REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. DONATELLA GALTERIO – Presidente –
Dott. (OMISSISIS) (OMISSISIS) – Consigliere –
Dott. (OMISSISIS) (OMISSISIS) – (Consigliere –
Dott. ANTONIO CORBO – Relatore –
Dott. (OMISSISIS) (OMISSISIS) – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis), nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 16/11/2023 della Corte d’appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Antonio Corbo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Aldo Esposito, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito, per il ricorrente, l’Avv. (omissis) (omissis), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 16 novembre 2023, la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal G.u.p. del Tribunale di Brescia emessa all’esito di giudizio abbreviato, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di (omissis) (omissis) per il delitto di partecipazione ad associazione per delinquere aggravata dal numero delle persone, riqualificando la condotta da organizzatore a mero partecipe, ed ha rideterminato la pena, riducendola, in due anni e quattro mesi di reclusione, applicata la diminuente del rito e con diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, (omissis) (omissis), con condotta protratta almeno fino ai luglio 2020, avrebbe fatto parte di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari, in particolare provvedendo al trasferimento in Italia sia del denaro in contanti ricavato dalla “monetizzazione delle somme inviate in Polonia da società italiane quale corrispettivo di acquisti documentati da false fatture emesse da ditte “fittizie” con sede in Polonia, sia delle false fatture e dei falsi documenti di trasporto rilasciati da queste ultime.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe (omissis) (omissis), con atto sottoscritto dall’Avv. (omissis) (omissis), articolando cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 129-bis cod. proc. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avuto riguardo al mancato invio dell’imputato ai programmi di giustizia riparativa.
Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata ha negato l’avvio dell’imputato ai programmi di giustizia riparativa, nonostante il parere favorevole del Pubblico ministero, in ragione di «un concreto pericolo per il sovraordinato bene interesse tutelato dalla norma, desumibile dalla prognosi negativa circa l’astensione per il futuro dalla commissione di reati».
Si osserva che, nella specie, non è individuato, né individuabile l’interessato che versi in uno stato di concreto pericolo, sì da precludere l’invio dell’imputato ai programmi di giustizia riparativa.
Si osserva che la possibilità di accedere ai percorsi di giustizia riparativa, siccome in grado di influire sulla decisione del processo principale, costituisce un diritto di intervento dell’imputato, e che, quindi, l’erronea frustrazione di tale diritto configura una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. peri.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 191 e 240 cod. proc. pen , a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avuto riguardo alla mancata declaratoria di inutilizzabilità delle comunicazioni dell’esperto del servizio di sicurezza dell’Italia in Polonia.
Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata ha ritenuto utilizzabili le note provenienti dall’Autorità di polizia polacca, nonostante la mancata menzione, per asserite ragioni di segretezza, del nominativo dell’agente segreto per il servizio di sicurezza dell’Italia in Polonia.
Si osserva che tale agente è una fonte riservata, che la relativa figura è stata istituita dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, e che le informazioni fornite dallo stesso sono state ritenute significative dalla sentenza impugnata, ad esempio con riguardo al precedente viaggio dell’attuale ricorrente in Polonia nel 2019 ed alla pregressa conoscenza tra quest’ultimo e la coindagata (omissis) (omissis).
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 416 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta partecipazione dell’attuale ricorrente ad un’associazione per delinquere.
Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata fonda l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato sul rinvenimento, nella disponibilità del medesimo, di fatture e documenti di trasporto, in due occasioni, il 28 marzo 2020 ed il 18 luglio 2020, nonché, nella prima di esse, anche di una ingente somma di denaro.
Si osserva che si tratta di eventi episodici, inidonei a radicare una contestazione associativa, tanto più a seguito dell’assoluzione per i reati fine.
Si precisa, avendo riguardo alle specifiche contestazioni formulate nel capo di imputazione, che non vi è alcuna prova che l’attuale ricorrente:
1) abbia percepito corrispettivi;
2) abbia svolto attività gestionali delle società polacche;
3) abbia “monetizzato” somme giacenti sui conti correnti delle società polacche;
4) abbia consegnato alcunché in Italia.
Si aggiunge che non vi è prova della consapevolezza dell’attuale ricorrente di trasportare oggetti illeciti: al più, il trasporto della somma in contanti può implicare la consapevolezza di una violazione valutaria sanzionata solo in sede amministrativa dagli artt. 3 e 9 d.lgs. n. 195 del 2008.
Si rileva, in conclusione, che non vi è alcuna prova di un vincolo di natura continuativa e permanente a carico dell’attuale ricorrente, né della sua consapevolezza di partecipare alle attività di un sodalizio criminale.
2.4. Con il quarto motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui al quinto comma dell’art. 416 cod. pen.
Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata ha ritenuto la consapevolezza dell’attuale ricorrente di partecipare ad un’associazione composta da oltre dieci sodali. Si osserva che è emersa la conoscenza, da parte dell’attuale ricorrente, di tre soli pretesi sodali, uno assolto e gli altri due non ancora giudicati.
2.5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avuto riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata ha negato all’attuale ricorrente la concessione delle circostanze attenuanti generiche, sia perché ha omesso di considerare che l’imputato è persona incensurata, di giovane età, la quale versa in uno stato di indigenza economica, è stata assolta in ordine a tutti i reati fine ed ha manifestato un comportamento processuale ed extra-processuale corretto, sia perché ha stigmatizzato, di fatto, la scelta di non “confessare”.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è nel complesso infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Inammissibili sono le censure esposte nel primo motivo, che contestano la violazione del diritto di difesa deducendo l’illegittimità del provvedimento di diniego dell’invio dell’imputato ai programmi di giustizia riparativa ex art. 129-bis cod. proc. pen., in quanto fondato su un asserito concreto pericolo per un interessato nemmeno individuabile, rilevante ai fini della decisione del processo per le pregiudizievoli conseguenze sotto il profilo del trattamento sanzionatorio.
2.1. La questione dell’ammissibilità di impugnazioni proposte avverso i provvedimenti di diniego dell’invio dell’imputato ai programmi di giustizia riparativa ex art. 129-bis cod. proc. pen. è stata già esaminata in sede di legittimità.
In particolare, una decisione ha escluso l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il provvedimento con cui il giudice nega al richiedente l’accesso ai programmi di giustizia riparativa ai sensi dell’art. 129-bis cod. proc. pen., non avendo lo stesso natura giurisdizionale (Sez. 2, n. 6595 del 12/12/2023, dep. 2024, Baldo Rv. 285930 – 01).
La decisione appena citata ha avuto ad oggetto un’ordinanza emessa dopo la pronuncia della sentenza di condanna, ed è stata motivata sulla base di una pluralità di argomenti.
In primo luogo, si è richiamato il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, di cui all’art. 568, comma 1, cod. proc. pen.
In secondo luogo, si è osservato che i provvedimenti di rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa non sono riconducibili alle sentenze o ai provvedimenti sulla libertà personale, per i quali l’art. 111, settimo comma, Cost. prevede l’ammissibilità del ricorso per cassazione. In terzo luogo, si è escluso che la mancata previsione dell’impugnabilità dell’ordinanza di rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa dia luogo ad una illegittimità costituzionale. In particolare, a fondamento di tale conclusione, si è evidenziato che il procedimento riparativo non è un procedimento giurisdizionale, ma un servizio pubblico di cura relazionale tra persone, non è parte del procedimento penale ed è retto da principi differenti rispetto a quelli regolativi di quest’ultimo.
Tutto questo principalmente perché l’accesso ai programmi di giustizia riparativa, da un lato, non può avere alcun effetto sfavorevole per l’accusato nel giudizio penale, e, dall’altro, non richiede nemmeno l’esistenza di un procedimento penale in corso, perché è possibile ricorrervi anche dopo l’esecuzione della pena (art. 44, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2022), ovvero, nel caso di reati perseguibili a querela di parte, anche prima della proposizione della querela (art. 44, comma 3, d.lgs. n. 150 del 2022). 2.2. Ad avviso del Collegio, occorre distinguere.
2.2.1. Innanzitutto, deve escludersi l’autonoma impugnabilità dell’ordinanza di rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa. Questa conclusione si impone in considerazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione di cui all’art. 568, comma 1, cod. proc. pen., dell’assenza di qualunque previsione relativa alla proponibilità di impugnazione dell’ordinanza in questione, e della estraneità della stessa alle categorie di provvedimenti (sentenze e provvedimenti sulla libertà personale) che sono ricorribili per cassazione a norma dell’art. 111, settimo comma, Cost.
2.2.2. Nel caso di provvedimento di rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa emesso nel corso degli atti preliminari o nel dibattimento, la questione della sua impugnabilità deve essere esaminata alla luce della disciplina di cui all’art. 586 cod. proc. pen.
Precisamente, a norma dell’art. 586 cod. proc. pen., l’impugnazione delle ordinanze emesse nel corso degli atti preliminari o nel dibattimento, e diverse da quelle in materia di libertà personale, può essere proposta (solo) unitamente all’impugnazione contro la sentenza, salvo diversa disposizione di legge.
E il provvedimento sulla richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa, per un verso, quando è emesso del giudice che procede, è adottato nelle forme dell’«ordinanza», come esplicitamente indicato dall’art. 129-bis, comma 3, cod. proc. pen., e, sotto altro aspetto, non è autonomamente impugnabile, stante l’assenza di qualunque previsione in proposito.
Ciò posto, è utile precisare che la regola dell’impugnazione differita dell’ordinanza emessa nel corso degli atti preliminari o nel dibattimento, implica la necessità di una influenza giuridicamente rilevante delle sue determinazioni sul contenuto della successiva sentenza.
Come osserva la generalità della dottrina, infatti, la regola dell’impugnazione differita di cui all’art. 586 cod. proc. pen. impone di attendere l’esito del processo per consentire di accertare se, e in quale misura, le decisioni nelle quali le ordinanze emesse nel corso degli atti preliminari o nel dibattimento si concretizzano abbiano potuto incidere sulla decisione finale.
Va poi rilevato che la decisione del giudice che procede di accogliere o rigettare la richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa, salvo in un’unica ipotesi specificamente prevista, non può ritenersi abbia una incidenza giuridicamente rilevante sulla decisione finale, perché esplica un’influenza sulla decisione di merito meramente eventuale e quale elemento di una fattispecie (molto) più complessa, integrata solo al verificarsi di ulteriori fatti del tutto estranei ed indipendenti dal procedimento penale e dal suo svolgimento.
Invero, dal sistema normativo, e, in particolare, dall’art. 129-bis cod. proc. pen., si evince la reciproca e completa autonomia del procedimento riparativo e di quello penale, dopo l’esercizio dell’azione penale, salvo che il procedimento abbia ad oggetto reati perseguibili a querela soggetta a remissione.
Dopo l’esercizio dell’azione penale, infatti, la legge prevede che il giudice «può disporre con ordinanza la sospensione del processo» al fine di consentire lo svolgimento del programma di giustizia riparativa, tra l’altro «per un periodo non superiore a centottanta giorni», per il solo caso di reati perseguibili a querela soggetta a remissione, e in presenza di richiesta dell’imputato (art. 129-bis, comma 4, cod. proc. pen.).
Di conseguenza, in tutti gli altri casi, deve concludersi che l’invio degli interessati al Centro per la giustizia riparativa di riferimento per l’avvio di un pertinente programma non può determinare la sospensione del processo.
In primo luogo, infatti, una interpretazione analogica dell’art. 129-bis, comma 4, cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con il principio generale della eccezionalità dei casi di sospensione del processo, desumibile, in particolare, dall’art. 50, comma 3, cod. proc. pen., a sua volta del tutto omogeneo con il canone costituzionale della ragionevole durata del processo assicurata dalla legge.
In secondo luogo, l’assoluta autonomia del corso del processo penale rispetto ai tempi per lo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa è pienamente coerente con le regole relative alla assoluta variabilità della durata di questi ultimi, ancorata esclusivamente «alle necessità del caso», e alla piena discrezionalità in proposito dei mediatori, come si evince, in particolare, dall’art. 55, commi 2 e 4, d.lgs. n. 150 del 2022.
Né il semplice avvio di un programma di giustizia riparativa esplica effetti sul trattamento sanzionatorio: invero, la legge attribuisce rilievo solo all’«esito riparativo», tanto «ai fini di cui all’articolo 133 del codice penale» (cfr. art. 58 d.lgs. n. 150 del 2022), quanto ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 62, n. 6, cod. pen.
Da quanto indicato, allora, appare ragionevole concludere che l’ordinanza di rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa può ritenersi giuridicamente influente sull’esito del processo, e quindi impugnabile unitamente alla sentenza, nel solo caso di reati perseguibili a querela soggetta a remissione, e se la richiesta sia stata presentata dall’imputato. Solo in tale ipotesi, infatti, è prevosto che il giudice possa disporre la sospensione del processo «al fine di consentire lo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa».
Negli altri casi, invece, ritenere che l’ordinanza di rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa possa influire, in modo giuridicamente apprezzabile, sull’esito del processo significherebbe introdurre, di fatto, un obbligo di sospensione del processo penale non previsto dall’art. 129-bis cod. proc. pen. dal d.lgs. n. 150 del 2022 o da altre specifiche disposizioni di legge, e in contrasto con il principio generale della eccezionalità dei casi di sospensione del processo, fissato, in particolare, dall’art. 50, comma 3, cod. proc. pen.
2.2.3. Le conclusioni indicate non escludono per gli interessati la possibilità di chiedere nuovamente al giudice, dopo un provvedimento di rigetto, l’invio al Centro per la giustizia riparativa per l’avvio di un pertinente programma.
In questo senso, infatti, depongono sia la forma prevista per le decisioni del giudice sulle richieste di accesso ai programmi di giustizia riparativa, quella dell’ordinanza, ossia un provvedimento generalmente revocabile, sia il riconoscimento di un’amplissima possibilità di formulare tali richieste nel corso di tutto il giudizio e persino in pendenza di ricorso per cassazione, come espressamente prevede l’art. 45-ter disp. att. cod. proc. pen.
2.3. Sulla base delle considerazioni precedentemente esposte, quindi, nella specie, l’impugnazione dell’ordinanza di diniego dell’invio dell’imputato ai programmi di giustizia riparativa è stata proposta fuori dei casi consentiti.
Il rigetto della richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa, infatti, formulata nell’unica udienza dei giudizio di appello, non era idonea ad avere alcuna incidenza giuridicamente apprezzabile sulla decisione finale della Corte di merito. La stessa, infatti, non si riferiva ad un reato perseguibile a querela soggetta a remissione e, perciò, un suo eventuale accoglimento non avrebbe comunque comportato un potere-dovere del giudice di valutare se disporre la sospensione del processo.
Si può aggiungere, per ragioni di mera completezza, che, nella vicenda in esame, la sentenza impugnata è stata pronunciata all’esito dell’udienza in cui è stata presentata la richiesta di accesso ai programmi di giustizia riparativa: ciò esclude in radice, qualunque effettiva possibilità che il giudice, anche accogliendo la richiesta, potesse riuscire ad avere a disposizione gli esiti del programma di giustizia riparativa, salvo rinvii del processo non previsti dalla legge.
3. Manifestamente infondate sono le censure formulate nel secondo motivo, che contestano la mancata declaratoria di inutilizzabilità degli atti acquisiti per il tramite dell’esperto del servizio di sicurezza dell’Italia in Polonia, in quanto documenti anonimi per la mancata indicazione del nominativo di quest’ultimo.
Invero, gli atti utilizzati dalla sentenza impugnata, ed acquisiti per il tramite dell’esperto del servizio di sicurezza dell’Italia in Polonia, sono atti di polizia giudiziaria compiuti e tramessi dall’autorità straniera, quali quello relativo al controllo dell’attuale ricorrente in Polonia nel gennaio 2019, mentre circolava su di un’auto nella quale trasportava la somma di 300.000,00 euro in contanti, ovvero quello concernente la disponibilità, da parte del medesimo, di un appartamento in affitto con relativo garage, e l’autovettura in questo parcheggiata.
Di conseguenza, detti atti non costituiscono documenti anonimi, a norma dell’art. 240 cod. proc. pen., perché non contengono dichiarazioni anonime, e ai fini della loro acquisizione è irrilevante l’omessa indicazione del nome dell’esperto del servizio di sicurezza dell’Italia in Polonia, in quanto soggetto del tutto estraneo alla formazione degli stessi.
Né, d’altro canto, è specificamente contestata la genuinità degli atti formati e trasmessi dall’autorità polacca, tra l’altro pacificamente acquisiti per vie ufficiali. Gli atti in questione, quindi, non risultano affetti da alcuna inutilizzabilità patologica e, siccome presenti nell’incarto processuale a disposizione del giudice, sono da ritenere liberamente valutabili dallo stesso a norma dell’art. 442, comma 1-bis, cod. proc. pen.
4. Infondate sono le censure enunciate nel terzo motivo, che contestano l’affermazione di responsabilità dell’attuale ricorrente per il reato di partecipazione ad associazione per delinquere, deducendo che i fatti valorizzati sono episodici, che il medesimo è stato assolto dalle accuse per i reati fine, e che il trasporto di denaro contanti e di documentazione commerciale, unico fatto accertato, siccome non attiene ad oggetti intrinsecamente illeciti, non può essere ritenuto indicativo della consapevolezza di partecipare ad un sodalizio criminale.
4.1. Ai fini dell’esame delle questioni sollevate con il terzo motivo, è utile richiamare i principi consolidati in giurisprudenza, e condivisi dal Collegio, in tema di configurabilità della condotta di partecipazione ad un’associazione per delinquere e di prova della stessa.
Innanzitutto, ai fini della configurabilità della condotta di cui all’art. 416, secondo comma cod. pen., occorre la prestazione, da parte dell’agente, di un effettivo contributo, che può essere di qualsiasi forma e contenuto, purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura, ovvero al rafforzamento o al perseguimento degli scopi della stessa (cfr., per tutte, Sez. 2, n. 49691 del 15/10/2004, Andreotti, Rv. 233070 – 01, e Sez. 1, n. 8064 del 24/06/1992, Alfano, Rv. 191309 – 01).
La prova della partecipazione all’associazione, poi, e coerentemente, stante l’autonomia del reato associativo rispetto ai reati “fine”, può essere data con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla commissione dei predetti, sicché non rileva, a tal fine, il fatto che l’imputato di reato associativo non sia stato condannato per i reati “fine” dell’associazione (così, tra le tantissime, Sez. 4, n. 11470 del 09/03/2021, Scarcello, Rv. 280703 – 02, e Sez. 3, n. 40749 del 05/03/2015, Sabella, Rv. 264826 – 01).
Ancora, la consapevolezza dell’associato può essere provata anche attraverso comportamenti significativi che sì concretino in una attiva e stabile partecipazione, e non richiede la esplicita manifestazione di una volontà associativa (vds., tra le altre, Sez. 2, n. 28868 del 02/07/2020, De Falco, Rv. 279589 – 01, e Sez. 3, n. 20921 del 14/03/2013, Conte, Rv. 255776 – 01).
4.2. La sentenza impugnata ha indicato in modo dettagliato sia le ragioni per le quali devono ritenersi sussistenti sia l’associazione per delinquere di riferimento, sia la condotta partecipativa, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, dell’attuale ricorrente.
4.2.1. Con riferimento all’esistenza della struttura associativa criminale di riferimento, la Corte d’appello rappresenta che la stessa era costituita da numerose persone, sicuramente superiori a dieci, è stata attiva almeno fino a luglio 2020, ed aveva la finalità di commettere una serie indeterminata di reati, in particolare, ma non esclusivamente, in materia tributaria.
Si segnala, in particolare, che il gruppo criminale provvedeva all’emissione di fatture per operazioni inesistenti in favore di diverse imprese, così da consentire alle stesse di indicare nelle dichiarazioni fiscali costi fittizi, e poi assicurava alle medesime il “rientro” in contanti delle somme da queste versate mediante bonifico a fronte della ricezione dei documenti fiscali mendaci.
Si precisa che:
a) sono state individuate almeno cinque società beneficiarie del sistema delle false fatture;
b) il meccanismo fraudolento era articolato perché le fatture verso i cinque destinatari finali erano emesse da tredici società o imprese “filtro”, le quali, ricevuti i bonifici da questi soggetti, provvedevano a “girare” gli importi a tre società “cartiere” con sede in Polonia, la “(omissis) sp.zo.o.”, la “(omissis) sp.zo.o.” e la “(omissis) sp.zo.o.”, che, a loro volta, provvedevano ad incassare in contanti le somme pervenute sui loro conti correnti e a far prevenire le liquidità in Italia;
c) il rientro del denaro in Italia avveniva attraverso tre canali, e, segnatamente, o tramite “spalloni” i quali ricevevano il denaro incassato in contante in Polonia e lo trasportavano fisicamente in Italia, o attraverso un cittadino italiano di origine indiana, il quale aveva elevate disponibilità di denaro contante anche per rapporti con connazionali all’estero, o, per importi minori, mediante prelievi di liquidità in Italia effettuati utilizzando una carta di credito rilasciata da una banca slovacca.
4.2.2. Con riguardo alla posizione dell’attuale ricorrente, la Corte d’appello espone che lo stesso ha svolto il ruolo di “spallone” e di “corriere” per conto dell’associazione dalla Polonia all’Italia di denaro e di fatture false.
A fondamento di questa conclusione, si richiamano:
a) i due controlli effettuati in Italia nei suoi confronti il 28 marzo 2020 ed il 18 luglio 2020;
b) il controllo effettuato sempre nei suoi confronti in Polonia nel gennaio 2019;
c) la disponibilità, ancora da parte del medesimo, di alloggio, garage ed autovettura in Polonia nel 2019.
Quanto al controllo effettuato la notte del 28 marzo 2020, si rappresenta che:
a) l’attuale ricorrente fu fermato dalla polizia in autostrada, nei pressi del Brennero, insieme ad altra persona, a bordo di un furgone locato alla società “(omissis) s.r.l.”;
b) all’esito della perquisizione dell’indicato veicolo, furono trovate nel vano sottostante il sedile del passeggero, cinque buste contenenti denaro contante per la somma complessiva di 487.690,00 euro, suddiviso in pacchi sigillati, nonché numerose fatture emesse dalle ditte polacche “(omissis) sp.zo.o.” e “(omissis) sp.zo.o.” in favore di otto società italiane, relative alla cessione di bancali, bibite gassate, film estensibili ed alluminio;
c) i documenti di trasporto (C.M.R.) allegati alle fatture erano timbrati e sottoscritti unicamente nello spazio riservato alle società venditrici (le due società polacche), e nello spazio relativo alla ditta incaricata del traporto (la “(omissis) sp.zo.o.”), ma non anche nello spazio riservato alla società venditrice, erano stati emessi diversi giorni prima del controllo, e non accompagnavano la merce indicata negli stessi e nelle fatture.
Quanto al controllo effettuato alle ore 11,45 del 18 luglio 2020, si segnala che:
a) l’attuale ricorrente fu fermato dalla polizia in autostrada, nei pressi della frontiera a Tarvisio, a bordo di un’autovettura intestata ad “Auto (omissis) s.r.l.”;
b) all’esito della perquisizione dell’indicato veicolo, furono rinvenute numerose fatture emesse da “(omissis) sp.zo.o.”, “(omissis) sp.zo.o.” e “(omissis) sp.zo.o.” in favore di dieci società italiane, alcune delle quali già destinatarie delle fatture trovate in occasione del controllo del 28 marzo 2020, relative alla cessione di bancali, bibite gassate, fibra ottica e materiale ferroso;
c) i documenti di trasporto (C.M.R.) allegati alle fatture erano timbrati e sottoscritti unicamente nello spazio riservato alle società venditrici (le due società polacche), e nello spazio relativo alla ditta incaricata del traporto (la “(omissis) sp.zo.o.”), ma non anche nello spazio riservato alla società venditrice, erano stati emessi diversi giorni prima del controllo, e non accompagnavano la merce indicata negli stessi e nelle fatture.
Quanto al controllo effettuato nel gennaio 2019, si espone che l’attuale ricorrente fu fermato da una pattuglia della polizia polacca a bordo di una VW Golf, e nel bagagliaio di questa fu rinvenuta la somma di 300.000,00 euro, non sequestrata per non compromettere le indagini.
Si osserva, poi, che gli accertamenti eseguiti presso la banca dati “Mint Global” hanno consentito di verificare che (omissis) (omissis) era amministratrice e socia unica di “(omissis) sp.zo.o.” e della ditta di trasporti “(omissis) sp.zo.o.”, nonché amministratrice e socia al 95 % di “(omissis) sp.zo.o.”, mentre (omissis) (omissis) era procuratrice di “(omissis) sp.zo.o.”, nonché abilitata al prelievo di denaro dal conto della società.
Si aggiunge, sulla base delle informazioni ricevute dalla polizia polacca, che:
a) l’attuale ricorrente risultava aver ricoperto cariche all’interno di due società riconducibili ad (omissis) (omissis);
b) la appena indicata (omissis) (omissis) era stata segnalata per numerosi prelievi di denaro contante in Polonia e per trasferimenti di fondi in altri Paesi mediante bonifici per un importo complessivamente pari a circa 1000.000,00 di euro;
c) l’attuale ricorrente aveva la disponibilità in Polonia di un appartamento in affitto, e nel pertinente garage, in data 6 maggio 2020, era ospitata la BMW a bordo della quale il medesimo era stato controllato a Tarvisio il 18 luglio 2020;
d) sia la Golf oggetto del controllo del gennaio 2019, sia la BMW oggetto dei controlli del 6 maggio 2020 e del 18 luglio 2020 erano intestate ad “Auto (omissis) s.r.l.”
Si rappresenta, ancora, che l’attuale ricorrente non ha mai fornito concrete indicazioni sulle ragioni del trasporto del denaro contante e della falsa documentazione fiscale.
La sentenza impugnata conclude che la responsabilità del ricorrente discende dalla reiterata disponibilità del medesimo a trasportare in Italia denaro in contante per ingentissimi importi, prelevato all’estero, nonché quantitativi elevatissimi di fatture false dirette a numerose società, senza che potessero sorgere equivoci sulla fittizietà di queste, in particolare per l’assenza sui documenti fiscali della sottoscrizione delle società acquirenti e per l’assenza della merce indicata nelle fatture e nei relativi documenti di trasporto.
Aggiunge che la conferma della stabilità dell’inserimento dell’attuale ricorrente nel sodalizio è data dalla disponibilità, da parte del medesimo, di un appartamento per i suoi soggiorni in Polonia e di più mezzi di trasporto per effettuare i viaggi dalla Polonia in Italia al fine di consegnare le fatture ed il denaro.
Rimarca, inoltre, che l’attuale ricorrente godeva di particolare fiducia negli altri sodali, in quanto riceveva materialmente in affidamento elevatissimi importi di denaro contante.
4.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi.
Invero, quanto alla sussistenza della struttura associativa di riferimento, comunque oggetto di motivazione puntuale e coerente con i principi generali in materia, non vi è alcuna specifica censura.
Quanto alla sussistenza della condotta di partecipazione dell’attuale ricorrente alla struttura associativa, la sentenza impugnata ha offerto indicazioni dettagliate, precise e congrue rispetto alle conclusioni raggiunte.
In particolare, appare utile precisare che corretta è la motivazione in ordine alla consapevolezza della falsità della documentazione fiscale sequestrata all’attuale ricorrente (clamorosa la dissociazione tra la mole dei documenti trasportati e l’assenza della merce di cui si certificava il trasporto).
E, poi, sottolineare che la reiterata attività di “spallone” per il trasporto di ingenti somme di denaro e di una elevatissima mole di documenti fiscali mendaci, nella consapevolezza della loro fittizietà, costituisce condotta integrante uno stabile e consapevole contributo destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita dell’associazione per delinquere di riferimento, nonché al rafforzamento e al perseguimento degli scopi della stessa.
5. Infondate sono le censure proposte nel quarto motivo, che contestano l’applicazione dell’aggravante del numero delle persone, deducendo che l’imputato conosceva solo un ridotto numero di possibili sodali, nettamente inferiore a dieci.
Si è evidenziato in precedenza, nei §§ 4.2, 4.2.1, 4.2.2 e 4.3, che, secondo la sentenza impugnata, e questa conclusione non è specificamente contestata nel ricorso, l’associazione per delinquere cui ha partecipato l’attuale ricorrente era composta di un ampio numero, sicuramente superiore a dieci.
Deve aggiungersi, quanto al coefficiente di imputazione soggettiva, che l’aggravante del numero delle persone di cui al quinto comma dell’art. 416 cod. pen. è un’aggravante che non richiede la consapevolezza della partecipazione di altri concorrenti nel numero sufficiente ad integrare l’aggravante stessa. In questo senso depongono sia la formulazione testuale del quinto comma dell’art. 416 cod. pen., in forza del quale «La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più», sia le conclusioni consolidate della giurisprudenza con riferimento all’aggravante comune di cui all’art. 112, primo comma, n. 1, cod. pen., enunciata in termini sostanzialmente identici («se il numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti») (cfr., tra le tante, Sez. 4, n. 27523 del 10/05/2017 Giliberto, Rv. 271126 – 01, e Sez. 1, n. 48726 del 19/05/2011, Senneraro, Rv. 252044 – 01).
Né, poi, può ritenersi che la sentenza impugnata abbia illegittimamente escluso l’ignoranza non colposa della circostanza aggravante da parte dell’attuale ricorrente, posta la reiterazione delle condotte, l’ingente quantitativo di denaro trasportato e la mole di documentazione fiscale fittizia da lui materialmente detenuta e diretta ad una pluralità di imprese.
6. Diverse da quelle consentite sono le censure svolte nel quinto motivo, che contestano il diniego delle circostanze attenuanti generiche, deducendo, in particolare, che l’imputato è persona incensurata, versa in uno stato di indigenza economica, ed è stato assolto dalle accuse per i reati fine.
Invero, la sentenza impugnata ha correttamente valorizzato, ai fini delle sue determinazioni, la gravità delle condotte e l’intensità del dolo dell’attuale ricorrente, anche in relazione alla disponibilità ad assumersi i rischi connessi al trasporto di ingentissime somme di denaro contante (cfr., per la rilevanza dell’intensità del dolo in tema diniego delle circostanze attenuanti generiche, tra le tante, Sez. 1, n. 43216 del 16/01/2018, Cremona, Rv. 274409 – 01), mentre le argomentazioni prospettate in proposito nel ricorso non evidenziano vizi logici o giuridici, ma tendono a proporre una diversa valutazione dei fatti.
7. Alla complessiva infondatezza delle censure seguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in data 07/06/2024.
Depositato in Cancelleria il 27 agosto 2024.