Esegue manovra di retromarcia investendo un pedone che muore. Escluso il nesso delle tracce di cannabinoidi trovate nell’urine dell’investitore (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 31 marzo 2021, n. 12157).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia – Presidente

Dott. CENCI Daniele – Consigliere

Dott. FERRANTI Donatella – Consigliere

Dott. CIAMPI Francesco Maria – Consigliere

Dott. PEZZELLA Vicenzo – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) RAFFAELE nato a (OMISSIS) il 05/02/19xx;

avverso la sentenza del 13/01/2016 del TRIBUNALE di AVELLINO;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA;

lette le conclusioni del PG e la memoria difensiva.

RITENUTO IN FATTO

1. Con decreto del 17/4/2013 il G.I.P. di Avellino disponeva il rinvio a giudizio di (OMISSIS) Raffaele dinanzi al Tribunale di Avellino, in composizione monocratica per rispondere dei reati di cui:

A) Art. 589 comma 1, 2 e 3 c.p. perché, alla guida dell’autovettura Ford KA tg. B(OMISSIS)T, violando regole di comune prudenza, diligenza, perizia nonché norme disciplinanti la circolazione stradale (artt. 154 e 187 C.d.S.) cagionava la morte di (OMISSIS) Raffaele.

In particolare, ponendosi alla guida della suindicata auto in stato di alterazione psico-fisica per assunzione di cannabinoidi, ed eseguendo manovra di retromarcia senza assicurarsi della presenza di altri utenti della strada, investiva l’anziano pedone, il quale dopo aver impattato contro la parte posteriore dell’auto, perdeva l’equilibrio e cadeva al suolo battendo violentemente con la regione occipitale del capo.

Trasportato presso I ‘A. O. Moscati decedeva di lì a poche ore per arresto cardio-respiratorio quale momento terminale di un coma irreversibile conseguente a trauma cranico fratturativo. In Monte falcione il 1/7/2011.

B) Art. 187 C.d.S. per aver guidato l’auto Ford KA in stato di alterazione per effetto dell’uso di sostanza stupefacente accertato con esami di laboratorio che riscontrava nelle urine la presenza di cannabinoidi. In Montefalcione il 1/7/2011.

Con sentenza del 13/1/2016, il Tribunale di Avellino condannava (OMISSIS) Raffaele alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di cui al capo A) dell’imputazione, esclusa la circostanza aggravante di cui al comma 3 dell’articolo 589 c.p., riconosciute le attenuanti generiche nonché quella di cui all’articolo 62 n. 6 c.p. in misura prevalente sull’aggravante di cui al comma 2 dell’articolo 589 c.p.

Il predetto era poi assolto dal reato di cui al capo B) perché il fatto non sussiste e il giudice disponeva la sospensione della patente di guida per la durata di anni uno e mesi otto e l’immediata restituzione dell’autovettura sequestro.

La sentenza ricostruiva i fatti chiarendo che il giovane, alla guida della sua autovettura, provocava la morte di (OMISSIS) Raffaele in quanto eseguiva la manovra di retromarcia senza assicurarsi della presenza di costui, anziano pedone che, dopo aver sbattuto contro la parte posteriore dell’auto, perdeva l’equilibrio e cadeva al suolo battendo violentemente la testa. Il trauma subito cagionava dapprima il coma irreversibile e poi la morte del predetto.

I fatti venivano ritenuti adeguatamente provati in base alle prove assunte in dibattimento e in particolar modo grazie alle deposizioni dei testimoni ascoltati (i consulenti dell’accusa e della difesa, il maresciallo Ucciardiello dei Carabinieri locali, il teste oculare (OMISSIS) e la madre dell’imputato, il quale inoltre si sottoponeva ad esame) e di quanto dichiarato dalla stessa vittima ai medici dell’ospedale dove era stata trasportata subito dopo i fatti (egli aveva riferito di essere stato vittima di un investimento) e riscontrato dall’annotazione contenuta nella cartella clinica acquisita.

Lo stesso imputato del resto, pur avendo negato l’investimento, aveva dichiarato di avere visto il (OMISSIS) appoggiarsi con le mani sotto al lunotto posteriore della sua autovettura e tentare di richiamare la sua attenzione nel corso della manovra di retromarcia che lui stava effettuando.

Quanto al reato di cui al capo B) il giudice non lo riteneva provato sul rilievo le tracce di cannabinoidi nelle urine possono documentare un uso dello stupefacente anche risalente ad alcune settimane prima dell’esame, per cui non poteva affermarsi con certezza che il ragazzo fosse sotto l’effetto di stupefacenti nel momento in cui si era posto alla guida della macchina che aveva travolto la vittima.

Il giudice precisava poi che le parti civili costituite avevano abbandonato il processo dichiarando di essere state integralmente risarcite dall’assicurazione.

2. Ebbene, fondamentale ai fini dell’odierno decidere è che il primo giudice – aderendo ad una precisa richiesta del difensore – aveva ritenuto immotivato il dissenso del pubblico ministero rispetto alla proposta di applicazione di pena ex articolo 444 cod. proc. pen. atteso che la pena come indicata veniva ritenuta congrua e correttamente determinata.

Pertanto, ai sensi dell’articolo 448 cod. proc. pen., il (OMISSIS) veniva condannato alla pena proposta in quella sede della difesa: mesi otto di reclusione, con il ricordato beneficio della sospensione condizionale della pena.

Avverso tale pronuncia in data 23/2/2016 aveva interposto appello la difesa, articolando cinque motivi di gravame.

Con un primo motivo aveva lamentato la nullità della sentenza per nullità dell’ordinanza con la quale il primo giudice aveva rigettato l’eccezione difensiva volta a ottenere il regresso degli atti al P.M. in forza della nullità del decreto di citazione in giudizio a causa della pretesa genericità e incompletezza del capo di imputazione.

Con un secondo motivo aveva chiesto l’assoluzione del proprio assistito perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso a causa della mancanza e della contraddittorietà delle prove acquisite.

Con un terzo motivo aveva chiesto l’assoluzione dal reato ascritto perché vi sarebbe una motivazione apparente, contraddittoria, incerta e non conforme alla logica e delle massime cli esperienza.

Con un quarto motivo aveva insistito per l’esclusione dell’aggravante di cui all’articolo 589 comma 2 cod. pen. in quanto l’imputato avrebbe violato alcuna regola stradale, né alcuna regola di prudenza, diligenza o perizia.

Con un quinto motivo, in via subordinata infine, in linea subordinata, aveva chiesto l’applicazione di una pena più mite rispetto a quella inflitta in primo grado.

In data 6/5/2019 il difensore depositava motivi aggiunti chiedendo la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale al fine di nominare un perito che ricostruisse l’esatta dinamica dell’incidente stradale, nonché la rideterminazione della pena accessoria inflitta della sospensione della patente di guida in misura più ridotta rispetto a quanto stabilito dalla sentenza di primo grado.

La difesa chiedeva, infine, di tenere conto della sospensione della patente di guida disposta nei riguardi del (OMISSIS) dal Prefetto, scomputando il relativo periodo da quello oggetto della presente sentenza.

All’udienza di trattazione in appello il difensore, ancora, rappresentava che il primo giudice non aveva recepito l’accordo delle parti in ordine alla sospensione della patente di guida, con conseguente ammissibilità dell’impugnazione anche ai sensi dell’art. 222 c.d.s.

Chiedeva, inoltre, la conversione dell’appello in ricorso per cassazione anche perché la pena sarebbe illegale in ordine alla sanzione accessoria prevista dal Codice della Strada.

Tanto premesso, la Corte napoletana, con ordinanza del 15/11/2019, riteneva che l’appello fosse inammissibile ai sensi dell’articolo 448 co. 2 cod. proc. pen. e lo convertiva in ricorso per cassazione.

I giudici partenopei ritenevano, in virtù di un generale principio di favor impugnationis, che la richiesta di conversione dell’appello in ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 568 comma 5 cod. proc. pen., andasse accolta essendo l’appello non ammissibile avverso la sentenza impugnata e avendo il difensore dedotto questioni astrattamente rientranti nell’alveo del sindacato di legittimità spettante a questa Suprema Corte, con particolare riferimento in primo luogo alla dedotta nullità della sentenza per l’indebito rigetto della questione concernente la pretesa genericità del capo d’imputazione cristallizzato nel decreto di citazione a giudizio, nonché all’asserito carattere meramente apparente della motivazione della sentenza di primo grado.

3. In data 10.3.2020 ha rassegnato le proprie conclusioni scritte il P.G. presso questa Suprema Corte chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.

4. In data 24/2/2021 il difensore ha depositato un’articolata memoria contenente sette motivi nuovi di ricorso deducendo:

a. Violazione di legge e vizio motivazionale per non avere il giudice monocratico di Avellino tenuto conto di una prova decisiva ed evidente che avrebbe portato ad un grado di chiarezza tale da escludere la responsabilità del ricorrente.

b. Violazione dell’art. 429 lett. e) e n. 2 cod. proc. pen. e vizio motivazionale per omessa motivazione sulla richiesta di nullità del decreto che dispone il giudizio per indeterminatezza.

c. Violazione degli artt. 192, commi 1, 2, 3 cod. proc. pen., 533 e 546, lett. E), cod. proc. pen. e vizio motivazionale per travisamento della prova per avere il giudice monocratico di Avellino, ritenuto di poter emettere una sentenza affermativa della pena le responsabilità sulla scorta di elementi dubbiosi e non provati senza alcuna certezza rispetto alla commissione del reato contestato per motivare con mere ipotesi congetturali, insufficienti ed erronee, la responsabilità penale per il reato con testa to senza in nessun modo prendere in considerazioni gli elementi e le prove contrarie; motivazione fondata si indizi non gravi, non precisi e non concordanti.

d. Violazione degli artt. 192, commi 1, 2, 3 cod. proc. pen., 533 e 546, lett. E), cod. proc. pen. e vizio motivazionale per avere il giudice irpino ritenuto di emettere una sentenza affermativa della penale responsabilità sulla scorta di elementi e argomenti ipotetici e non provati, per non aver valutato la prova nella sua interezza, per aver sorvolato, sottovalutato punti essenziali alla comprensione della vicenda sottoposti inutilmente dalla difesa al vaglio del giudicante e per aver fondato il proprio convincimento su un assunto rimasto indimostrato.

e. Violazione degli artt. 192, commi 1, 2, 3 cod. proc. pen., 533 e 546, lett. E), cod. proc. pen. e vizio motivazionale in relazione al c.d. “principio di affidamento”.

f. Violazione degli artt. 192 cod. proc. pen., art. 589 c. 2 cod. proc. pen. e omessa motivazione circa l’esclusione dell’aggravante.

g. Violazione dell’art. 65 RD 12/41 in relazione agli artt. 125 co. 3, 444 e ss., 546, lett. e) cod. proc. pen., art. 222 co. 2-bis c.d.s. per avere il giudice monocratico di Avellino in contrasto a quanto statuito dalla legge non operato la diminuzione ex art. 222 c. 2 bis c.d.s della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente condannando ai sensi degli art. 444 e ss. del cod. proc. pen., genericamente riferendosi all’art. 222 c.d.s. non operava il calcolo con le specificazioni delle variazioni e diminuzioni che era obbligato ad applicare essendosi limitato a un generico richiamo all’art. 222 c.d.s, senza indicare il calcolo della sanzione amministrativa accessoria.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Ed invero, va chiaramente delineato, come fatto dalla Corte napoletana, il perimetro dell’odierno decidere.

Come ricordato in premessa, il giudice irpino ha ritenuto ingiustificato il dissenso del pubblico ministero rispetto alla richiesta di applicazione di pena ex articolo 444 cod. proc. pen. e conseguentemente ha applicato all’imputato la pena nella misura richiesta dallo stesso.

Siamo di fronte, pertanto, a tutti gli effetti, come ha correttamente ritenuto la Corte territoriale, ad un ricorso per cassazione avverso una sentenza di patteggiamento.

In proposito le Sezioni Unite di questa Corte di legittimità, da oltre quindici anni, hanno chiarito, una volta per tutte, con la sentenza n. 36084 del 24/6/2005, Fragomeli, Rv. 231806, che la sentenza di “patteggiamento” è inappellabile, alla stregua del citato articolo 448, comma 2, cod. proc. pen., anche se è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento di primo grado quando il giudice ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero o il rigetto della richiesta e fermo restando, in caso di dissenso, il potere del pubblico ministero di proporre appello.

Ciò in quanto tutte le sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti hanno la stessa natura e, salve particolari disposizioni normative, esplicano i medesimi effetti.

E perché -va qui ribadito- una diversa interpretazione si risolverebbe nell’attribuzione ingiustificata ed illogica all’imputato di un ulteriore beneficio, oltre a quelli premiali derivanti dalla scelta del rito, in quanto gli sarebbe consentito di contestare nelle forme ordinarie una sentenza conforme alle sue richieste e pronunciata proprio sul presupposto della rinuncia alla celebrazione del giudizio nelle forme ordinarie (cfr. Sez. 5, n. 34843 del 9/7/2001, Basso, Rv. 220234).

Di recente, peraltro, questa Corte ha anche chiarito essere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 448, cod. proc. pen„ nella parte in cui non consente all’imputato di appellare la sentenza dibattimentale che accoglie la richiesta di applicazione della pena ritenendo ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, in quanto tale limitazione non si pone in contrasto né con l’art. 24 Cost., non essendo costituzionalmente garantito il doppio grado di giudizio, né con l’art. 3 Cost., atteso che l’inappellabilità condivide la medesima “ratio” con l’identica limitazione prevista per la sentenza di patteggiamento emessa prima del giudizio, in entrambe le situazioni essendovi implicita rinuncia alla presunzione di non colpevolezza in cambio di un trattamento sanzionatorio premiale, né, infine, con l’art. 111 Cost., essendo coerente con i principi del processo accusatorio e, in particolare, con quello della ragionevole durata del processo (Sez. 5, n. 3235 del 22/11/2019 dep. 2020, Leardi, Rv. 278150).

Trattandosi di sentenza emessa il 13/1/2016 e di appello -poi convertito in ricorso dinanzi a questa Corte- del 23/2/2016, troverà applicazione il più favorevole regime di impugnabilità previsto dall’art. 448 co. 2 cod. proc. pen. anteriormente alla riforma di tale norma operata con l’art. 1, co. 5, della I. 23/6/2017, n. 103, in vigore dal 3/8/2017.

3. Tuttavia, sempre a delineare il thema decidendi, va rilevato che, conformemente ai principi che regolano da sempre le impugnazioni, le censure cui è chiamata a rispondere questa Corte di legittimità sono esclusivamente quelle contenute nel già richiamato atto a firma dell’avv. Carmine (OMISSIS) del 23/2/2016.

Non si potrà, in altri termini, tenere conto delle censure nuove introdotte con le memorie del 6/5/2019 e del 24/2/2021, in particolare di quelle che coinvolgono il decisum del tribunale irpino sulla sospensione della patente di guida.

Peraltro, pur rilevandone l’inammissibilità, già la Corte partenopea aveva evidenziato, in ordine agli stessi, in primis, la circostanza, emergente dal relativo verbale di udienza, che “la misura della citata pena accessoria non è rientrata (né, invero, avrebbe potuto secondo l’orientamento della Suprema Corte sul punto) nella proposta di accordo avanzata dal difensore, diversamente da quanto rappresentato dal medesimo in udienza”.

Ciò -va detto- è assolutamente corretto, in quanto questa Corte di legittimità, ha, infatti, da tempo chiarito che, con la sentenza applicativa di pena concordata dalle parti resa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. il giudice deve applicare le sanzioni amministrative accessorie previste dalla legge come conseguenza del reato (Sez. Un. n. 8488 del 27/5/1998, Bosio, Rv. 210981), anche se non oggetto di accordo tra le parti (Sez. 2, n. 49461 del 26/11/2013, Cargnello, Rv. 257871).

L’applicabilità con la sentenza di patteggiamento della sanzione amministrativa accessoria nei casi previsti dall’art. 222 D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285, deriva dal fatto la stessa non richiede un giudizio di responsabilità penale, ma consegue di diritto alla sentenza in questione, indipendentemente dalla circostanza che le parti vi abbiano fatto riferimento nell’accordo (cfr. Sez. 4, n. 36868 del 14/3/2007, Francavilla, Rv. 237231 che ha annullato con rinvio una sentenza di patteggiamento per il reato di omicidio colposo da incidente stradale con la quale il giudice aveva omesso di applicare la sanzione amministrativa accessoria).

Il giudice è tenuto, dunque, ad applicare la sanzione amministrativa accessoria, rientrando nel suo potere discrezionale determinare la durata della detta sanzione, con il solo vincolo del rispetto dei limiti, minimo e massimo, fissati dal legislatore, a prescindere dall’entità della pena concordata dalle parti per il reato (cfr. ex multis sez. 4, n. 2207 del 23.9.1997, Del Prete, Rv. 208778).

Questa Corte di legittimità ha anche chiarito da tempo -e va qui ribadito- che, in tema di patteggiamento, l’eventuale clausola con cui le parti concordino la durata delle sanzioni amministrative accessorie (ed evidentemente anche la loro non applicazione) debba ritenersi come non apposta, non essendo l’applicazione di dette sanzioni nella loro disponibilità (cfr ex multis, Sez. 4, n. 39075 del 26/2/2016, Favia, Rv. 267978 che, in applicazione del suddetto principio, ha ritenuto immune da vizi la sentenza di applicazione della pena che aveva fissato una durata della sanzione della revoca della patente di guida in modo difforme rispetto alle indicazioni contenute nell’accordo delle parti; conf. Sez. 4, n. 18538 del 10/1/2014, Rustemi, Rv. 259209, che ha rigettato il ricorso avverso una sentenza di patteggiamento con la quale il giudice di merito, disponendo la revoca della patente, non aveva tenuto conto della pattuizione delle parti in ordine alla sola sospensione del titolo di guida; Sez. 4, n. 8022 del 28/1/2014, Giannella, Rv. 258622).

Già dai giudici di appello veniva poi rilevato che, ai sensi dell’art. 222 c.d.s., in caso di omicidio colposo collegato a violazione della normativa sulla circolazione stradale è possibile disporre la sospensione della patente di guida fino a un massimo di quattro anni (non è previsto un minimo; come, ai sensi del comma 2 bis della medesima norma la sanzione amministrativa della sospensione della patente fino a quattro anni è diminuita fino a un terzo in caso di applicazione di pena su richiesta delle parti; e come, nel caso di specie, il primo giudice avesse applicato tale pena accessoria in misura di molto inferiore al massimo edittale, pari in questo caso ai due terzi di quattro anni, di talché non si ravvisa né l’ipotesi di una pena illegale, né quella di un indebito superamento dell’entità della pena accessoria in ipotesi concordata con il P.M. ex art. 444 cod. proc. pen.

In ogni caso, come si diceva, tale motivo non era scrutinabile né dalla Corte territoriale e nemmeno lo è da parte di questo giudice di legittimità, essendo stato introdotto ex novo successivamente alla proposta impugnazione.

4. Ritiene questa Corte, sul punto, che vada ribadito il principio che i “motivi nuovi” a sostegno dell’impugnazione, previsti tanto nella disposizione di ordine generale contenuta nell’art. 585, quarto comma, cod. proc. pen., quanto nelle norme concernenti il ricorso per cassazione in materia cautelare (art. 311, quarto comma, cod. proc. pen.) ed il procedimento in camera di consiglio nel giudizio di legittimità (art. 611, primo comma, cod. proc. pen.), devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581, lett. a), cod. proc. pen (cfr. in tal senso Sez. Un.N. 4683 del 25/2/1998, Bono ed altri, Rv. 210259; conf. Sez. 5, n. 1070 del 14/12/1999 dep. 2000, Tonduti ed altri, Rv. 215669; Sez. 5, n. 1212 del 27/11/2001 dep. 2002, Palma e altro, Rv. 221005; Sez. 5, n. 18469 del 4/4/2002, Santorsola, Rv. 221380; Sez. 2, n. 45739 del 4/11/2003, Marzullo, Rv. 226976; Sez. 1, n. 46950 del 2/11/2004, Sivic, Rv. 230281).

E’ stato condivisibilmente precisato che deve ritenersi inammissibile un motivo nuovo di ricorso, presentato ai sensi dell’art. 585, comma quarto, cod. proc. pen. avente ad oggetto un punto della decisione non investito dall’atto di ricorso originario, operando la preclusione prevista dall’art. 167 disp. att. e trans. anche se la deduzione riguarda l’inutilizzabilità prevista dall’art. 191, comma secondo, cod. proc. pen., occorrendo pur sempre che l’eccezione venga proposta con l’atto di ricorso principale (così Sez. 1, n. 33662 del 9/5/2005, Ballacchino ed altri, Rv. 232406, fattispecie relativa alla inutilizzabilità del risultato delle intercettazioni de- dotta solo come motivo nuovo; conf. Sez. 5, n. 45725 del 22/9/2005, Capac- chione, Rv. 233210).

I motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto, dunque, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame, ai sensi dell’art. 581, comma primo, lett. a), cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 27325 del 20/5/2008, D’Antino, Rv. 240367, fattispecie in cui nel ricorso per cassazione si deduceva la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, mentre il nuovo motivo si sostanziava nella lamentata carenza di dolo in ordine al reato oggetto dell’imputazione; conf. Sez. 6, n. 73 del 21/9/2011 dep. 2012, Aguì, Rv. 251780).

Più recentemente è stato poi articolatamente precisato che, in tema di termini per l’impugnazione, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali dei quali i motivi ulteriori devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti; ne consegue che sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali, a fondamento del petitum dei motivi principali, si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto petitum, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione (Sez. 2, n. 1417 dell’11/10/2012 dep. 2013, Platamone ed altro, Rv. 254301).

I motivi “nuovi” presentati a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, solo i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati già enunciati nei motivi originariamente proposti a norma dell’art. 581, comma primo, lett. a), cod. proc. pen. (così Sez. 3, n. 18293 del 20.11.2013, nella cui motivazione, la Corte ha evidenziato che l’ammissibilità di censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione determinerebbe una irragionevole estensione dei tempi di definizione del processo oltre che lo scardinamento del sistema dei termini per impugnare; Sez. 5, n. 4184 del 20/11/2014 dep. 2015, Giannetti, Rv. 262180).

In materia di termini per l’impugnazione, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi – va ribadito – trova il limite del necessario riferimento ai motivi principali dei quali, i motivi aggiunti, devono rappresentare soltanto uno sviluppo o una migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate ma sempre collegabili ai capi e ai punti già dedotti. Sono pertanto ammissibili motivi nuovi con i quali, a fondamento del “petitum” dei motivi principali, si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori (Sez. 1, n. 46950 del 2/11/2004, Sisic, Rv. 230281).

Non potendo essere ammessa l’introduzione di censure nuove in deroga ai termini tassativi entro i quali il ricorso va presentato, i motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono, pertanto, avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di impugnazione a norma dell’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. a) (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261551; Sez. 2 n. 1417 dell’11/10/2012, dep. 2013, Platamone, Rv. 254301).

5. Chiarito che non era possibile allargare – come volevano le memorie del 6/5/2019 e del 24/2/2021 – l’ambito dell’originario petitum del 23/2/2016, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione, vanno dunque analizzati i cinque motivi contenuti nell’atto originario.

Ebbene, detto che vanno a censurare quella che a tutti gli effetti è una sentenza di patteggiamento, va rilevato che sono tutti motivi inammissibili.

Quanto al primo, anche prima della novella introdotta con la ricordata I. 103.2017, costituiva ius receptum di questa Corte il principio secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione proposto nei confronti della sentenza di patteggiamento e diretto a far valere asseriti vizi afferenti a questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento formulata per il fatto contestato e per la relativa qualificazione giuridica risultante dalla contestazione, poiché l’accusa, come giuridicamente formulata, non può essere rimessa in discussione, in quanto l’applicazione concordata della pena presuppone la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato (cfr, ex multis, Sez. 5, n. 21287 del 25/03/2010; Legari, Rv. 247539; conf. Sez. 2, n. 5240 del 14/1/20019, non mass.; Sez. 2 n. 6383 del 29/1/2008, De Blasio, Rv. 239449).

Questa Corte di legittimità ha anche precisato che, in tema di patteggiamento, addirittura l’omessa notifica all’imputato del decreto di fissazione dell’udienza camerale per la definizione del procedimento con il rito alternativo non determina alcuna nullità della sentenza ove il difensore munito di procura speciale sia regolarmente comparso e si sia avvalso del potere rappresentativo attribuitogli (Sez. 4, n. 38111 del 4/2/2014, Ajazi, Rv. 260119).

Pertanto, quand’anche si fossero verificate, le dedotte nullità dovrebbero ritenersi superate dall’accordo intervenuto tra le parti, che comporta l’accettazione della ritualità degli atti fino a quel momento compiuti.

Le altre doglianze attinenti alla responsabilità e alla pena erano inammissibili anche prima della novella dell’art. 448 co. 2 cod. proc. pen.

Il giudice, nell’applicare la pena concordata, ha ratificato l’accordo intervenuto tra le parti, escludendo motivatamente, sulla base degli atti, che ricorressero i presupposti di cui all’art. 129 cod. proc. pen. per il proscioglimento dell’odierno ricorrente.

La pur sintetica motivazione, avuto riguardo alla (consapevole e volontaria) rinunzia alla contestazione delle prove dei fatti costituenti oggetto di imputazione implicita nella domanda di patteggiamento, nonché alla speciale natura dell’accertamento devoluto al giudice del merito in sede di applicazione della pena su richiesta delle parti che ne consegue, appare pienamente adeguata ai parametri indicati per tale genere di decisioni dalla ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità (cfr., tra le altre, Sez. un., n. 5777 del 27 marzo 1992, Di Benedetto, rv. 191135; Sez. un., n. 10372 del 27 settembre 1995, Serafino, rv. 202270; sez. un., n. 20 del 27 ottobre 1999, Fraccari, rv. 214637).

Nel provvedimento impugnato è stato, inoltre, motivatamente dato atto della correttezza della proposta qualificazione giuridica dei fatti contestati e della congruità del trattamento sanzionatorio dalle stesse parti proposto.

6. Ebbene, va ricordato che, in tema di patteggiamento, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza deve essere limitata ai casi di errore manifesto, ossia ai casi in cui sussiste l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità (Sez. 3, n. 34902 del 24/6/2015, Brughitta ed altro, Rv. 264153 in un caso in cui la Corte ha escluso la dedotta violazione di legge nella qualificazione del fatto di cui alla sentenza impugnata in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990, a fronte della detenzione da parte dei due imputati rispettivamente di kg. 110 e 45 lordi di hashish; conf. Sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012 dep. il 2013, Bisignani, Rv. 254865; Sez. 4, n. 10692 dell’ 11/3/2010, Hernandez, Rv. 246394; Sez. 6, n. 45688 del 20/11/2008, Ba- stea, Rv. 241666).

E margini di opinabilità richiede la valutazione circa la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’imputazione che le parti hanno considerato sussistente nella loro richiesta e che il giudice del patteggiamento, a differenza di quello del giudizio ordinario, può ritenerla insussistente solo ove tale circostanza risulti ictu oculi.

E così evidentemente non è, dovendosi peraltro ricordare che questa Corte di legittimità ha costantemente affermato che, in tema di furto, la circostanza aggravante della esposizione alla pubblica fede è configurabile anche quando la cosa si trova in luogo privato, ma aperto al pubblico o comunque facilmente accessibile, ovvero in un cortile di casa di abitazione in diretta comunicazione con una pubblica via ovvero in parcheggio privato non custodito (vedasi la recente Sez. 4, n. 55227 del 7/12/2016, Giusto, Rv. 268626, ma anche le più risalenti Sez. 2, n. 8798 del 17/1/1991, Crisafulli, Rv. 188119; Sez. 2, n. 633 del 30/3/1988 dep. il 1989, Meneghino, Rv. 180219).

7. La possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza, in altri termini, è limitata ai casi in cui tale qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione, dovendo in particolare escludersi l’ammissibilità dell’impugnazione che richiami, quale necessario passaggio logico del motivo di ricorso, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza dalla contestazione (cfr. Sez. 7, Ord. n. 39600 del 10/9/2015, Casarin, Rv. 264766).

In particolare, non sono consentite impugnazioni -come nel caso che ci occupa- generiche o che richiamino, come passaggio logico indispensabile della deduzione, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza, quindi senza alcuna possibilità e tantomeno necessità di interpretazione o integrazione, dalla contestazione.

Pertanto ogni argomentazione pur in diritto che non deduca la palese eccentricità della qualificazione giuridica che è stata proposta al giudice e da questi condivisa, e richieda, per il proprio esame, una premessa in fatto che non risulti con la evidenziata necessaria peculiare immediatezza dal capo di imputazione, è comunque del tutto preclusa.

8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore delle Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma il 18 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.