In tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per cause non ricollegabili alla menomazione risentita a seguito dell’illecito, l’ammontare del ristoro spetta agli eredi (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 28 febbraio 2023, n. 5970).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26402/2020 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS) elettivamente domiciliati in (OMISSIS) (OMISSIS) presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS);

-ricorrenti –

contro

(OMISSIS) (OMISSIS)

– intimato –

nonché contro

(OMISSIS) (OMISSIS), in persona del procuratore speciale Legale rappresentante, pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS) (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS) che la rappresenta e difende;

(OMISSIS) (OMISSIS), in persona del procuratore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS) (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS);

(OMISSIS) (OMISSIS), in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, domiciliata, ex lege, in (OMISSIS), rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS) (OMISSIS) e (OMISSIS) (OMISSIS);

-controricorrenti –

avverso la sentenza n. 658/2020 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 07/07/2020;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/12/2022 dal Consigliere, Dott.ssa Graziosi Chiara.

RILEVATO CHE:

Con citazione notificata il 31 luglio 2002, (OMISSIS) (OMISSIS) e (OMISSIS) (OMISSIS), in proprio e la prima anche come erede di (OMISSIS) (OMISSIS), madre di entrambi, convenivano davanti al Tribunale di (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) S.r.l. perché fosse condannata a risarcire all’erede i danni subiti dalla de cuius, nella misura di euro 1.558,332 nonché a entrambi gli attori i danni subiti iure proprio quantificati in euro 320.000 per (OMISSIS) (OMISSIS) e in euro 150.000 per (OMISSIS) (OMISSIS), quale conseguenza di colpa medica nei confronti di (OMISSIS) (OMISSIS), che era stata ricoverata alla Clinica (OMISSIS) (OMISSIS) – della quale era diventata proprietaria –  per il riposizionamento di un catetere epidurale e a seguito dell’intervento ivi effettuato il 20 dicembre 2006 aveva subito una lesione al midollo spinale, con conseguenze gravissime – inclusa la paraplegia – che le avevano poi reso impossibile compiere anche le terapie necessarie per una recidiva tumorale, in forza della quale, dimessa dalla clinica il 20 gennaio 2007 era deceduta il 30 giugno 2008.

La convenuta si costituiva, e otteneva di chiamare in causa alcuni sanitari che avevano curato (OMISSIS) (OMISSIS) (che a sua volta chiamava in causa la sua assicurazione (OMISSIS) (OMISSIS), poi (OMISSIS) di (OMISSIS)), (OMISSIS) e (OMISSIS) (OMISSIS) nonché la propria compagnia assicuratrice (OMISSIS). Tutti si costituivano tranne (OMISSIS).

Con sentenza 30 settembre 2016 il Tribunale, accertato il danno biologico patito da (OMISSIS) (OMISSIS) dichiarava la responsabilità della convenuta e del (OMISSIS) (OMISSIS) condannandoli in solido a risarcire nella misura di euro 789.304,45 i (OMISSIS) (OMISSIS) nella misura di euro 174.911,24 (OMISSIS) (OMISSIS) e condannando in solido pure le rispettive compagnia.

Proponevano distinti appelli (OMISSIS) (OMISSIS) e (OMISSIS) (OMISSIS) riunite le derivate cause ed essendosi costituiti gli appellati, la Corte d’appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza di primo grado, diminuiva l’entità della condanna, riducendo la quantificazione del danno non patrimoniale subito dalla de cuius in un totale di euro 56.458,50 e il danno da lesione del rapporto parentale per (OMISSIS) (OMISSIS) in euro 30.000 e  per (OMISSIS) (OMISSIS) in euro 18.000.

(OMISSIS) (OMISSIS) e (OMISSIS) (OMISSIS) hanno presentato ricorso, sulla base di due motivi.

Si sono difesi con rispettivo controricorso (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS) e (omissis).

Hanno depositato memoria i ricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS).

Considerato che:

1. Il primo motivo denuncia, in riferimento all’articolo 360, primo comma, nn.3 e 5 c.p.c., violazione degli articoli 1226 e 2056 c.c. e omesso esame su un fatto decisivo, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione, sulla quantificazione del danno iure hereditatis, per averlo dapprima liquidato in base alle tabelle milanesi e poi ridotto proporzionalmente al tempo di effettiva sopravvivenza di (OMISSIS) (OMISSIS)

Osservano i ricorrenti che non sussisterebbero norme specifiche sulla liquidazione del danno iure hereditatis quando il danneggiato decede anteriormente alla liquidazione stessa per una causa indipendente, e richiamano Cass. sez. 3, 23 gennaio 2014 n. 1361, per cui i criteri da seguire nella liquidazione del danno non patrimoniale dovrebbero essere adeguatezza e proporzionalità, in considerazione a tutte le circostanze concrete: e nel caso in esame sarebbe impossibile non tenere in conto la “estrema gravità degli esiti dell’evento lesivo” subito dalla de cuius, la quale “è innegabile che se non fossero avvenute le complicanze del ricovero … avrebbe potuto sopravvivere molti più anni rispetto ai 18 mesi intercorsi dall’evento lesivo alla morte”.

(OMISSIS) (OMISSIS) infatti, quando si verificò tale evento, aveva “già superato i fatidici cinque anni di sopravvivenza della pregressa neoplasia”, e sottoponendosi nel 2007 ad ulteriori cicli di chemioterapia avrebbe potuto “sopravvivere per altri anni”, come dimostrerebbe pure il fatto che, pur non avendo subito la necessaria chemioterapia in quanto paraplegica, era sopravvissuta per diciotto mesi. Pertanto, “se non è possibile affermare che la morte … è sopraggiunta direttamente per il fatto illecito che ha prodotto la paraplegia, è altrettanto possibile affermare che l’evento morte è comunque riconducibile alla patologia causata da tale illecito”.

Quindi nel caso in esame sarebbe difficile “riconoscere la conferenza di quegli orientamenti giurisprudenziali che sostituiscono la valutazione probabilistica connessa all’ipotetica durata della vita del soggetto danneggiato con quella del concreto danno effettivamente prodottosi nell’effettiva durata della vita”, quest’ultima essendo derivata da “una causa non ricollegabile in alcun modo” all’illecito. Tuttavia ciò non sarebbe “quanto avvenuto nel caso di cui trattasi”, per cui il principio adottato dalla corte territoriale “ed i relativi criteri di calcolo individuati dalle Tabelle di Milano utilizzati” sarebbero iniqui e sproporzionati in quanto “la causa di morte, e cioè le complicanze dovute alla recidiva tumorale” deriverebbero proprio dalla paraplegia, che avrebbe impedito la chemioterapia.

Pertanto l’aspettativa di vita della de cuius sarebbe stata “drasticamente diminuita” proprio dalla paraplegia, onde “il danno non doveva essere ancorato alla vita, come effettuato dalla Corte di Appello di Ancona, bensì all’aspettativa di vita, semmai ridotta per la sussistenza della malattia, come correttamente effettuato dal Giudice di prime cure”.

Avrebbe inoltre dovuto esser risarcito come autonoma voce anche il danno morale nella massima misura di un terzo del danno biologico, sempre come effettuato dal primo giudice, non essendo condivisibile la motivazione con cui il secondo esclude una ulteriore liquidazione di danno morale, essendo “del tutto evidente, nel caso de quo, la non sovrapponibilità dei pregiudizi alla persona derivanti dalla lesione dell’integrità psico – fisica, rispetto a quelli consistenti nel grave turbamento dello stato d’animo, nello sconvolgimento derivante dalla mancata assistenza sanitaria e dal vedersi dall’oggi al domani ridotta su una sedia a rotelle senza più l’uso delle gambe e con grave decadimento cognitivo, nell’angoscia di non poter curare la sopravvenuta recidiva tumorale”; per di più si trattava anche di “fatti penalmente rilevanti”.

In ogni caso la corte territoriale si sarebbe avvalsa di un ragionamento viziato anche sulla personalizzazione del danno rispetto al dato tabellare preso a base, limitandosi a dichiarare di “personalizzare con aumento fino ad euro 70.000,00 (a valori attuali) per la particolare penosità del caso connotato da notevole sofferenza aggiuntiva in paziente oncologico”, con motivazione insufficiente e in parte contraddittoria. Non si saprebbero, invero, né la percentuale di personalizzazione riconosciuta, né i principi in base ai quali il giudice d’appello ha personalizzato su tale percentuale, considerato che “una tale attività in aumento, come è chiaro dai criteri orientativi, può essere effettuata sino ad un massimo del 50% del dato tabellare”.

La motivazione, infatti, sarebbe contraddittoria perché, pur avendo riconosciuto “la particolare penosità del caso connotato da notevole sofferenza aggiuntiva in paziente oncologico”, il giudice d’appello “decideva di non dover liquidare il predetto aumento in misura più ampia di quanto effettuato e più vicina al massimo consentito”. Non vi sarebbe dunque “motivazione alcuna dell’iter logico-giuridico” che ha limitato l’aumento di personalizzazione.

Ritornando poi alla questione della “scelta di applicare un criterio ancorato alla durata della vita effettiva piuttosto che a quello dell’aspettativa di vita come effettuato dal primo giudicante”, si osserva che all’epoca “i criteri enunciati dalle tabelle di Milano nell’edizione 2018 risultavano e risultano ancora acerbi e non certamente immuni da critiche, oltre a risultare inadeguati a ristorare il danno subito dalla danneggiata, anche e soprattutto in considerazione della peculiarità del fatto … e delle sue successive implicazioni sulla vita e la morte”. Il giudice d’appello non avrebbe “maneggiato con cura” le tabelle, come invece si dovrebbe, effettuando un’applicazione “ragioneristica” e astratta, senza considerare le singole specificità del caso.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna che il giudice applicante, per la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, le tabelle milanesi deve “esplicitare, in motivazione,  se  e come  abbia  considerato  tutte  le circostanze  del caso concreto per assicurar risarcimento integrale” (da ultimo Cass. sez. novembre 2019 n. 28994), potendosi d’altronde, nel caso concreto in cui occorra per la necessaria personalizzazione, anche superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri tabellari (Cass. sez. 3, 4 febbraio 2020 n. 2461).

Inoltre non sarebbe accettabile “una disparità di trattamento (in peius) per coloro che muoiono prima della sentenza (primo grado, appello, legittimità?) rispetto a tutti coloro che invece sopravvivano alla pronuncia che liquida danno”, in tal modo divenendo “più vantaggioso procrastinare il più possibile il momento del risarcimento”.

Rievocando, infine, argomentazioni già precedentemente illustrate, l’ampio motivo si conclude con l’affermazione che il giudice d’appello non avrebbe effettuato “un ristoro integrale” del danno subito da  (omissis) e che ragionando come nella sentenza impugnata tutte le compagnie assicuratrici coltiverebbero i contenziosi per prolungarli, creandosi così un criterio di incostituzionalità ed esponendo i giudizi a condanna dalla Corte di Strasburgo riguardo alla loro durata.

2. Il secondo motivo denuncia, in riferimento all’articolo 360, primo comma, 3 e 5 c.p.c., “insufficiente e contraddittoria motivazione” per violazione e falsa applicazione degli articoli 1226 e 2056 c.c. e omesso esame di un fatto decisivo quanto alla liquidazione del danno a titolo di iure proprio.

Non sarebbero comprensibili le ragioni giustificanti l’abbandono della liquidazione effettuata dal primo giudice “giungendo a riconoscere somme che costituiscono soltanto il 10% di quanto precedentemente liquidato”. Nella motivazione della sentenza impugnata non sarebbe spiegata una tale contrazione, nonostante il giudice d’appello sia partito dagli stessi elementi di valutazione da cui partì il primo giudice, qualificando il danno “da grave lesione del rapporto parentale”, che il giudice d’appello afferma essere stato “correttamente delineato dal primo giudicante”.

Entrambe le sentenze si sarebbero basate sulle tabelle milanesi e su “elementi di valutazione” analoghi.

Per (OMISSIS) (OMISSIS) infatti, la corte territoriale avrebbe dichiarato di determinare l’ammontare del danno “in considerazione della stabile convivenza con la madre (OMISSIS) (OMISSIS) e degli oneri di assistenza sulla stessa gravanti sino alla morte della seconda”, laddove il primo giudice avrebbe valorizzato la “stabile convivenza con la madre” e la “successiva attività di assistenza fino al decesso”.

In parte ciò sarebbe avvenuto anche per (OMISSIS) (OMISSIS) per cui il primo giudice indicava come fondamento del risarcimento inferiore la sua assenza dalla “convivenza ed assistenza” alla madre, mentre il giudice d’appello aveva tenuto in conto la “grave compromissione della relazione” con lei.

Nessuna motivazione sarebbe stata dunque offerta o sarebbe comunque evincibile in relazione alla riduzione del danno iure proprio, dal primo giudice riconosciuto rispettivamente in euro 286.842,77 e in euro 174.911,24.

Le ultime tabelle milanesi qui applicabili prevedono poi un danno da perdita del genitore da risarcire a partire da euro 165.960 fino ad euro 331.920, e il Tribunale  le aveva  rispettate  pur scendendo  al di sotto  dei minimi con la somma di euro 150.000 liquidata a (OMISSIS) (OMISSIS).

La motivazione della Corte d’appello sarebbe dunque “carente e contraddittoria, perché non ha ritenuto di dover confermare la liquidazione … effettuata dal Tribunale di (OMISSIS) sia pure sulla base degli stessi elementi valorizzati”, e perché non ha spiegato per quali ragioni “ha ritenuto di poter e dover liquidare somme … al di sotto dei minimi tabellari”, senza “aver fornito elemento alcuno per giustificare” somme di euro 30.000 e 18.000, somme “chiaramente pensate a ridosso di minimi pari a zero, … in antitesi con la più volte citata gravità – ammessa anche dalla Corte di Appello di Ancona – della compromissione del rapporto parentale”, tanto più sussistendo come “cosa valorizzata da tutti i giudicanti”, l’onere di assistenza adempiuto da (omissis) (omissis)

Sarebbe d’altronde inesistente “alcun onere concreto di provare un patimento connaturato alla compromissione del rapporto parentale”, che potrebbe presumersi ex articolo 1227 c.c. Comunque tale danno dovrebbe liquidarsi equitativamente ai sensi dell’articolo 1226 c.c.

Nell’accertamento e nella quantificazione del danno si sarebbe dovuto tenere in conto sia l’aspetto interiore (danno morale) sia quello dinamico-relazionale (si invoca Cass. 23469/2018), il che, “a giudicare dalla motivazione della sentenza impugnata”, non sarebbe stato fatto; per di più la giurisprudenza di legittimità avrebbe consentito, in relazione alle circostanze connotanti il caso concreto, una personalizzazione del danno non patrimoniale non vincolata ai limiti minimi e massimi delle tabelle milanesi.

3.1. Per quanto concerne il primo motivo, deve anzitutto rilevarsi che riguardo alla connessione tra la paraplegia e la morte per cancro si adduce in effetti un elemento fattuale su cui si chiede di correggere la decisione del giudice di merito – “se non è possibile affermare che la morte … è sopraggiunta direttamente per il fatto illecito che ha prodotto la paraplegia, è altrettanto possibile affermare che l’evento morte è comunque riconducibile alla patologia causata da tale illecito” -: in parte qua, dunque, si persegue inammissibilmente un terzo grado di merito.

E’ altresì di evidente sostanza direttamente fattuale l’ulteriore censura relativa alla sussistenza di ulteriore danno morale non riconosciuta dal giudice d’appello e alla personalizzazione del danno rispetto allo standard tabellare, non ravvisandosi d’altronde un livello motivazionale che non raggiunga il minimum evincibile dal combinato disposto degli articoli 111, sesto comma, Cast., 132, secondo comma, n.4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c.

3.2. A proposito poi alla determinazione dell’importo in relazione alla durata concreta della vita posteriore all’illecito, il motivo trova ostacolo in una giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte, il cui insegnamento è nettamente a favore della scelta del giudice d’appello.

Tra gli arresti massimati, infatti, Cass. sez. 3, 18 gennaio 2016 n. 679 chiaramente insegna, proprio per il caso in cui il decesso sopravvenga per una causa  non  ricollegabile  all’illecito  in  relazione  al  quale  viene  chiesto risarcimento del danno biologico: “In tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del danno spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto.”; conformi al suo chiaro insegnamento – che questo collegio a sua volta condivide, essendo razionale commisurarsi alla certezza, qualora sia divenuta raggiungibile per la configurabilità dei fatti determinata definitivamente prima della pronuncia – sono state Cass. sez. 3, 26 maggio 2016 n. 10897, Cass. sez. 3, 30 ottobre 2019 n. 23053 e da ultimo Cass. sez. 3, ord. 29 dicembre 2021 n. 41933.

3.3. Né, infine, può incidere su tale condivisa interpretazione – sostanziale – l’eventualità che una parte tenga una condotta processuale non corretta allo scopo di pervenire prima della decisione al decesso della persona offesa. Invero, un adeguato governo del processo, che al giudice è affidato (cfr. articolo 187 c.p.c.) pure come barriera rispetto all’abuso del potere dispositivo lasciato alle parti (e peraltro assai ristretto, come è ben noto, fin dalla riforma degli anni 90 del secolo scorso), in relazione alla concreta applicazione dell’articolo 111 Cost., ove prevede (primo comma) un “giusto processo” e altresì (secondo comma) di “ragionevole durata”, è idoneo a contrastare una siffatta condotta processuale appunto abusiva, di cui anche un mero tentativo può altresì essere sanzionato mediante l’articolo 96 c.p.c.

3.4. Il primo motivo, in tutte le censure che lo compongono come submotivi, va pertanto disatteso.

4.1. Quanto al secondo motivo, si rileva che il giudice d’appello riconosce che il danno è derivato da grave lesione del rapporto parentale “come correttamente delineato dal primo giudicante”, per poi affermare che la sua liquidazione – in base alle tabelle di Milano del 2018 e precisamente ai “Criteri orientativi tabelle 2018 paragrafo IV 4-5” – deve espletarsi tenendo conto per (OMISSIS) figlia della de cuius, “della grave compromissione del rapporto parentale anche in considerazione della stabile convivenza con la madre (OMISSIS) (OMISSIS) degli oneri di assistenza sulla stessa gravanti sino alla morte della seconda” e  per (OMISSIS) (OMISSIS) pure figlio, “della grave compromissione della relazione con il genitore”, nonché “per entrambi del limitato periodo di durata di tale compromissione”. Di qui la quantificazione nella misura di euro 30.000 per la figlia e di 18.000 per il figlio.

4.2. Nel caso in esame la corte territoriale, invece, pur concisamente, ha esternato in modo chiaro e completo i criteri valutativi che l’hanno condotta alla quantificazione.

Essa infatti ha qualificato il danno quale derivante “da grave lesione del rapporto parentale” – come lo aveva qualificato il primo giudice -, e ha poi indicato appunto come criterio, in relazione alla sopra richiamata illustrazione delle tabelle milanesi del 2018, la gravità della compromissione per la relazione con la madre (dal contesto della motivazione, che non può non essere tenuto in conto, tale “grave compromissione” emerge sine dubio, considerata la situazione di grave decadenza cognitiva in cui era incorsa (OMISSIS) (OMISSIS) aggiungendo come ulteriori specifici criteri per la figlia pure la stabile convivenza e gli oneri di assistenza, nonché individuando come criterio complessivo quello temporale – il “limitato periodo di durata di tale compromissione”-.

Non potendosi certo da parte del giudice di legittimità scrutinare la valutazione che discende nel merito da questi parametri, deve pertanto concludersi nel senso che la corte territoriale ha effettuato tale accertamento senza violare i canoni evincibili dalle tabelle seguite, collocandosi in modo congruo rispetto appunto alle tabelle adottate e dunque non incorrendo nella violazione dell’articolo 1226 c.c., denunciata dal presente motivo (sulla violazione dell’articolo 1226 c.c. per non corretta applicazione tabellare cfr. da ultimo, per l’affine fattispecie della perdita del rapporto parentale, Cass. sez. 6-3, ord. 8 settembre 2022 n. 26440), che risulta dunque infondato.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Considerate la notevole difformità degli esiti dei giudizi di merito e la peculiarità della grave vicenda, sussistono presupposti idonei a condurre alla compensazione delle spese.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2012, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso compensando le spese processuali.

Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Così deciso in Roma il 2 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2023.

SENTENZA – originale -.