REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. LUCA PISTORELLI – Presidente –
Dott. RENATA SESSA – Relatrice –
Dott. LUCIANO CAVALLONE – Consigliere –
Dott. PIERANGELO CIRILLO – Consigliere –
Dott. DANIELA BIFULCO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(omissis) (omissis) nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 13/02/2024 della CORTE APPELLO di FIRENZE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa RENATA SESSA;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. PASQUALE SERRAO D’AQUINO che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso.
Letta la memoria con cui il difensore ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 13.2.2024 la Corte di Appello di Firenze ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di (omissis) (omissis), che lo aveva dichiarato colpevole del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale limitatamente alla restituzione ai soci della somma di euro 34.000,00.
2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l’imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Col primo motivo deduce l’erronea applicazione degli artt. 546, comma 1, lett. e), nn. 1 e 2, e 192, comma 1, 125, comma 3, cod, proc, pen. nonché dell’art. 533 del codice di rito, denunciando l’apparenza e comunque la contraddittorietà della motivazione in ordine alla rilevanza penale della restituzione dei versamenti ai soci e alla conseguente insussistenza oggettiva e soggettiva del reato per il quale l’imputato è stato condannato.
La Corte di appello, richiamata preliminarmente la massima dì cui all’ordinanza di Cassazione civile n. 2403/23 sulla natura dei versamenti dei soci in conto futuro aumento di capitale, applicabile ai fini penalistici, ha rilevato che nel caso di specie vada posta l’attenzione “sull’individuazione del momento in cui si possa stabilire con certezza che l’aumento di capitale non ci sarà”, laddove “la rilevanza penale della restituzione dei versamenti viene ad essere valutata in situazioni di crisi di impresa, quando cioè vi sarebbe un preciso obbligo di ricostituire il capitale sociale perso o in difetto sciogliere la società”.
Concludendo che “nella vicenda in esame, al momento in cui si verificarono i prelievi in contestazione la società era in crisi perché non era in grado di far fronte alle passività: l’aumento/ricostituzione del capitale sociale era quindi necessario ed urgente. Quindi in una situazione del genere non è certamente possibile affermare che siccome l’aumento di capitale di fatto non vi fu i versamenti dovevano e potevano essere restituiti perché altrimenti con la restituzione si sarebbe avuta (e di fatto si è avuta) una doppia lesione: dell’integrità del capitale sociale e degli interessi dei creditori”.
Questa la risposta resa nella sentenza impugnata in relazione al primo motivo dì appello, con assorbimento del secondo avente ad oggetto la riqualificazione del fatto.
Essa è del tutto carente, non avendo minimamente considerato gli elementi di prova indicati con l’atto di appello inerenti, più precisamente, alla delibera del 1° gennaio 2008, dell’allora amministratore unico (omissis), con la quale si disponeva che “l’importo di 556.492,39 relativo al codice conto riserva per versamento soci conto futuro aumento di capitale qualora non venga utilizzato per aumento di capitale possa essere restituito ai soci. Tale disposizione è riferibile sia per l’esercizio in corso che per quelli successivi”.
A ciò si aggiunga che la Corte dì appello, seppur con il richiamo all’ordinanza civile per la quale i versamenti in conto futuro aumento capitale vadano restituiti nel caso in cui l’aumento non avvenga, ha ritenuto di valutare soltanto la preliminare rilevanza penale della restituzione avvenuta nel momento in cui vi sarebbe (stato) un preciso obbligo ex lege di ricostituzione del capitale sociale a fronte di una ritenuta crisi d’impresa; laddove, in relazione al lasso temporale in questione – 4 giugno 2009-30 settembre 2009 – il curatore e il consulente della difesa avevano fatto riferimento non ad uno stato di insolvenza ai fini della legge fallimentare ma, sostanzialmente, ad una generica crisi di liquidità.
Si argomenta, asserendo che, come noto, il reato in argomento si riferisce ai versamenti in conto futuro aumento di capitale qualora l’apporto sia messo a disposizione della società prima della delibera di aumento del capitale, con l’intento di anticipare alla società la provvista destinata alla sottoscrizione del relativo ammontare, a liberazione delle future emittende partecipazioni.
I versamenti in conto futuro aumento di capitale sono considerati dei conferimenti potenziali che diventano effettivi solo nel momenti in cui vanno ad incardinarsi nel capitale sociale assumendo l’esclusiva destinazione di scopo sottesa al perseguimento dell’oggetto sociale: vengono iscritti nel passivo dello stato patrimoniale come “altre riserve distintamente indicate”, sono vincolati, potendo essere utilizzati esclusivamente per la liberazione della parte di aumento di capitale a pagamento riservato ai soci che li hanno eseguiti a cui sono subordinati.
Conseguentemente se l’aumento di capitale non è ancora stato deliberato ed è quindi futuro le erogazioni fatte alla società non possono imputarsi al patrimonio netto bensì devono iscriversi fra i debiti della società verso coloro che le abbiano eseguite (creditori) poiché se l’aumento di capitale non venisse più deliberato, quanto meno entro un termine ragionevolmente prossimo, oppure non potesse venire attuato a causa della sua mancata integrale sottoscrizione, questi soggetti avrebbero diritto di richiedere alla società stessa la restituzione (si cita al riguardo la pronuncia di questa Corte n. 39139/23, Rv. 285200 – 01).
Con l’atto di appello si era quindi posta l’attenzione sulla delibera societaria del precedente amministratore della fallita che aveva disposto la restituzione dei versamenti in argomento, a sostegno della legittimità dell’operato dell’imputato che si era posto sulla strada già tracciata dall’ex amministratore, avente ad oggetto la rimborsabilità di quegli importi, a significazione di una espressa iniziativa della stessa società – volta anche al fine di evitare la prescrizione del diritto al rimborso nel termine quinquennale previsto dal codice civile , essendo venuto meno il requisito della condizione dell’aumento di capitale, tenuto conto altresì del decorso di un termine ragionevolmente prolungato.
Con la precisazione che l’assunzione di tale delibera, quale atto obbligatorio, è avvenuta senza che sia stato necessario ricorrere – perché non espressamente previsto – ad una delibera dell’assemblea ordinaria e senza che la riserva legale abbia raggiunto il quinto del capitale sociale, così come, invece, differentemente, richiesto per altri differenti versamenti in conto capitale o a fondo perduto.
Tutto ciò senza considerare che il depauperamento, in relazione anche alla consistenza economica del bene, deve essere rapportato all’incidenza sugli interessi creditori rispetto ai quali, nel caso di specie, l’importo di euro 34.000 è oggettivamente irrilevante; né la condotta incriminata ha avuto incidenza specifica sulla successiva procedura concorsuale.
Si erano, infine, anche evidenziate ulteriori circostanze, parimenti non valutate dalla Corte di appello, quali l’assenza di uno stato di insolvenza, l’assenza di lettere di messa in mora, di richieste di pagamenti di creditori, la formalizzazione di una causa di risarcimento danni da parte della società fallita poi risultata vittoriosa, che rilevano ai fini della prova e delle allegazioni difensive, oltre ogni ragionevole dubbio, circa la non configurabilità e non riconoscibilità del delitto sotto l’aspetto soggettivo, non essendo ragionevolmente dimostrati quegli indici di fraudolenza sulla base di valutazione ex ante ai fini di una concreta messa in pericolo dell’integrità patrimoniale della società e della proiezione soggettiva di tale messa in pericolo.
2.2. Col secondo motivo deduce l’erronea applicazione degli artt. 546, comma 1, lett. e), nn. 1 e 2, e 192, comma 1, 125, comma 3, cod. proc. pen. nonché dell’art. 533 del codice di rito, denunciando l’apparenza e comunque la contraddittorietà della motivazione sull’ascrivibilità della condotta in capo all’imputato.
2.3. Col terzo motivo di appello, sulla base delle dichiarazioni del consulente della difesa secondo cui le operazioni in argomento registrate per cassa rappresenterebbero un mero dato contabile riconducibile ad operazioni effettuate in periodi antecedenti alla nomina del ricorrente e non registrate tempestivamente, si era contestata l’attribuibilità all’imputato delle restituzioni in favore dei soci, non essendo stata raggiunta la prova che la condotta fosse stata effettivamente posta in essere, materialmente, dallo stesso.
La Corte di appello riguardo a tale censura si limita ad osservare che “se la difesa intende affermare che tali registrazioni non siano veritiere dovrebbe dimostrare in maniera specifica in quale diversa data siano state compiute. Ciò però non è avvenuto.
Rimane il fatto che si tratta di ben sette operazioni avvenute tra giugno e tutto settembre 2009: è quindi anche irrealistico che il (omissis), amministratore dai primi di giugno 2009, non ne sapesse nulla e non ne abbia disposto l’esecuzione”; laddove la difesa, sulla base di quanto osservato dal consulente di parte, aveva piuttosto evidenziato che le movimentazioni dal giugno 2009 erano state un aggiustamento contabile e che non avevano avuto una effettiva efficacia ed erano riconducibili ad operazioni avvenute in precedenza e non registrate tempestivamente.
Aveva concluso il consulente di parte che i rimborsi dei versamenti per cui si procede “non sono avvenuti” in quanto “il conto cassa che il (omissis) ha ereditato non rappresenta realtà”; la pluralità delle operazioni veniva giustificata da esigenze di evitare la normativa antiriciclaggio.
La Corte territoriale, a fronte di una tesi alternativa ragionevolmente ed anche documentalmente dimostrabile, e comunque dimostrata, nella sua verosimiglianza e logica di comportamenti, ha ascritto all’imputato un onere probatorio ed un dovere dimostrativo (nella forma di un onere dimostrativo rafforzato) che esula dai principi di cui agli artt. 530-533 del codice di rito, basando le valutazioni del caso soltanto sul mero dato contabile in sé, anche in assenza della preventiva valutazione circa la disponibilità delle somme oggetto d’attenzione, anche queste messe in discussione dalla difesa sulla base dell’andamento anomalo della cassa nel periodo in contestazione.
3. Il ricorso è stato trattato – ai sensi dell’art. 23, comma 8, del d. I. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n.176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell’art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 11, comma 7, d. I. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla I. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 – senza l’intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso; il difensore dell’imputato ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso merita di essere rigettato.
Esso, sebbene abbia ad oggetto aspetti inammissibili nella parte in cui, attraverso i dedotti vizi dì motivazione, anche sotto il profilo del travisamento per omissione, tende piuttosto ad una rivalutazione del compendio probatorio, nell’ottica dì focalizzare l’attenzione dì questa Corte su circostanze di fatto che notoriamente sono fuori dal portato valutativo del giudizio di legittimità e che in ogni caso non possono essere introdotte in tale giudizio riportando stralci o sintesi di dichiarazioni rese nel giudizio di merito (così per le dichiarazioni del consulente della difesa), è da ritenere nel suo complesso infondato, per essere infondata, non in maniera manifesta, la questione sollevata col primo motivo relativa ai versamenti in conto di futuro aumento di capitale, che merita qualche precisazione.
È il caso di premettere, sin d’ora, relativamente al secondo motivo, che la Corte di appello – come già il Tribunale – aveva, a differenza di quanto si assume in ricorso, fornito risposta esauriente in ordine alla effettività delle restituzioni, individuate sulla base delle risultanze della movimentazione del conto corrente intestato alla società e non del solo dato contabile, e alla loro attribuibilità all’imputato (risultando di fatto superate le osservazioni del consulente della difesa, di là del non essere esse valutabili nella presente sede e dell’onere probatorio che la Corte di appello avrebbe addossato all’imputato, di cui si duole la difesa).
Sicché oggetto di disamina rimangono i suddetti versamenti, denominati ‘in conto futuro aumento di capitale’, non oggetto di effettiva contestazione sotto il profilo della loro qualificazione come tali da parte del ricorso.
D’altra parte, la pronuncia di primo grado – espressamente richiamata da quella di appello – è particolarmente precisa nell’indicare le date – tutte ricadenti nel periodo in l’imputato ricopriva il ruolo di amministratore unico – in cui sul conto corrente della società denominato “riserva per versamento futuro aumento capitale” risultano registrati movimenti in uscita aventi come causale “versamento per rimborso soci versam.C/futuro aument. capitale”.
Sicché il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
1.1. Quanto al primo motivo che contesta la natura dei versamenti in conto futuro aumento di capitale, senza porre in discussione tale qualifica contestando piuttosto le conseguenze che da essa derivano, il Collegio ritiene necessario muovere dalla distinzione tra versamenti in conto capitale, rectius in conto di futuro aumento di capitale – costituenti l’oggetto specifico dell’imputazione – e finanziamenti a titolo di mutuo e ciò al solo fine di far risaltare l’infondatezza dell’impostazione difensiva.
Secondo il consolidato insegnamento delle Sezioni civili dì questa Corte, invero, í versamenti operati dai soci in conto dì futuro aumento di capitale, pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale di rischio (non conseguendo essi ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso, ma essendo effettuati in previsione di essa) hanno tuttavia una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio, imprimendo, essa, loro la destinazione a capitale di rischio – e non di credito – sicché vanno iscritti in un’apposita riserva “in conto futuro aumento capitale”, che trova sede nel passivo dello stato patrimoniale, e non, a differenza di quanto erroneamente si sostiene in ricorso, come debiti della società, non dando essi luogo a crediti esigibili da parte del socio, potendo essere chiesti in restituzione – stante il vincolo di destinazione – solo nel caso in cui l’aumento di capitale non sia intervenuto entro il termine stabilito dalle parti o dal giudice – a cui può ricorrere il socio nel caso in cui il termine non sia stato preventivamente stabilito – e, ove non sia stato fissato alcun termine, rimane impressa sulla somma versata la sua destinazione al futuro aumento di capitale. In particolare, Sez. 1, Ordinanza n. 24093 del 08/08/2023, Rv. 668858 – 01, ha ribadito tale inquadramento, affermando che i versamenti in conto futuro aumento di capitale “sono privi della natura del mutuo, in quanto non ne è pattuito il diritto al rimborso; vanno, quindi, iscritti nei passivo dello stato patrimoniale tra le riserve, che l’assemblea può discrezionalmente utilizzare, con le ordinarie modalità, per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale (senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento).
Si legge in motivazione che l’apporto del socio produce l’acquisizione definitiva al patrimonio della società delle somme versate, da assimilare al capitale di rischio, cui vanno equiparate agli effetti sostanziali; la riserva così formata, al pari delle riserve ordinarie o facoltative per la quota eccedente la riserva legale, ha dunque di regola carattere disponibile, ma una eventuale distribuzione non costituisce un diritto soggettivo del socio […] la dazione del denaro è finalizzata a liberare il debito da sottoscrizione di un futuro aumento del capitale sociale mediante successiva rinuncia, che il socio porrà in essere dopo la deliberazione assembleare di aumento e la sua sottoscrizione.
Si è parlato di una riserva “personalizzata” o “targata”, in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che abbiano effettuato il versamento in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate (Cass. 24 luglio 2007, n. 16393; Cass. 19 marzo 1996, n. 2314).
Ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato: non a titolo di rimborso di somma data a mutuo, ma per essere venuta successivamente meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.
Recependo tale impostazione, ha di recente avuto modo di affermare Sez. 5, n. 39139 del 23/06/2023, Rv. 285200-01- attraverso percorso argomentativo, pienamente condivisibile, che, non discostandosi dall’indirizzo interpretativo già tracciato da questa Corte in tema, lo ha ulteriormente sviluppato – che in tema di reati fallimentari, integra il delitto dì bancarotta fraudolenta patrimoniale sia la restituzione ai soci dei versamenti conferiti in conto di aumento futuro di capitale, prima della scadenza del termine, pattuito o fissato dal giudice, per l’approvazione dell’aumento di capitale programmato, sia la restituzione operata, in assenza della fissazione di tale termine, nel corso della vita della società.
Ed invero, in quest’ultimo caso non nascerebbe un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, connotato dalla postergazione della sua restituzione rispetto al soddisfacimento dei creditori sociali e dalla posizione del socio quale “residual claimant” (Sez. 1, civile, n. 7919 del 20/04/2020, Rv. 657564 – 01).
In motivazione, questa Corte ha precisato che i conferimenti in conto di aumento futuro di capitale, entrando a far parte del patrimonio sociale, costituiscono, in caso di insolvenza della società, una garanzia del diritto dei creditori di essere informati sulle condizioni finanziarie della società, sicché soltanto a seguito del verificarsi della mancata adozione della delibera di aumento del capitale nel termine fissato sorge il diritto dei soci conferenti alla restituzione delle somme, mentre, qualora non sia stabilito alcun termine, le somme devono restare vincolate alla copertura dell’aumento di capitale.
Trattasi invero di somme che sono confluite nel patrimonio sociale e che devono rimanere ad esso acquisite fino a quando non si verifica il mutamento in capitale sociale in conseguenza della deliberazione del relativo aumento – che attribuisce loro definitamente la natura di capitale – ovvero non sia certo che tale mutamento non intervenga – per essere scaduto il termine fissato dalle parti o dal giudice senza che l’aumento di capitale sia intervenuto – circostanza quest’ultima che fa sorgere il diritto alla restituzione secondo la regola dell’indebito.
Sicché ove non sia fissato un termine tali somme rimangono indefinitamente assoggettate al vincolo di destinazione che la volontà negoziale ha inteso – sine che – attribuirvi. In altri termini, finché non si realizza il mancato aumento di capitale – la cui mancata verificazione è certa nel caso in cui, essendo fissato un termine, l’aumento non è intervenuto entro la sua scadenza – non sorge il diritto alla restituzione.
Sicché, dovendo essere certo che l’aumento di capitale non interverrà ai fini del sorgere del diritto alla restituzione, perché solo in tal caso e momento viene meno la causa so/vendi sottostante giustificativa del versamento, concretizzandosi l’indebito oggettivo che legittima la restituzione, non potrebbe assumere rilievo il concetto del “tempo ragionevole trascorso”, a cui si fa – peraltro genericamente – riferimento in ricorso per sopperire alla mancanza di un termine, senza neppure indicare gli elementi in base ai quali dovesse ritenersi oramai non più realizzabile l’aumento di capitale nonostante la inesistenza di un termine (termine che a rigore, ove non già stabilito dalle parti, deve essere fissato da un giudice all’uopo interpellato o dall’assemblea dei soci, organo deputato a decidere se effettuare o meno un aumento di capitale; l’aumento di capitale – come ha avuto più volte modo di precisare questa Corte sezione civile – cfr. per tutte, in motivazione, Sez. 1, n. 17467 del 17/07/2013, Rv. 627321 – 01 – è invero un atto di organizzazione interno alla società – che implica tra l’altro una modificazione statutaria – per il quale il potere è di regola riservato all’assemblea dei soci, chiamata ad esprimere la volontà della società attraverso i quorum e le maggioranze previste dalla legge o dallo statuto).
Con la conseguenza che l’amministratore non può decidere, egli, liberamente di restituire le somme versate in conto futuro aumento di capitale durante la vita della società.
Né tanto meno egli può addurre a giustificazione della restituzione – come accaduto nel caso di specie – l’esistenza di una delibera del precedente amministratore che si limita a prevedere la possibilità di restituire ai soci “l’importo di 556.492,39 relativo al codice conto riserva per versamento soci c/ futuro aumento di capitale qualora non venga utilizzato per aumento di capitale”, aggiungendo che “Male disposizione è riferibile sia per l’esercizio in corso, che per quelli successivi”.
Trattasi all’evidenza di una delibera, che, nel ribadire genericamente il diritto del socio alla restituzione della somma ove non venga deliberato l’aumento di capitale, si pone piuttosto nel solco dei principi sopra indicati, ancorando la restituzione al mancato aumento di capitale, e che lascia, comunque, indeterminato il momento della verificazione, o meno, del prospettato aumento di capitale.
Tutto ciò senza considerare che, diversamente ragionando, in linea generale, rispetto ai casi, non infrequenti nella pratica, in cui i versamenti sono qualificati come in conto di futuro aumento di capitale senza che siano ancorati ad un termine entro cui deve intervenire l’aumento stesso, ritenendoli in tale ipotesi liberamente restituibili, si rischia con l’avallare la creazione apparente di situazioni di liquidità su cui i creditori ben possono fare, incongruamente, affidamento, laddove la funzione ad essi impressa non può essere vanificata – per quanto sopra detto – in considerazione della mancata fissazione di un termine, dovendo comunque risultare con certezza che l’aumento di capitale non sia intervenuto e non interverrà o perché il termine è scaduto e nulla è stato effettuato o perché è comunque certo – alla luce delle circostanze concrete – che esso non interverrà o non potrà intervenire.
Nel caso di specie, le restituzioni sono intervenute, secondo quanto si legge nella pronuncia impugnata, che richiama la relazione del curatore ex art. 33 I. f. in atti, in una fase in cui la società non era già più in grado di soddisfare regolarmente i creditori, avendo avuto negli anni 2008-2016 – esclusi gli anni 2011 e 2012 – sempre problemi di liquidità con un indice di indebitamento molto elevato ed un indice di liquidità primaria pari a zero, con la conseguenza che la società non era in grado di far fronte alle passività.
Il ricorso d’altra parte neppure prospetta che si era deciso di non procedere ad alcun aumento di capitale, né, tanto meno, adduce circostanze utili ai fini della ricostruzione delle ragioni delle restituzioni, per di più intervenute, secondo la conforme ricostruzione svolta dai giudici di merito nelle rispettive pronunce, in una fase in cui la società non era più in grado di fronteggiare i debiti (circostanza rispetto alla quale il ricorso si limita a riferire genericamente che non risulterebbero richieste di pagamento in tal senso da parte dei creditori o lettere di messa in mora laddove l’incapacità di far fronte alle passività correnti i giudici di merito l’hanno tratta da elementi specifici indicati nella relazione del curatore).
È, infine, per altro verso, il caso di precisare che del tutto infondata è la deduzione che fa leva sulla esigenza di interrompere il termine di prescrizione erroneamente indicato in ricorso come quinquennale, laddove la prescrizione breve, prevista dall’art. 2949 c.c., riguarda solo quei diritti derivanti da relazioni fra i soggetti dell’organizzazione sociale che dipendono dal contratto sociale o da deliberazioni societarie (cfr. Sez. 1 civile, Ordinanza n. 3628 del 12/02/2021, Rv. 660722 – 01; Sez. 1, Ordinanza n. 3628 del 12/02/2021, Rv. 660722 – 01); nel caso di specie, invece, si vede nella fattispecie della ripetizione dell’indebito oggettivo che al suo verificarsi fa sorgere il diritto alla restituzione, da parte del socio, della somma versata a titolo di futuro aumento di capitale; in tale ipotesi, come in tutte quelle in cui il difetto della “causa solvendi” sopravvenga all’erogazione della somma di denaro, il diritto alla restituzione, del socio, non può sorgere nel momento in cui è avvenuto il versamento, ma solo nel momento in cui l’indebito si è concretizzato – nel caso in esame nel momento in cui è certo che l’aumento di capitale non ci sarà – sicché è da tale momento che decorre il termine decennale di prescrizione dell’azione di ripetizione (come si evince dall’orientamento costante di questa Corte Sezione civile, Sez. 6, Ordinanza n. 23603 del 09/10/2017, Rv. 646042 – 01; Sez. 3, n. 24628 del 03/12/2015, Rv. 638043 – 01; Sez. 1, n. 24653 del 02/12/2016, Rv. 642039 – 02).
1.2. Da tutto quanto sopra osservato consegue che il prelievo di somme a titolo di restituzione dì versamenti operati dai soci in conto futuro aumento di capitale che interviene in assenza di fissazione del termine entro cui deve intervenire l’aumento di capitale – senza che sia acquisita certezza in ordine al suo mancato compimento – deve, in caso di insolvenza della società, essere qualificato in termini di distrazione: nozione, questa, che la giurisprudenza di legittimità ricollega al distacco del bene dal patrimonio dell’imprenditore poi fallito (con conseguente depauperamento in danno dei creditori), che può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela (Sez. 5, n. 44891 del 09/10/2008, Quattrocchi, Rv. 241830; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 30830 del 05/06/2014, Di Febo, Rv. 260486), in una prospettiva che attribuisce alla nozione di distrazione una funzione anche “residuale”, tale da ricondurre ad essa qualsiasi fatto diverso dall’occultamento, dalla dissimulazione, etc. determinante la fuoriuscita del bene dal patrimonio del fallito che ne impedisca l’apprensione da parte degli organi del fallimento (Sez. 5, n. 8431 del 01/02/2019, Rv. 276031 – 01; Sez. 5, n. 8755 del 23/03/1988, Fabbri, Rv. 179047; conf. Sez. 5, n. 7359 del 24/05/1984, Pompeo, Rv 165673).
2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 9/10/2024
Il Consigliere estensore Il Presidente
Renata Sessa Luca Pistorelli
Depositato in Cancelleria, oggi 12 novembre 2024.