REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. PAPA Patrizia – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Rel. Consigliere –
Dott. POLETTI Dianora – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10587/2019 R.G. proposto da:
(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato in ROMA VIA (omissis) (omissis) 1, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) rappresentato e difeso dall’avvocato (omissis) (omissis)
-ricorrente-
contro
(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato in ROMA VIA (omissis) n. 8, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO L’AQUILA n. 1766/2018 depositata il 26/09/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/11/2023 dal Consigliere dott.ssa ROSSANA GIANNACCARI.
FATTI DI CAUSA
Il giudizio trae origine dalla domanda proposta innanzi al Tribunale di Lanciano da (omissis) (omissis) nei confronti del fratello (omissis) (omissis), per chiedere che venisse accertato l’inadempimento del convenuto all’obbligo, assunto oralmente in sede di divisione, di procedere alla chiusura dei due ingressi esistenti sul suo fabbricato ed aventi affaccio sulla particella 4067 di proprietà attrice; tale impegno non era stato formalizzato nell’atto di divisione ma era ribadito in una missiva del 13 luglio 2010 diretta da (omissis) (omissis) alla sorella.
Il convenuto (omissis) (omissis) si costituì per resistere alla domanda e dedusse l’esistenza di una servitù di passaggio attraverso i due ingressi, costituita per destinazione del padre di famiglia a favore del proprio fondo e gravante su quello dell’attrice; in via subordinata, chiedeva l’accertamento dell’avvenuto acquisto della servitù per usucapione.
Il Tribunale di Lanciano accolse la domanda principale e condannò il convenuto alla chiusura delle due aperture, rigettando la domanda riconvenzionale.
La Corte d’appello di L’Aquila confermò la decisione di primo grado.
Secondo la Corte territoriale, l’impegno per iscritto di (omissis) (omissis) di chiudere le due aperture prospicienti sull’area dei proprietà dell’attrice risultava dalla missiva del 13.7.2010, con la quale egli confermava il suo impegno assunto in sede di divisione, nonchè dalle risultanze della prova testimoniale.
In ordine al rilievo che la chiusura delle due aperture costituisse una rinuncia alla servitù di passaggio, la Corte territoriale osservò che non vi fosse prova dell’esistenza della servitù di passaggio, della sua estensione e delle modalità di esercizio in quanto non risultava menzione nell’atto di divisione; al contrario, nell’atto pubblico si attestava che la servitù di passaggio era stata costituita in favore della proprietà di (omissis) (omissis) attraverso la particella 317 del fratello (omissis).
Secondo la Corte di merito, non poteva neppure essere invocata la costituzione di una servitù per destinazione del padre di famiglia in quanto l’originario proprietario non aveva mai utilizzato le due aperture per accedere alla via pubblica, sia perché aveva sempre utilizzato un altro passaggio, sia perché il varco aperto da (omissis) (omissis) sul terreno a lei assegnato era stato realizzato dopo la divisione, sicché le due aperture non potevano essere considerate segni visibili e permanenti destinati all’esercizio della servitù.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso (omissis) (omissis) sulla base di dodici motivi.
(omissis) (omissis) ha resistito con controricorso.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
In prossimità della camera di consiglio, il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica, va esaminato il settimo motivo di ricorso, con il quale si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., con riferimento all’esistenza di opere visibili e permanenti destinate dal de cuius all’esercizio della servitù.
Sostiene il ricorrente che prima della divisione, per accedere alla porzione di fabbricato distinto dalle p.lle 314 e 317, si transitava dalla strada pubblica attraverso le particelle 316 e 313, passando per un battuto in cemento su cui si affacciavano le due porte, che costituirebbero opere visibili e permanenti per l’esercizio del diritto di passaggio fino alla strada comunale.
L’esistenza di dette porte risulterebbe dalla documentazione fotografica nonché dalla rappresentazione grafica del frazionamento del 2.7.1992 del terreno e del fabbricato. In seguito alla divisione ed al frazionamento, il terreno di cui alle p.lle 314 e 317 era stato assegnato al ricorrente mentre il terreno con il manufatto, di cui alle p.lle 313 e 316 era stato assegnato all’attrice.
Le due porte di ingresso e la pavimentazione in cemento, che collegava il fabbricato alla strada comunale, costituirebbero opere visibili e permanenti di cui la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto ai fini della costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, nonostante l’assenza di una volontà contraria delle parti consacrata nel titolo.
Il ricorrente sottolinea come nell’atto notarile non vi fossero dichiarazioni volte ad escludere la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, ai sensi dell’art. 1062 c.c., né poteva trarsi la volontà del ricorrente di rinunciare al diritto dalla missiva del 13.7.2010 in quanto, in tale atto, il ricorrente avrebbe condizionato la chiusura delle porte alla modifica della servitù di passaggio dalle scale che davano accesso ai terreni della “(omissis)”.
Peraltro, la prova per testimoni non sarebbe inammissibile perché volta a provare un accordo verbale, che integrava un patto antecedente o successivo ad un atto avente forma scritta ad substantiam.
Il motivo è fondato.
Va preliminarmente evidenziato che, nel caso in esame, pur ravvisandosi una cosiddetta “doppia conforme”, non è applicabile l’art. 348 ter comma V c.p.c. in quanto il giudizio d’appello è stato introdotto in data antecedente all’11.9.2012.
L’art. 54 del D.L. 83/2012 convertito nella L. 134/2012, che esclude la censura del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., prevede l’applicabilità della normativa ai giudizi introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dall’11.9.2012 mentre, nel caso in esame, l’appello è stato notificato il 6.8.2012.
Ciò premesso, si osserva che la Corte d’appello (v. pag. 7) ha escluso la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia in favore del fondo assegnato al ricorrente (p.lla 314) in quanto nell’atto di divisione si dava atto che “era la sorella (omissis) ad avere diritto di servitù di passaggio per accedere alla via pubblica attraverso la p.lla 317 di proprietà del fratello (omissis), ove esisteva originariamente l’unico accesso alla via pubblica”.
La Corte d’appello ha proseguito (pagg. 7 e 8) affermando che non poteva essere invocata la costituzione di una servitù per destinazione del padre di famiglia in quanto “il dante causa originario proprietario dei fondi poi divisi non aveva mai utilizzato le due aperture per cui è giudizio per accedere alla via pubblica, avendo in primo luogo sempre utilizzato un altro passaggio sulla strada, mentre il varco aperto da (omissis) (omissis) sul terreno a lei assegnato era stato creato dopo la divisione.
Dunque, le due aperture in discussione non possono affatto ritenersi quali opere visibili idonee all’esercizio della pretesa servitù di passaggio ”.
Nel giungere a tale conclusione, la Corte d’appello ha però omesso di esaminare l’atto di frazionamento e la documentazione ad esso allegata, che erano decisivi per accertare l’esistenza di opere visibili e permanenti predisposte dall’unico proprietario prima della divisione del fondo, dalle quali evincere l’asservimento di un fondo in favore di un altro fondo.
Il giudice d’appello ha, invece, fondato la decisione, sulle deposizioni testimoniali in ordine all’utilizzo delle porte per l’accesso alla via pubblica da parte dell’originario proprietario.
E’ evidente l’errore di valutazione in quanto l a servitù per destinazione del padre di famiglia si costituisce “ope legis” per il fatto che al momento della separazione dei fondi o del frazionamento dell’unico fondo, vi siano opere o segni manifesti ed inequivoci di una situazione oggettiva di subordinazione o di servizio, che integri “de facto” il contenuto proprio di una servitù, indipendentemente da qualsiasi volontà, tacita o presunta, dell’unico proprietario nel determinarla o nel mantenerla.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, il requisito della subordinazione deve essere ricercato non già nell’intenzione del proprietario del fondo, bensì nella natura delle opere oggettivamente considerate, in quanto nel loro uso normale determinino il permanente assoggettamento del fondo vicino all’onere proprio della servitù (Cass. Civ., Sez. II, 12.2.2014, n. 3219; Cass. Civ., Sez. II, 2.12.1997, n. 12197).
Perché possa costituirsi la servitù prediale per destinazione del padre di famiglia, infatti, è necessario che le opere destinate all’esercizio della servitù preesistano alla divisione o all’alienazione del fondo e che, all’atto della loro separazione, sia mancata una manifestazione di volontà contraria al perdurare della relazione di sottoposizione di un fondo nei confronti dell’altro (Cassazione civile sez. II, 05/04/2016, n. 6592).
L’apparenza è indispensabile per poter ritenere costituita la servitù per destinazione del padre di famiglia, dato che tale tipo di servitù non è soggetta a manifestazione di volontà e, perciò, nemmeno a trascrizione (Cass. Civ. Sez II, 14.7.1962 n.1017).
Nel caso di specie, era irrilevante, ai fini della costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia il mancato utilizzo delle aperture da parte dell’originario proprietario, e, trattandosi di servitù che si costituisce “de facto”, nessuna previsione doveva essere contenuta nel titolo mentre era decisivo accertare se le due aperture costituivano segni visibili e permanenti dell’esercizio della servitù di passaggio.
L’esame del titolo era necessario ai soli fini della ricognizione dello stato dei luoghi o per verificare se vi fosse un’espressa volontà volta all’esclusione della servitù per destinazione del padre di famiglia mentre era decisivo l’esame dell’atto di frazionamento e della documentazione ad esso allegata, che davano conto dell’esistenza o meno di una situazione oggettiva di subordinazione o di servizio, essendo irrilevante la volontà dell’originario proprietario o l’utilizzo delle aperture nel corso degli anni.
La Corte d’appello ha poi erroneamente valorizzato l’accesso alla via pubblica (pag. 7, ultimo rigo della sentenza impugnata) per escludere la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia mentre tale requisito – come è noto – è un elemento costitutivo delle sole servitù di passaggio coattivo, come previsto dall’art. 1051 c.c.
Si rende pertanto necessario nuovo esame.
Passando all’esame degli altri motivi, con il primo di essi si deduce la violazione dell’art. 1350 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto dimostrata, attraverso la prova per testi, l’esistenza di un accordo verbale tra le parti, antecedente alla divisione, con il quale il coerede, cui era stato assegnato il fabbricato di cui alle p.lle 314-317, avrebbe dovuto chiudere i due ingressi che si affacciavano sul terreno assegnato all’altro coerede.
Osserva il ricorrente che l’accordo, oltre ad avere ad oggetto un diritto che non era nella disponibilità delle parti, avrebbe richiesto la forma scritta a pena di nullità, ai sensi dell’art. 1350 c.c. e la nullità sarebbe rilevabile d’ufficio perché (omissis) (omissis) avrebbe agito per chiedere l’adempimento di un contratto nullo.
Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1350 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.. e la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello tratto la prova dell’esistenza dell’accordo sulla chiusura delle due aperture dalla missiva del 13.7.2010, diretta da (omissis) (omissis) alla sorella con la quale il ricorrente confermava il suo impegno di chiudere le due aperture prospicienti sull’area di proprietà della predetta che aveva assunto in sede di divisione. Tale missiva non sarebbe vincolante perché l’accordo richiederebbe la forma scritta ad substantiam.
Con il terzo motivo di ricorso, si denuncia la violazione degli artt. 1350 c.c., 2723 c.c., 2724 c.c. e 2725 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte di merito ritenuto provato per testimoni un accordo verbale avente ad oggetto un atto dispositivo della proprietà, per il quale sarebbe richiesta la prova scritta ad substantiam.
Con il decimo motivo di ricorso, si deduce la violazione degli artt. 1353 c.c. e 1362 c.c., con riferimento alla missiva del 13.7.2010, con la quale il ricorrente avrebbe subordinato la chiusura delle due aperture alla condizione che la sorella procedesse alla chiusura delle scale che davano accesso alla (omissis).
La Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che detta condizione fosse frutto di un ripensamento del ricorrente, violando il criterio letterale nell’interpretazione dell’atto nella parte in cui si affermava che la “ promessa di chiudere le entrate sulla citata p.lla è condizionata da parte mia alla correzione del passaggio sulle scale suddette ”.
La Corte non avrebbe, inoltre, tenuto conto degli altri criteri di interpretazione dell’atto unilaterale previsti dagli art. 1363 e segg. c.c. e, conseguentemente, non avrebbe accertato l’esistenza della condizione.
Questi quattro motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono fondati.
Questa Corte, con orientamento consolidato ha affermato che la rinuncia al diritto di servitù deve rivestire la forma scritta, sotto pena di nullità, e non può quindi risultare da fatti concludenti né può essere provata a mezzo della prova per testi (Cassazione civile sez. II, 22/05/2015, n. 10662; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5302 del 07/12/1977, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 835 del 05/02/1980).
Nel caso in esame la Corte d’Appello ha disatteso questo principio ed è quindi incorsa in errore di diritto, avendo ritenuto valido un patto concluso oralmente con cui il ricorrente si obbligava alla chiusura di due aperture verso il fondo della sorella, senza porsi il problema di accertare se un tale patto configurasse una rinunzia ad una servitù di passaggio e, come tale, fosse soggetto alla forma scritta ad substantiam, ai sensi dell’art. 1350 c.c.
In particolare, la Corte di merito ha ritenuto provato attraverso la prova testimoniale l’esistenza di un accordo verbale tra le parti, antecedente alla divisione, con il quale il coerede cui sarebbe stato assegnato il fabbricato di cui alle p.lle 314-317 avrebbe dovuto chiudere i due ingressi che si affacciavano sul terreno assegnato all’altra coerede, nonostante si trattasse di atto per il quale era richiesta la forma scritta a pena di nullità.
Né la rinuncia al diritto poteva risultare dalla missiva del 13.7.2010, inviata da (omissis) (omissis) alla sorella, con la quale il ricorrente confermava il suo impegno di chiudere le due aperture prospicienti l’area di proprietà della predetta, facendo riferimento all’impegno che aveva assunto in sede di divisione.
Tale documento, infatti, limitandosi a confermare il contenuto di un accordo verbale in relazione ad un atto che richiedeva la forma scritta ad substantiam, non poteva essere certamente idoneo a provare l’esistenza di un atto nullo per difetto di forma (qualora si fosse accertata la rinunzia in forma orale).
Detta missiva, intervenuta dopo l’atto di divisione, non poteva sostituire il titolo costitutivo, essendo necessario, invece, un contratto con forma scritta dal quale risultasse la volontà attuale delle parti di estinguere un diritto, essendo irrilevante che una delle parti, anche in forma scritta, abbia fatto riferimento ad un precedente rapporto qualora questo non sia documentato (Cass. 11.4.2016, n. 7055 in materia di acquisto derivativo della proprietà; Cass. Civ. Sez. 3, Sentenza n. 9687 del 18/06/2003, n. 9687).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia contrattuale, il principio in base al quale per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà immobiliare è richiesta la forma scritta ad substantiam importa che l’atto scritto costituisca lo strumento necessario ed insostituibile per la valida manifestazione della volontà produttiva degli effetti del negozio.
Ne consegue che, in tale ipotesi, la manifestazione scritta della volontà di uno dei contraenti non può essere sostituita da una dichiarazione confessoria dell’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – quand’anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo (Cass. Sez.3, Sentenza n. 9687 del 18/06/2003).
La prova di un contratto per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, non può discendere da un negozio di mero accertamento, il quale può eliminare incertezze sulla situazione giuridica, ma non già sostituirne il titolo costitutivo. Si rende pertanto necessario un nuovo esame anche in relazione a tali questioni.
Il ricorso va, pertanto accolto anche in relazione ai motivi accolti; la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di L’Aquila in diversa composizione, che, si atterrà al seguente principi o di diritto: “la rinuncia al diritto di servitù deve rivestire, ai sensi dell’art. 1350 n. 5 c.c, la forma scritta, sotto pena di nullità, e non può quindi risultare da fatti concludenti né può essere provata con testi o da un atto di ricognizione o di accertamento”.
Vanno dichiarati logicamente assorbiti i restanti motivi, con cui si censura l’interpretazione dell’atto di divisione del 1992 (quarto motivo); la violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione alla deduzione in grado d’appello dell’utilizzo delle due aperture da parte dell’originario proprietario per accedere alla via pubblica (quinto motivo); la prova del transito (sesto motivo); l’omessa motivazione e omesso esame circa un fatto decisivo in relazione all’acquisto per usucapione della servitù di passaggio (ottavo e nono motivo), l’inammissibilità della testimonianza resa dal coniuge della (omissis) sull’accordo verbale (undicesimo motivo) e erronea valutazione delle deposizioni testimoniali sempre sull’accordo verbale (dodicesimo motivo).
P.Q.M.
Accoglie il primo, secondo, terzo, settimo e decimo motivo di ricorso, dichiara assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata in ordine ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità innanzi alla Corte d’appello di L’Aquila in diversa composizione.
Roma, 16 novembre 2023.
Il Presidente
Lorenzo Orilia
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2024.