I colleghi timbrano (con il suo badge) al posto suo: licenziata (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Sentenza 4 novembre 2022, n. 32611).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. CAVALLARI Dario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9554-2017 proposto da:

(OMISSIS) Rosalia, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA (OMISSIS) (OMISSIS) 82, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA (OMISSIS), rappresentate e difese dall’avvocato GIOVANNI CARLO (OMISSIS);

-ricorrente-

contro

COMUNE DI (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (OMISSIS) (OMISSIS) 26, presso lo studio dell’avvocato PIERO (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;

-controricorrente-

avverso la sentenza n. 1366/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 21/09/2019 R.G.N. 1792/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/09/2022 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Palermo ha rigettato il reclamo proposto da (OMISSIS), nelle forme di cui all’art. 1, co. 58 ss. Legge 92/2012, avverso la sentenza del Tribunale di Termini Imerese che a propria volta aveva disatteso l’impugnazione del provvedimento disciplinare di licenziamento irrogato dal Comune di (OMISSIS), per falsa attestazione della presenza in servizio.

Per quanto qui ancora interessa, la Corte territoriale valorizzava quanto emerso dall’ordinanza del giudice per le indagini preliminari (di seguito, GIP) che aveva disposto misura cautelare nei riguardi della (OMISSIS) e ciò in particolare con riferimento alle video riprese, ai pedinamenti da parte della polizia giudiziaria ed ai dati relativi ai badge di cui in essa si dava atto.

La Corte di merito rilevava quindi come emergessero vari eventi di timbratura in entrata ed in uscita da parte di altri colleghi, che utilizzavano il badge che la ricorrente lasciava sull’apparecchio rilevatore, entrando ed uscendo in orari diversi da quelli per lei così fatti risultare, ritenendo che le giustificazioni rese dalla ricorrente per una delle varie giornate cui si riferiva la contestazione fossero irrilevanti e non scalfissero la grave illiceità del comportamento tenuto, tanto più considerando anche altri episodi in cui era stata la stessa (OMISSIS) a prestarsi per attestare falsamente con il badge altrui l’entrata o l’uscita di un collega.

L’intenzionalità certa e la gravità, tale da integrare fattispecie penalmente rilevante, erano infine ritenute dalla Corte d’Appello ragioni idonee a giustificare la congruità della sanzione.

2. Rosalia (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del Comune.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 55-ter, 55-quater e 59, co. 9, n. 2 lett. a) del d.lgs. n. 165/2001 e degli artt. 653 e 654 c.p.p., per avere la Corte d’Appello tenuto conto delle sole valutazioni di cui all’ordinanza del GIP e non delle difese svolte dalla ricorrente, fondando il proprio convincimento esclusivamente sulle risultanze di un atto formatosi in un «ultroneo giudizio penale», senza considerare che soltanto il giudicato penale, a certe condizioni, può avere efficacia nei giudizi disciplinari o comunque nei giudizi civili e non certamente un’ordinanza del GIP.

2. Il motivo è infondato;

3. La Corte territoriale non ha valorizzato l’ordinanza cautelare del GIP nei suoi effetti propri di provvedimento giudiziale, ma soltanto come documento ricognitivo di determinate risultanze istruttorie (video riprese; servizi di pedinamento; dati rilevati dai badge) su cui poi si è sviluppato il ragionamento istruttorio in questa sede civile.

Non vi è stata quindi alcuna violazione sulle norme che regolano l’efficacia nei giudizi disciplinari o civili del giudicato penale, perché non di ciò si è trattato, quanto dell’utilizzazione, nella formazione del convincimento, di quel documento come fonte di cognizione delle emergenze istruttorie quali (e come) da esso risultanti.

È del resto noto che nel processo civile vige un principio di valutabilità delle prove documentali c.d. atipiche (Cass. 10 novembre 2020, n. 25162; Cass., S.U., 23 giugno 2010, n. 15169), purché non illecite (Cass. 5 maggio 2020, n. 8459), sicché del tutto ritualmente la Corte d’Appello ha fatto leva su quegli elementi istruttori, quali da essa desunti attraverso la mediazione dell’ordinanza resa in sede penale.

Nel caso di specie è poi evidente che la Corte distrettuale ha valorizzato i predetti elementi nel loro convergere univoco verso la fondatezza dell’accertamento disciplinare, il che costituisce esercizio della formazione del convincimento di merito, trattandosi di dati plausibilmente ritenuti significativi, trattandosi di riscontri di una certa oggettività (video riprese/relazioni sui pedinamenti/dati dei badge).

3.1 Priva di decisività è anche l’insistenza, nel contesto del motivo in esame, sull’erroneo richiamo della Corte territoriale, a fondamento della decisione, dell’art. 59, co. 9, n. 2 lett. a) d., lgs. 165/2001.

Effettivamente quella norma non è mai esistita, in quanto l’art. 59, anche nella versione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 75/2017, constava di soli tre commi, nessuno dei quali articolato in lettere e numeri.

Si tratta tuttavia di errore del tutto ininfluente, avendo la Corte territoriale fatti richiamo anche all’art. 55-quater d.lgs. n. 165/2001 che prevede appunto, alla propria lettera a) il licenziamento quale conseguenza della «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente».

3.2 Del tutto generico è infine, nel corpo del motivo, il richiamo a contrarie difese della ricorrente, le quali peraltro, se destinate a suffragare una diversa valutazione dei dati istruttori di merito, sono inammissibili in sede di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148);

4. Ciò introduce al contenuto del secondo e del terzo motivo, con i quali si denuncia la nullità della sentenza impugnata per l’error in procedendo asseritamente commesso in violazione, anche per irragionevolezza e contraddittorietà, dell’art. 111 Cost. e dell’art.132 c.p.c., oltre che per evidente illegittimità ed illogicità.

Il motivo reitera le censure, già svolte con il primo mezzo, in ordine all’essersi basato il provvedimento impugnato esclusivamente su quell’ordinanza penale, trascurando la documentazione allegata e le complessive difese della ricorrente.

Tuttavia, una illogicità manifesta e quindi un vizio di esistenza della motivazione è palesemente da escludere, in quanto l’asse logico della decisione è del tutto percepibile e muove appunto dal convergere dei dati obiettivi di cui si è detto, mentre parimenti generico è il richiamo agli elementi di difesa dispiegati dalla lavoratrice.

5. Non diversamente da disattendere sono le questioni sulla proporzionalità della sanzione, già accennate nel secondo motivo e poi riprese dal terzo motivo, con cui si assume la violazione dell’art. 2697 c.c. per inversione dell’onere della prova, nonché la violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c. e 55, co. 2, d.lgs. n. 165/2001, oltre che dei principi di coerenza, correttezza e buona fede ex art. 1375 c.c. ed omessa considerazione di fatti e circostanze rilevanti ai fini del decidere con lesione dell’art. 63, co. 2, d.lgs n. 165/2001.

Infatti, quanto alla motivazione sulla proporzionalità della sanzione e sulla richiesta di conversione di essa in una misura conservativa, non è vero che la sentenza di appello non si sia pronunciata.

Essa ha infatti evidenziato l’ininfluenza della giustificazione resa dalla lavoratrice rispetto alla sola giornata del 26.5.2017, stante il reiterarsi della condotta fraudolenta in molteplici altri giorni, individuando una connotazione di «grave illiceità», tanto maggior ove poi si considerasse anche l’agevolazione data dalla ricorrente ad analoghi illeciti di propri colleghi.

Il tutto per rimarcare l’esistenza di una «certa intenzionalità» e di un carattere «tanto grave da integrare una fattispecie penalmente rilevante».

È palese, dunque, come la Corte territoriale abbia inequivocabilmente ritenuto, in un’analisi completa di dati oggettivi e di atteggiamenti soggettivi, che l’accaduto fosse di gravità massima ed implicitamente non consentisse alcuna diversa sanzione.

5.1 Non è poi vero che vi sia stata violazione dell’art. 2697 c.c., perché la Corte d’Appello non ha deciso in applicazione della regola sugli oneri probatori, ma ha ritenuto positivamente raggiunta la dimostrazione dell’illecito sulla base degli elementi da essa valorizzati, il che è cosa ben diversa.

6. Il ricorso va dunque integralmente rigettato e le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale del 21 settembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.