Bancari, licenziamento disciplinare anche senza danni per il cliente (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 29 agosto 2024, n. 23318).

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANTONELLA PAGETTA                         – Presidente –

Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO      – Consigliere –

Dott. FABRIZIO AMENDOLA                         – Rel. Consigliere –

Dott. GUALTIERO MICHELINI                       – Consigliere –

Dott. ELENA BOGHETICH                              – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 13900-2023 proposto da:

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (omissis) (omissis) 5/D, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis);

-ricorrente-

contro

(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC dell’avvocato (omissis) (omissis), che lo rappresenta e difende;

-controricorrente-

avverso la sentenza n. 711/2023 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 11/05/2023 R.G.N. 844/2022;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/06/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.

RLEVATO CHE

1. la Corte di Appello di Catanzaro, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in totale riforma della pronuncia di primo grado che aveva confermato l’ordinanza resa nella fase sommaria, ha annullato il licenziamento disciplinare intimato il 23.3.2017 a (omissis) (omissis) da Banca Monte dei Paschi di Siena spa e, per l’effetto, ha ordinato alla società suddetta di reintegrarlo nel posto di lavoro, nonché a risarcirgli il danno pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto percepita all’epoca del recesso datoriale e a versare, in suo favore, i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione;

2. la Corte territoriale ha, innanzitutto, ritenuto che la Banca non avesse assolto “l’onere di provare la materialità del fatto ascritto al dipendente”, rispetto alle prime tre contestazioni disciplinari che la stessa Corte così descrive: “l’avere il sig. (omissis) assegnato alla cliente (omissis) (omissis) (classe 1925), dal suo posto di lavoro e con matricola a lui riconducibile, le carte di credito e prepagate descritte qui di seguito, unitamente alle buste contenenti i relativi codici: la carta di debito bancomat Mondo card Web n. (omissis) tramite la quale nel periodo 29.9.2015-25.11.2016 erano stati effettuati n. 19 prelevamenti di contante Self Service per complessivi € 27.100;

in data 6.6.2016 la carta di debito bancomat Mondo Card Web n. (omissis) tramite la quale erano stati effettuati n. 4 prelevamenti di contante Self Service per complessivi € 6.000 fino al 30.9.2016;

in data 30.9.2016 la carta prepagata Kristal Best n. (omissis) tramite la quale erano stati effettuati nel periodo fino al 31.10.2016 n. 5 prelevamenti per complessivi € 5.000;

mentre la predetta cliente aveva dichiarato di non aver mai richiesto tali strumenti di pagamento, disconoscendo tutte le operazioni di prelievo registrate sul suo conto, chiedendo la restituzione delle somme ed affermando di non avere avuto contezza del contenuto della documentazione che le veniva fatta firmare in considerazione della massima fiducia che riponeva nel (omissis) quale direttore di filiale”;

si afferma in sentenza che la (omissis) “ha dichiarato di riconoscere come proprie le sottoscrizioni di tutta la documentazione sottopostale in visione, relativa ai contratti per l’attivazione delle carte bancomat e prepagate. Tanto è sufficiente a fare ricondurre alla volontà della cliente l’attività di rilascio di tali strumenti di pagamento da parte del direttore della filiale – attività di rilascio che presuppone la sottoscrizione dell’apposita documentazione contrattuale”;

3. circa la quarta contestazione contenuta nella nota di addebito e “concernente la condotta di assegnazione alla (omissis) della carta di credito gold”, la Corte ha argomentato: “dalla stessa incolpazione si desume che la carta è stata distrutta ed il codice segreto è stato conservato nel fascicolo della cliente detenuto presso la filiale, sicché è del tutto evidente che –in mancanza di prova, invero non fornita dalla banca che ne era onerata, che alla sig.ra (omissis) siano state addebitate, sul proprio conto, le spese di gestione della carta in questione –si tratti di condotta del tutto scevra di offensività e, come tale, priva di rilievo disciplinare”;

4. analoghe considerazioni spende la Corte calabrese circa le ulteriori incolpazioni contenute nella lettera di contestazione, così motivando: “Prendendo le mosse dalla condotta contestata al punto 7, la mancata identificazione del tecnico è del tutto priva di offensività, poiché la suddetta operazione, in quanto concernente un soggetto noto in filiale quale incaricato dalla società addetta alla sicurezza, si palesa mero adempimento formale.

Parimenti scevra di offensività è la condotta contestata al capo 5, non essendo emerso che il direttore (omissis) avesse fornito ai clienti ivi indicati prospetti con accrediti fittizi;

infatti, dalla medesima descrizione della condotta ascritta al dipendente – quale formulata nella lettera di contestazione di addebiti – emerge che si è trattato di operazioni di accredito inserite e poi annullate a breve distanza di tempo e che si è trattato di prospetti rappresentativi di informazioni che i clienti non avevano richiesto, sicché appare inverosimile quanto prospettato dalla difesa della Banca, secondo cui tali operazioni avrebbero potuto esporla a future rivendicazioni da parte dei clienti, i quali avrebbero potuto pretendere gli accrediti che risultavano dai prospetti. Infine, scevra di offensività è la condotta contestata al punto 6, (per)ché il dipendente, dopo essersi avveduto dell’errore commesso, ha provveduto a restituire l’importo di euro 218,50 al cliente prima dell’avvio del procedimento disciplinare (cfr. allegato 15 del fascicolo di parte reclamata della fase sommaria, dichiarazione a firma del sig. (omissis) di avere ricevuto la somma suddetta il 29 dicembre 2016).”;

5. da tale compendio, la Corte ha tratto il convincimento che il licenziamento intimato dovesse essere annullato “per insussistenza dei fatti posti a base dello stesso”, riconoscendo la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 novellato l. n. 300 del 1970, essendo “emersa l’insussistenza dei fatti nella duplice accezione di fatto insussistente (quelli di cui ai primi due punti della lettera di contestazione) e di fatti sussistenti (quelli di cui ai punti successivi) ma privi di illiceità”;

6. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con otto motivi; ha resistito l’intimato con controricorso;

entrambe le parti hanno comunicato memorie;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

CONSIDERATO CHE

1. deve preliminarmente essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura speciale, prospettata nel controricorso con riferimento al soggetto conferente la procura ad litem, avvocato (omissis) (omissis), di cui si contesta la rappresentanza processuale e sostanziale ai sensi dell’art. 77 c.p.c.;

si deduce nel controricorso che, “ove anche l’Avv. (omissis) risultasse dotato del rivendicato ruolo Deliberante con Funzione Legale in materia di Rapporti di lavoro (livello di procura E7), cionondimeno egli non potrebbe rappresentare validamente l’istituto nel processo odierno e resta invero privo della legittimazione alla proposizione del ricorso ed al giudizio”;

pur ammettendosi che, in base alla procura per notaio (omissis) acquisita al giudizio, “il titolare di livello di procura E7 appare abilitato a rappresentare l’Istituto in qualsivoglia atto davanti a qualsiasi Ufficio giudiziario”, il controricorrente oppone tuttavia che “questo processo è relativo a licenziamento disciplinare di dipendente della Banca”;

si sostiene, quindi, ai sensi della procura notarile in atti, che il livello E7 legittimerebbe “a rappresentare l’Istituto soltanto in atti e contratti verso il personale che, […], si risolvano nell’emanazione di provvedimenti disciplinari non espulsivi o al più in accettazione di dimissioni presentate”, mentre, per le lettere di licenziamento, sarebbero “necessari i differenti (e più alti) livelli C7, C2, B2, A2”;

il Collegio reputa che l’eccezione non possa trovare accoglimento;

1.1. secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte in tema di rappresentanza processuale, il potere rappresentativo, con la correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento di procura alla lite, può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il difetto di poteri siffatti si pone come causa di esclusione anche della legitimatio ad processum del rappresentante;

tale accertamento, trattandosi di presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto processuale, può essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato sul punto, e con possibilità di diretta valutazione degli atti attributivi del potere rappresentativo (Cass. SS.UU. n 24179 del 2009; v. pure Cass. SS.UU. n. 3822 del 2009);

ne deriva che, in caso di proposizione del ricorso (e/o del controricorso) a mezzo di procuratore (generale o speciale), ai sensi dell’art. 77 c.p.c., la produzione del relativo documento che contenga la procura è indispensabile per la verifica del corretto conferimento dei poteri, sostanziali e processuali, al procuratore, a norma dell’art. 77 c.p.c. (tra molte: Cass. n. 35855 del 2022) e si è anche chiarito che il deposito della procura di cui all’art. 77 c.p.c. non è necessario che avvenga unitamente al ricorso, ma ben può essere eseguito successivamente, ai sensi appunto dell’art. 372 c.p.c., rilevando esso ai fini dell’ammissibilità del ricorso (o del controricorso) (tra molte: Cass. n. 16041 del 2023);

inoltre, per condivisa giurisprudenza di questa Corte, la qualità di rappresentante sostanziale in capo al procuratore speciale della persona giuridica che abbia sottoscritto la procura alle liti deve essere oggetto di specifica e tempestiva contestazione, in forza della quale soltanto incombe all’anzidetto rappresentante di dare prova dei poteri rappresentativi spesi in ordine al rapporto dedotto in giudizio, ove il potere rappresentativo abbia origine da un atto della persona giuridica non soggetto a pubblicità legale (Cass. SS.UU. n. 20596 del 2007; Cass. n. 20563 del 2014;Cass. n. 4924 del 2017);

in particolare è stato specificato che, così come, “in mancanza di tempestiva contestazione della controparte, l’indicazione del potere rappresentativo derivante alla persona fisica dalla posizione occupata nella società è sufficiente ai fini della validità della procura”, analogamente deve dirsi quanto ai poteri del procuratore speciale della parte, “ove il procuratore speciale sia stato dalla procura rilasciatagli investito della rappresentanza processuale e rilasci la procura alle liti sul presupposto che il potere rappresentativo di cui è investito si estenda anche alla rappresentanza sostanziale, e la controparte nulla eccepisca in ordine a tale allegato potere rappresentativo” (negli esatti termini: Cass. n. 19824 del 2011);

la contestazione della relativa qualità ad opera della controparte deve essere “tempestiva, non essendo il giudice tenuto a svolgere di sua iniziativa accertamenti in ordine all’effettiva esistenza della qualità spesa dal rappresentante, dovendo egli solo verificare se il soggetto che ha dichiarato di agire in nome e per conto della persona giuridica abbia anche asserito di farlo in una veste astrattamente idonea ad abilitarlo alla rappresentanza processuale della persona giuridica stessa” (ancora Cass. SS.UU. n. 20596 del 2007).

1.2. nella specie, dalla intestazione del ricorso, risulta che la Banca ha agito “in persona dell’Avv. (omissis) (omissis), nella sua qualità di Deliberante con Funzione Legale in materia di Rapporti di lavoro (Livello di Procura E7) a ciò espressamente autorizzato dalla delibera del Consiglio di Amministrazione della Banca stessa in data 27.5.2021 (all. A) e della conseguente procura speciale ai rogiti (omissis), notaio in Siena, in data 15.5.2021 repertorio n. 40:124/20.466 registrata a Siena il 15.6.2021 al n. 3600 (all. B)”;

non è contestabile che la procura notarile specificamente indicata come “all. B” nell’intestazione dell’atto sia stata prodotta unitamente al deposito del ricorso per cassazione; piuttosto nel controricorso si dubita che l’Avv. (omissis) sia investito del potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sostenendo che per il licenziamento sarebbero necessari livelli di procura più elevati rispetto a quello E7 speso da detto avvocato;

l’assunto non può essere condiviso;

dalla procura (omissis) in atti risulta che chi è dotato del livello di procura E7 ha il potere, per “controversie legali di qualunque natura di fronte a qualsiasi magistratura o arbitri, esposti e querele”, di compiere:

“1. Atti di parte o diretti a nominare avvocati, procuratori o arbitri, al fine di proporre ogni azione, domanda o gravame, resistere alle domande, compiere ogni atto processuale a tutela dei diritti della Banca, rinunciare, abbandonare, recedere dagli atti e dalle azioni e accettare analoghi recessi dalle altre parti in causa, rinunciare a proporre impugnazioni avverso decisioni di condanna della Banca, transigere, conciliare, intervenire o chiamare terzi in causa, sottoscrivendo, ove necessario, i relativi atti, oltre che sottoscrivere tutta la corrispondenza inerente la causa, sia verso controparti che verso i legali esterni.

2. Atti finalizzati ad attivare procedimenti esecutivi, sommari, concorsuali, di volontaria giurisdizione, a costituirsi negli stessi procedimenti da chiunque promossi, nonché nelle liti agli stessi conseguenti.

3. Atti diretti a rappresentare in giudizio la Banca, rispondere a interrogatori, disconoscere scritture private e proporre querele di falso.

4. Atti diretti a concedere a specifici nominativi, di volta in volta individuati, la facoltà di rendere in controversie legali interrogatori e giuramenti, suppletori e decisori, in rappresentanza della Banca […]” (pag. 45, sub 40, punto 89); dall’ampiezza dei poteri conferiti con il livello di procura E7 emerge che l’Avv. (omissis) non solo aveva il potere di nominare i difensori per proporre il presente ricorso per cassazione ma è altresì dotato del conseguente potere rappresentativo sostanziale, conferente alla gestione dei rapporti cui “controversie legali di qualunque natura” si riferiscano, atteso che gli è stato pure conferito il potere di “rinunciare, abbandonare, recedere dagli atti e dalle azioni […]”, ma finanche di “transigere” e “conciliare”, cioè di compiere atti negoziali di natura sostanziale idonei a definire i rapporti tra le parti;

vale sottolineare che non è qui in discussione il potere di rappresentanza sostanziale relativo alla gestione di un rapporto di lavoro ancora in corso – come sembra opinare la difesa del lavoratore quando oppone che per licenziare un dipendente di BMPS sarebbe necessario, alla stregua della procura (omissis), un livello superiore a quello definito E7 – ma, piuttosto, viene in rilievo la gestione delle conseguenze di un rapporto di lavoro già risolto, con il correlativo potere rappresentativo di disporre del rapporto controverso anche mediante transazioni e conciliazioni;

così accertata la sussistenza del potere rappresentativo da parte del Collegio, con diretta valutazione degli atti attributivi di detto potere, non può trovare ingresso ogni altra questione pure agitata nella memoria dell’Avv. (omissis);

infatti, la funzione della memoria ex art. 380bis.1 c.p.c., così come della memoria prevista dall’art. 378 c.p.c., è solo quella di illustrare e chiarire le ragioni già espresse nei rispettivi atti introduttivi del giudizio di cassazione (cfr. Cass. n. 30760 del 2018; Cass. n. 17893 del 2020; Cass. n. 24007 del 2017; Cass.n. 26332 del 2016) e non certo di proporre nuove contestazioni o temi di indagine; ancor più in una ipotesi in cui la contestazione relativa all’effettiva esistenza del potere rappresentativo del soggetto che ha conferito la procura ad litem deve essere “puntuale e tempestiva” (cfr. Cass. n. 25656 del 2023, che richiama Cass. SS.UU. n. 31963 del 2021 e Cass. n. 6733 del 2022, peraltro in presenza di analoga contestazione avverso una procura speciale relativa a controversia che aveva come parte il medesimo Istituto bancario e che è stata considerata rituale);

2. tanto premesso, i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito;

2.1.con il primo motivo di ricorso si censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. la sentenza di appello per avere annullato il licenziamento per giusta causa ritenendo non raggiunta la prova dell’indebita assegnazione da parte dello stesso (omissis) di carte di credito e prepagate a nome della anziana cliente sig.ra (omissis), che la stessa non aveva inteso richiedere (poi utilizzate per effettuare prelievi disconosciuti dalla medesima cliente);

la Banca ricorrente lamenta che la Corte di merito abbia assunto tale decisione “basandosi esclusivamente sul dato formale della sottoscrizione da parte della sig.ra (omissis) della relativa modulistica, ignorando i molteplici elementi di fatto che inducevano univocamente a ritenere tali firme apposte dalla cliente senza alcuna reale volontà di richiedere le carte di credito e prepagate in questione”;

2.2. col secondo motivo si impugna la sentenza per omesso esame di fatti decisivi che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 n. 5 c.p.c., oltre che per violazione degli artt. 2104, 2106 e 2119 c.c. nonché 3 L. 604/66, avendo “i giudici di appello totalmente omesso di considerare la violazione da parte del sig. (omissis) delle disposizioni aziendali prescriventi un’accurata attività informativa e consulenziale nei confronti del cliente prima di assegnargli carte di credito o prepagate, nonché l’obbligatoria consegna del codice pin al cliente da parte di operatore diverso da quello che consegna la carta”;

2.3. il terzo motivo censura la sentenza di appello per violazione degli artt. 2119 e 2106 c.c. e 3 L. 604/66, avendo essa ritenuto “scevra di offensività” e “priva di rilievo disciplinare la condotta del sig. (omissis) consistita nell’avere rilasciato una carta di credito a nome della cliente (omissis) a totale insaputa della stessa, per esclusivi fini commerciali di raggiungimento del budget, recapitandola presso la filiale (anziché presso la residenza della cliente) e poi distruggendola, avendo la Corte di Appello ingiustamente attribuito rilievo a tal fine alla “mancanza di prova … che alla sig.ra (omissis) siano state addebitate, sul proprio conto, le spese di gestione della carta in questione”, così violando l’incontroverso principio secondo cui il danno patrimoniale non è necessario ai fini della configurabilità della giusta causa di licenziamento;

2.4. col quarto mezzo si lamenta ancora l’omesso esame di fatti decisivi ai fini del giudizio che sono stati stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte ritenuto che il (omissis) non avesse esposto ai clienti falsi prospetti sulla consistenza delle loro situazioni patrimoniali, senza considerare che il (omissis) aveva invece ammesso l’addebito, e addirittura riferito di avere consegnato fisicamente una copia cartacea del falso prospetto quantomeno al cliente (omissis), seppure a suo dire per errore;

2.5. il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 2119 e 2106 c.c. nonché 3 L. 604/66, da parte della Corte di Appello di Catanzaro, avendo essa ritenuto che l’effettuazione da parte del sig. (omissis) di accrediti fittizi sui conti correnti di alcuni clienti, al fine di fornire loro false rappresentazioni delle loro situazioni patrimoniali, sarebbe stata una condotta anch’essa “scevra di offensività” e, conseguentemente, di rilievo disciplinare;

2.6. il sesto motivo denuncia ancora violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 c.c., nonché 3 L. 604/66, per avere la Corte ritenuto che il prelievo di € 218,50 da parte del sig. (omissis) sul conto corrente di un ignaro cliente, per sistemare partite contabili in sospeso di clienti diversi, sarebbe stato, al solito, comportamento privo di offensività e rilievo disciplinare, avendo lo stesso (omissis) restituito di tasca propria l’importo sottratto al cliente, prima della contestazione disciplinare;

2.7. il settimo motivo censura la sentenza di appello per violazione dell’art. 2697 c.c., e omesso esame su fatti decisivi che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 n. 5, laddove ha ritenuto che la predetta sottrazione di euro 218,50 da parte del sig. (omissis) dal conto corrente di un ignaro cliente, per sistemare ben sette posizioni di partite di clienti tutti diversi, sarebbe stata frutto di un “errore” dello stesso (omissis);

2.8. l’ottavo motivo denuncia, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, L. 300/1970, “avendo la Corte di Appello ingiustamente ritenuto “insussistenti” gli addebiti disciplinari posti a base del licenziamento del sig. (omissis), con conseguente applicazione della tutela reintegratoria prevista dal IV comma dell’art. 18, nonostante invece quegli stessi fatti fossero risultati sussistenti (alcuni addirittura ammessi dallo stesso (omissis))”;

3. i primi due motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente in quanto censurano quella parte della sentenza impugnata relativa alle condotte oggetto delle prime tre contestazioni disciplinari, non possono trovare accoglimento;

infatti, con essi si tende ad una diversa ricostruzione dei fatti rispetto all’accertamento operato dalla Corte territoriale, sollecitando un sindacato estraneo ai compiti del giudice di legittimità;

viene denunciato il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, che hanno espresso sulla nuova formulazione della disposizione i seguenti principi di diritto:

a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. c.c., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”;

b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie;

d) la parte ricorrente dovrà indicare -nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), c. p. c. e 369, secondo comma, n. 4), c. p. c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso; i motivi in esame risultano irrispettosi di tali enunciati, in particolare evocando una diversa valutazione del materiale probatorio e non enucleando un fatto storico, di cui sarebbe stato omesso l’esame, avente carattere realmente decisivo nel senso patrocinato da questa Corte e cioè che “che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia”, con una prognosi non di mera possibilità;

4. i successivi motivi di ricorso dal terzo al settimo sono suscettibili di valutazione congiunta, in quanto riguardano le altre contestazioni oggetto di addebito e presentano profili di interdipendenza e reciproca connessione; sono fondati nei limiti segnati dalla motivazione che segue;

4.1. questa Corte ha costantemente ribadito, avuto particolare riguardo al regime instaurato con la l. n. 92 del 2012, che il giudice deve procedere ad una valutazione più articolata circa la legittimità dei licenziamenti rispetto al periodo precedente: in primo luogo deve accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo effettivamente la riforma del 2012 modificato le norme sui licenziamenti individuali (cfr. Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017);

nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve poi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno delle diverse condizioni previste per l’individuazione dell’apparato sanzionatorio, in particolare quelle per accedere alla tutela reintegratoria; “sotto l’aspetto metodologico, […], si tratta di due valutazioni diverse: l’una riguardante la esistenza della giusta causa e l’altra la tutela applicabile, che devono essere svolte autonomamente” (in termini, per tutte, Cass. n. 3076 del 2020; in conformità, Cass. n. 17492 del 2020; Cass. n. 30850 del 2021; Cass. n. 11665 del 2022; Cass. n. 13774 del 2022; Cass. n.16973 del 2022; Cass. n. 26510 del 2023);

mentre la prima valutazione ha come parametro esterno con cui regolare la fattispecie gli artt. 2119 c.c. e 3 della l. n. 604 del 1966, la seconda – che è successiva ed eventuale perché ha ingresso solo nel caso in cui il giudice ritenga il recesso ingiustificato alla stregua del primo parametro – trova il suo referente, nel caso che ci occupa, nell’art. 18 St. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), l. n. 92 del 2012, non a caso rubricato «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo», a significare che in esso vi è la disciplina delle conseguenze sanzionatorie di un recesso giudicato illegittimo sulla base di un parametro normativo che è presupposto e altrove;

le nozioni legali che contengono le causali giustificative del licenziamento disciplinare le descrivono o come “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (ex art. 2119 c.c.) oppure come “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro” (ex art. 3 l. n. 604 del 1996), con una variante meramente quantitativa fondata sulla gravità (tra molte, v. Cass. n. 6889 del 2002);

esse sono destinate a coprire l’intera area del licenziamento “ontologicamente” disciplinare, ovvero motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore (Cass. SS.UU. n. 4823 del 1987; Corte cost. n. 204 del 1982);

a tali nozioni legali deve innanzitutto fare riferimento il giudice chiamato a verificare la legittimità di un licenziamento disciplinare, tenendo conto di una pluridecennale giurisprudenza di questa Corte che ha interpretato dette disposizioni nel senso che la riconduzione del fatto contestato e accertato alle ipotesi normative è frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi, con “un giudizio complesso, che si relaziona, da un lato, alla portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale;

dall’altro lato, alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare” (in termini, Corte cost. n. 129 del 2024);

4.2. invero, secondo risalenti e consolidati orientamenti, il licenziamento può essere legittimamente intimato allorquando la condotta del lavoratore rivesta il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello della fiducia (tra le recenti: Cass. n. 3120 del 2021; Cass. n. 14880 del 2020; Cass. n. 19092 del 2018; Cass. n. 14527 del 2018; Cass. n. 12798 del 2018);

sia, cioè, un comportamento idoneo, per la sua gravità, a far venir meno la fiducia nei futuri adempimenti (tra le tante, Cass. n. 11806 del 1997; Cass. n. 5633 del 2001; Cass. n. 12777 del 2019) ovvero a far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. n. 18195 del 2019; Cass. n. 13411 del 2020; Cass. n. 36427 del 2023);

esclusa ogni rilevanza delle percezioni meramente soggettive di parte datoriale (in principio Cass. n. 3744 del 1984 e Cass. n. 8847 del 1987), la valutazione del giudice deve essere condotta con riferimento non già al fatto astrattamente considerato, bensì agli aspetti concreti di esso, di modo che risulti come la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata non solo nel suo contenuto oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui essa è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all’intensità dell’elemento intenzionale dell’agente, risulti idonea a ledere, in modo tanto grave da farla venire meno, la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre in chi collabora nell’impresa e tale, quindi, da esigere sanzioni non minori di quella massima, definitivamente espulsiva;

in particolare, detto accertamento deve essere svolto tenendo conto della qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, della posizione che in esso abbia avuto il prestatore d’opera e, quindi, della qualità e del grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava(ex pluribus, Cass. n. 5943 del 2002; Cass. n. 12798 del 2018; Cass. n. 3115 del 2021);

avuto proprio riguardo alla qualità del rapporto e alla delicatezza dei compiti svolti, è stato più volte sottolineato che la condotta dei dipendenti di una banca impone una valutazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà secondo criteri più rigorosi (Cass. n. 1475 del 2004; Cass. n. 5504 del 2005; Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 9802 del 2015; Cass. n. 23605 del 2018);

si è evidenziato come il comportamento scorretto del dipendente di una banca, a prescindere dal verificarsi di un effettivo danno di natura patrimoniale, possa ledere l’affidamento che non solo il datore di lavoro ma anche il pubblico devono riporre nella lealtà e correttezza del personale degli istituti di credito (Cass. n. 9576 del 2001; Cass. n. 1894 del 1998);

indipendentemente dal conseguimento di un utile personale, il comportamento di un dipendente bancario “posto in essere in violazione delle procedure interne, dei diritti dei correntisti e dello specifico interesse datoriale al mantenimento di una affidabile e trasparente organizzazione del lavoro” è “idoneo a compromettere irrimediabilmente l’elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro” (così Cass. n. 6901 del 2016);

in diritto opportuno infine aggiungere, ai fini della contesa che ci occupa, che, in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, quando vengono contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice del merito non deve esaminarli atomisticamente, ma deve valutare complessivamente la loro incidenza sul rapporto di lavoro (cfr. Cass. n. 1890 del 2009; Cass. n. 6668 del 2004);

si è pure precisato che ove siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione: non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (in termini: Cass. n. 18836 del 2017);

ne consegue che, salvo questo specifico caso, ove nel giudizio di merito emerga l’infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservano la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento (Cass. n. 454 del 2003; Cass. n. 24574 del 2013; Cass. n. 12195 del 2014);

4.3. al descritto percorso metodologico si è sottratta la Corte territoriale nella valutazione degli addebiti disciplinari di cui alle censure in esame;

4.3.1. infatti, dopo aver escluso che fosse emersa la prova che il (omissis) avesse realizzato le condotte oggetto delle “prime tre contestazioni disciplinari”, così accogliendo i “tre motivi di gravame” del lavoratore che, peraltro, riguardavano solo tali addebiti (v. pag. 60 della sentenza impugnata), la Corte di Appello ha scrutinato le altre contestazioni giungendo, per tutte, alla conclusione che fossero prive di rilievo disciplinare in quanto – come ricordato nello storico della lite – “scevre di offensività”; a supporto si argomenta, quanto alla “condotta di assegnazione alla (omissis) della carta di credito gold”, che mancherebbe “la prova, invero non fornita dalla banca che ne era onerata, che alla Sig.ra (omissis) siano state addebitate, sul proprio conto, le spese di gestione della carta in questione”;

per “la condotta contestata al capo 5”, consistita in “operazioni di accredito inserite e poi annullate a breve distanza di tempo”, si reputa “inverosimile quanto prospettato dalla difesa della Banca, secondo cui tali operazioni avrebbero potuto esporla a future rivendicazioni da parte dei clienti”;

circa “la condotta contestata al punto 6”, concernente l’addebito senza titolo sul conto di un cliente, si afferma che comunque il (omissis) “ha provveduto a restituire l’importo di euro 218,50 al cliente prima dell’avvio del procedimento disciplinare”;

4.3.2. quindi la Corte, lungi dal verificare primariamente se tali condotte integrassero o meno degli inadempimenti rilevanti ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 2119 c.c. o 3 l. n. 604 del 1966, ha ragionato esclusivamente sulle loro conseguenze, peraltro apoditticamente escludendo ogni attitudine lesiva dei comportamenti ascritti al dipendente bancario;

in particolare, ha trascurato di considerare il costante indirizzo secondo il quale, in tema di licenziamento disciplinare, è irrilevante, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, l’assenza o la speciale tenuità del danno subito dal datore di lavoro, elementi da soli affatto sufficienti ad escludere la lesione del vincolo fiduciario, perché ciò che rileva è la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti (ex plurimis, nel corso degli anni, Cass. n. 8568 del 2000; Cass. n. 5434 del 2003; Cass. n. 16260 del 2004; Cass. n. 16864 del 2006; Cass. n. 19684 del 2014; Cass. n. 13168 del 2015; Cass. n. 8816 del 2017; Cass. n. 5542 del 2020);

parimenti, il mancato conseguimento di un utile economico da parte del lavoratore non esclude che la sua condotta, per la sua oggettiva gravità, sia tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro, giacché può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, anche potenziale e non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (cfr. Cass. n. 15654 del 2012; Cass. n. 9802 del 2015);

pertanto, la mancanza di effettive conseguenze pregiudizievoli, in danno del datore o di terzi, ovvero l’assenza di concreti vantaggi, a favore del lavoratore o di terzi, così come l’eventuale comportamento successivo volto ad elidere gli effetti dannosi dell’atto contestato, non valgono, di per sé, ad escludere l’inadempimento e, quindi, la rilevanza disciplinare del fatto, potendo piuttosto concorrere, unitamente ad ogni altro fattore oggettivo e soggettivo palesato dal caso concreto, nella complessa valutazione giudiziale circa l’idoneità della condotta a giustificare la massima sanzione disciplinare;

4.3.3. è che l’opzione della Corte territoriale appare influenzata dall’avere fatto immediato riferimento nella soluzione della controversia, più che agli artt. 2119 c.c. e 3 l. n. 604/66, piuttosto all’art. 18, comma 4, St. lav., che regola le conseguenze del licenziamento già ritenuto illegittimo, nonché da una non perspicua lettura della giurisprudenza di legittimità che si è formata nell’interpretazione della disposizione statutaria novellata;

nella delicata esegesi del nuovo criterio di graduazione delle tutele sancito dall’art. 18, questa Corte, infatti, ha ben presto statuito che la “insussistenza del fatto contestato” comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche l’ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, sia privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica, quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente, e, quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare (ab imo, Cass. n. 20540 e n. 20545 del 2015; conf. Cass. n. 18418 del 2016; Cass. n. 10019 del 2016; Cass. n. 13383 del 2017; Cass. n. 11322 del 2018; Cass. n. 3655 del 2019; v. pure Corte cost. n. 129/2024 cit.; principi di diritto estesi anche all’art. 3, co. 2, d. lgs. n. 23 del 2015, da Cass. n. 12174 del 2019; conf. Cass. n. 3362 del 2023);

nelle prime due sentenze del 2015, seguite da tutta la giurisprudenza successiva, si è icasticamente argomentato che “non è plausibile che il Legislatore, parlando di ‘insussistenza del fatto contestato’, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione […] in altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell’articolo 18, comma 4”;

tuttavia, per pervenire a dette conclusioni è stata valorizzata, sotto il profilo logico prima ancora che giuridico, l’assoluta sovrapponibilità dei casi di condotta materialmente inesistente a quelli di condotta che non costituisca inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero che non sia imputabile al lavoratore stesso;

assoluta sovrapponibilità o completa irrilevanza giuridica del fatto che non può predicarsi laddove inadempimento vi sia e si possa discutere solo della sua eventuale idoneità a giustificare, in termini di gravità, la risoluzione del rapporto di lavoro;

altrimenti ragionando in ogni caso di difetto di proporzionalità tra addebito e sanzione del licenziamento dovrebbe ritenersi applicabile la tutela reintegratoria, mentre, invece, “laddove in esito alla valutazione in concreto della fattispecie accertata, il giudice ravvisi una sproporzione tra la condotta non tipizzata (ndr. dalle previsioni della contrattazione collettiva) e la sanzione irrogata, risolto il rapporto di lavoro, dovrà applicare la tutela indennitaria dettata dal comma 5 dell’art. 18 citato rientrandosi in quegli altri casi che ai sensi del comma 5 dell’art. 18 sono ristorabili con la c.d. tutela indennitaria forte” (per tutte, Cass. n. 11665 del 2022), essendogli richiesto, in quella sorta di valutazione bifasica di cui si è detto, di accertare la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, “nel caso in cui lo escluda, anche il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante” (cfr., tre le prime, Cass. n. 13178 del 2017, in motivazione, e Cass. n. 32500 del 2018, richiamate anche da Cass. n. 11655/2022);

4.3.4. peraltro, la sentenza impugnata neanche spiega come possa considerarsi radicalmente priva di rilievo disciplinare la condotta del direttore di banca che, secondo quanto concordemente accertato dai giudici di prime cure, abbia: attivato una carta di credito all’insaputa della cliente e allo scopo di raggiungere obiettivi commerciali, domiciliando la carta presso la filiale e conservandola ivi col relativo PIN;

effettuato accrediti fittizi sui conti di alcuni clienti, annullando poi le operazioni; addebitato somme sul conto di un ignaro cliente per un importo corrispondente agli accrediti operati in favore di altri clienti a titolo di rimborso spese varie;

fuorviante, infine, appare il richiamo alla “offensività”, espressione del principio di matrice penalistica secondo il quale la sussistenza del reato va, comunque, riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto, effettuato “ex post”;

considerata l’eterogeneità degli interessi protetti, il principio proprio del diritto penale può essere trasposto nel diritto civile ed assumere rilievo decisivo in materia disciplinare solo ove venga tipizzato dal legislatore il bene giuridico protetto (come nel caso della compromissione dell’immagine del magistrato per gli illeciti disciplinari di tale categoria, secondo quanto emerge esplicitamente dall’art. 3, lett. h), e dall’art. 4, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, (cfr. Cass. SS.UU. n. 25091 del 2010; Cass. SS.UU. n. 24672 del 2018);

5. in conclusione, respinti i primi due motivi di ricorso, devono essere accolti i motivi dal terzo al settimo nei sensi espressi nella presente motivazione, mentre va dichiarato assorbito l’ottavo, successivo in ordine logico-giuridico, in quanto attiene alla tutela applicabile solo nel caso in cui il licenziamento impugnato non sia considerato sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo soggettivo;

la sentenza impugnata deve essere quindi cassata in relazione alle censure ritenute fondate, con rinvio alla diversa Corte di Appello indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, provvedendo ad un nuovo esame della controversia secondo i principi richiamati in motivazione e liquidando anche le spese del giudizio di legittimità;

P.Q.M.

La Corte accoglie i motivi di ricorso dal terzo al settimo per quanto di ragione, rigetta i primi due motivi e dichiara assorbito l’ottavo;

cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure ritenute fondate e rinvia alla Corte di Appello di Reggio Calabria, anche per le spese.

Casi deciso in Roma nell’adunanza camerale del 18 giugno 2024.

Il Presidente

Dott.ssa Antonella Pagetta

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.