcuna forma di autenticazione della firma; non era neanche certo se i moduli venissero firmati prima o dopo essere stati compilati; altro travisamento era l’autentica della sottoscrizione, ambito in cui la Corte di merito argomentava per contrastare la firma, che non costituiva argomento delle motivazioni di appello: anche lì la Corte di appello era incorsa in errore, laddove unica firma ad essere autentica era quella del 24/4/1997, mentre le altre due firme erano prive di autentica (quella del 26/5/1998 aveva solo un visto da parte di un impiegato del Comune di Sciacca): ciò confermava la prassi indicata dai testi (OMISSIS) e (OMISSIS) che delle domande si occupasse il patronato dal punto di vista dei contenuti e della compilazione.

I difensori rilevano che la Corte di appello aveva erroneamente affermato l’incompatibilità tra l’assegno per i lavori socialmente utili ed i trattamenti pensionistici diretti, da un lato riconoscendo l’erroneità del rinvio operato dall’accusa e dalla sentenza di primo grado, dall’altro stravolgendo l’analisi dei contenuti e la corretta valutazione dell’appello: non si poteva parlare di mere “denominazioni formali” quando si faceva riferimento a norme extrapenali che costituiscono il presupposto dell’accertamento e della condanna.

Altro travisamento dei fatti era la valutazione operata in sentenza del lavoro svolto, con grande impegno ed alacrità, da parte del ricorrente in favore del Comune di Sciacca, che aveva esorbitato la mera partecipazione al progetto: era dunque evidente che nessun danno era derivato all’Ente dalla prestazione lavorativa (sottopagata e sovraccaricata) del ricorrente; la Corte, pur riconoscendo il lavoro svolto, era tornata sui suoi passi riqualificando l’attestazione come presupposto indispensabile per l’inserimento nelle liste (cosa normativamente non veritiera) ed ignorato l’incompatibilità tra i due trattamenti; inoltre, era stata acquisita la sentenza passata in giudicato resa nel procedimento tra (OMISSIS) e il Comune di Sciacca, ignorata dalla Corte di appello, nella quale il Giudice del Lavoro di Sciacca aveva accertato l’insussistenza del diritto del Comune di Sciacca a ripetere le somme in dipendenza del lavoro svolto quale LSU; dalla insussistenza del danno derivava la carenza strutturale di un elemento costitutivo del reato di truffa.

I difensori rilevano poi che alla Corte di appello era sfuggita la portata della disciplina sul controllo delle erogazioni pensionistiche e sulla ripetizione degli indebiti, ignorando che nessuna induzione in errore o i dolo poteva esserci in danno del Comune di Sciacca o dell’INPS, atteso che quest’ultimo aveva gli strumenti per controllare in tempo reale eventuali indebiti ed esercitare l’azione di recupero.

1.3 I difensori osservano che il Comune di Sciacca dapprima aveva esercitato domanda riconvenzionale davanti al Giudice del Lavoro e poi si era costituito parte civile nel giudizio penale, costituzione cui si era opposta la difesa visto che il Comune non aveva fatto istanza di trasferire in sede penale l’azione civile già esercitata e il giudice di primo grado, a fronte dell’assenza di danni ulteriori rispetto a quelli azionati in sede civile, aveva parlato di “categorie di danno prettamente civilistiche” con una condanna generica, mentre la Corte di appello aveva addirittura qualificato motu proprio le caratteristiche di tali danni, fornendo categorie generiche assimilabili a massimi sistemi, senza considerare che non era derivato nessun danno all’immagine (negato dalla giurisprudenza con riguardo ad un Ente pubblico, potendo semmai appartenere la sua cognizione alla magistratura contabile, ma solo relativamente agli impiegati pubblici) ed al buon andamento della Pubblica Amministrazione; infine, l’indebito si sarebbe andato a configurare come relativo alla percezione della pensione, rimanendo l’opzione una facoltà dell’interessato, per cui nessun motivo avrebbe avuto il Comune di Sciacca a richiedere l’indebito, atteso che gli assegni LSU costituivano la giusta controprestazione al lavoro svolto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

1.1 L’art. 1 del D.Lgs. 468/97 definisce i lavori socialmente utili le attività che hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva, mediante l’utilizzo di particolari categorie di soggetti; l’art. 8 comma 5 del D. Lgs. n.468/97 prevede che “L’assegno per i lavori socialmente utili è incompatibile con i trattamenti pensionistici diretti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, degli ordinamenti sostitutivi, esonerativi ed esclusivi dell’assicurazione medesima, nonché delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, e con i trattamenti di pensionamento anticipato. In caso di avvio alle attività di lavori socialmente utili i titolari di assegno o di pensione di invalidità possono optare per il trattamento di cui al  comma  3″;  la norma,  sebbene abrogata  dal D.Lgs. 14 settembre  2015, n. 150, era in vigore al momento dei fatti, posto che l’art. 26 comma 12)  del decreto citato ha previsto che che “Gli articoli 7 e 8 del decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468, si applicano ai soli progetti  di  attività  e  lavori socialmente utili in  corso  alla  data  di  entrata  in vigore del presente decreto”.

Ciò premesso, si deve rilevare che i motivi proposti con il presente ricorso sono tutti infondati in quanto reiterativi  di censure  alle  quali  la Corte  di  appello ha già risposto; inoltre, deve essere ricordato che con riguardo alla decisione in ordine all’odierna parte ricorrente ci si trova dinanzi ad una c.d. “doppia conforme” e cioè doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado; il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. “doppia conforme”, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di  legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato  atti a contenuto  probatorio  non esaminati  dal primo giudice  (Sez.  4, n. 19/10/2009, Buraschi, Rv. 243636;  Sez.  1,  n.  24667  del  15/6/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/1/2007, Medina, Rv 236130; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432).

Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo aver preso atto delle censure dell’appellante, è giunto, con riguardo alla posizione dell’imputato, alla medesima conclusione della sentenza di primo grado, evidenziando:

quanto al primo motivo, nessuna violazione al diritto di difesa era stata posta in essere mediante l’erronea dichiarazione della normativa applicabile, posto che il ricorrente era stato messo in grado di difendersi dall’accusa a lui mossa con la precisa enunciazione del fatto contestato; inoltre, se è vero che l’interessato può optare per il trattamento di cui al comma 3 (“Ai lavoratori utilizzati nelle attività di lavori socialmente utili ovvero nelle attività formative previste nell’ambito dei progetti e non percettori di trattamenti previdenziali, compete un importo mensile di lire 800.000, denominato assegno per i lavori socialmente utili”), è anche vero che (come rilevato dai giudici di merito) non vi è alcun obbligo per l’ente di sollecitare l’interessato ad optare per l’assegno o per il trattamento pensionistico e che il  ricorrente  non  ha  mai  esercitato  tale opzione;

quanto al motivo secondo il quale non vi sarebbe alcuna prova della sottoscrizione da parte del ricorrente delle domande di sussidio o che le stesse sarebbero state preparate dal patronato, anche in momenti successivi alla sottoscrizione, l’irrilevanza  del fatto che le domande  fossero prestampate, visto che la firma del ricorrente era stata reiterata per tre volte su tre domande diverse, e la constatazione che le firme appartenevano all’evidenza alla stessa mano (pag.4 sentenza impugnata) ed erano state in un caso autenticate ed in un altro seguita dalla  sottoscrizione del funzionario  incaricato  e quindi apposta  in sua presenza; sul punto, il motivo di ricorso contrappone diverse  valutazioni rispetto a quelle dei giudici di merito, come tali inammissibili;

quanto all’assenza di un danno, la Corte di appello, alle pagine 5 e 6 della sentenza impugnata, ha rilevato che “è del tutto impropria l’assimilazione della disciplina dell’impiego subordinato alla disciplina dell’occupazione temporanea in lavori socialmente utili, che, per la sua matrice assistenziale e la sua finalità formativa, sfugge ad ogni costruzione in termini di sinallagmatica del rapporto”, per cui gli artifici e raggiri consistevano nelle “false attestazioni  circa  il  fatto di non essere al contempo titolare di pensione diretta, che gli consentivano di essere inserito nelle apposite liste dei lavoratori socialmente  utili, godendo  così per diversi anni dei relativi sussidi, erogati dall’INPS, ma provenienti dalle casse del Comune di Sciacca, con conseguente danno immediato  e diretto  per tale ente”; in altri termini, ciò che rileva è l’omessa dichiarazione di percepire un trattamento pensionistico, così ottenendo anche il percepimento dell’assegno per i lavoratori socialmente utili, che non avrebbe potuto percepire se non previa opzione di cui all’art. 8 comma 5 del D. Lgs. n.468/97;

La Corte di appello ha pertanto applicato correttamente il principio sancito dalla giurisprudenza di questa Corte secondo il quale “L’occupazione temporanea in lavori socialmente utili non integra un rapporto di lavoro subordinato, in quanto, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 1° dicembre 1997, n. 468, poi riprodotto negli stessi termini dall’art. 4 del d.lgs. 28 febbraio 2000, n. 81, l’utilizzazione di tali lavoratori non determina “l’instaurazione di un rapporto di lavoro”, ma realizza un rapporto speciale che coinvolge più soggetti (oltre al lavoratore, l’amministrazione pubblica beneficiaria della prestazione, la società datrice di lavoro, l’ente previdenziale erogatore della  prestazione di integrazione salariale) di matrice assistenziale e con una finalità formativa diretta alla riqualificazione l’amministrazione pubblica beneficiaria della prestazione, la società datrice di lavoro, l’ente previdenziale erogatore della prestazione  di integrazione  salariale) di  matrice assistenziale e con una finalità formativa diretta alla riqualificazione del personale per una possibile ricollocazione.

Ne consegue che, anche in caso di prestazioni rese in difformità dal programma originario o in contrasto con le norme poste a tutela del lavoratore, non si costituisce un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, trovando applicazione solo la disciplina sul diritto alla retribuzione prevista dall’art. 2126 cod. civ.” (Sez. L, Sentenza n. 22287 del 21/10/2014, Rv. 633048 – 01).

Corretta è la motivazione  della Corte di appello anche sulla censura relativa al fatto che il danno sarebbe stato sopportato non dal Comune di Sciacca, ma dall’INPS, ente erogatore del sussidio:  la Corte territoriale  ha infatti evidenziato che i testimoni (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno chiarito che era il Comune di Sciacca a sopportare le spese relative al sussidio, mediante rimesse mensili ad INPS

1.2. Quanto al motivo secondo il quale nessuna induzione in errore di INPS ci sarebbe stata perché era il  medesimo ente a corrispondere  sia la pensione che il sussidio per lavoratori socialmente utili, deve essere richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “Ai fini della sussistenza  del delitto di truffa, non ha rilievo la mancanza di diligenza da parte della persona offesa, dal momento che tale circostanza non esclude l’idoneità del mezzo, risolvendosi in una mera deficienza  di  attenzione  spesso  determinata  dalla fiducia ottenuta con artifici e” (Sez. 2, Sentenza n. 51538 del 20/11/2019, C. Rv. 278230 – 01); del tutto irrilevante, pertanto, è il  tema dell’omesso controllo da parte di INPS.

1.3. Relativamente alle eccezioni sul risarcimento  del danno  riconosciuto alla parte civile, quella secondo la quale li Comune di Sciacca non aveva fatto istanza di trasferire l’azione civile in sede penale è inammissibile per non essere stata proposta in appello; con riferimento alla censura secondo cui non sussisterebbe  alcun danno all’immagine  né alcun altro danno, si deve ricordare che “la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell’esistenza – desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità – di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, mentre resta impregiudicato l’accertamento, riservato al giudice civile, in ordine all'”an” – in concreto – ed al “quantum” del danno da risarcire.

Entro tali limiti, detta condanna, una volta divenuta definitiva, ha effetti di giudicato sulla azione civile e portata onnicomprensiva, riferendosr ad ogni profilo di pregiudizio scaturito dal reato, ancorché non espressamente individuato nell’atto di costituzione di parte civile o non fatto oggetto di pronunce provvisionali, che il giudice non abbia formalmente dichiarato di escludere nel proprio “dictum” (Cass, civ. Sez 3, Ordinanza n. 4318 del 14/02/2019 (Rv. 652689 – 01).

2. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen.

2.1 Una volta dichiarato il rigetto del ricorso,  sebbene  la  questione non faccia parte dei motivi presentati, ci si deve però interrogare sulla eventuale prescrizione del reato alla data della presente sentenza.

Ciò premesso, questa Corte ha sottolineato che “in tema di frode in danno di enti previdenziali per ricezione indebita di emolumenti periodici, è configurabile il reato di truffa c.d. a consumazione prolungata quando le erogazioni pubbliche, a versamento rateizzato, siano riconducibili ad un originario ed unico comportamento fraudolento, mentre si configurano plurimi ed autonomi fatti di reato quando, per il conseguimento delle erogazioni  successive alla prima, sia necessario il compimento di ulteriori attività fraudolente;  ne consegue che, ai fini della prescrizione, nella prima ipotesi il relativo  termine decorre dalla percezione dell’ultima rata di finanziamento, mentre nella seconda dalla consumazione dei singoli fatti illeciti.”(Sez. 2, Sentenza n. 53667 del 02/12/2016, Bellucci Rv. 269381 – 01); in altri termini, si configura truffa c.d. a consumazione prolungata quando la percezione dei singoli emolumenti sia riconducibile ad un originario ed unico comportamento fraudolento con la conseguenza che il momento della consumazione del reato – dal quale far decorrere il termine iniziale di maturazione della prescrizione – è quello in cui cessa  la situazione di illegittimità (vedi sul punto, Sez. 2, Sentenza n. 57287 del 30/11/2017 Cc., dep. 22/12/2017, Rv. 272250 – 01).

3. Nel caso in esame il ricorrente ha potuto conseguire il pagamento del sussidio per lavoratori socialmente utili in base alle false dichiarazioni rilasciate nel 1997, 1998 e 1999, continuando a percepirlo fino a marzo 2014, data in cui la situazione di illegittimità è cessata; pertanto, essendo un caso di truffa cd. a consumazione prolungata, è da tale data che decorre il termine di prescrizione, che deve quindi essere fissato al 30 settembre 2021.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso l’11 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.