LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
LUCIA TRIA – Presidente –
ROBERTO BELLÉ – Consigliere –
IRENE TRICOMI – Consigliere –
FEDERICO ROLFI – Consigliere – Relatore –
DARIO CAVALLARI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8892/2019R.G. proposto da
(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato in ROMA VIA (omissis) 195, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis);
–ricorrente–
contro
AZIENDA SANITARIA UNIVERSITARIA INTEGRATA DI TRIESTE, in persona del Commissario Straordinario pro tempore ed elettivamente domiciliata in MONFALCONE Via (omissis) (omissis), presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) (omissis) che la rappresenta e difende;
–controricorrente e ricorrente incidentale–
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO TRIESTE n. 99/2018 depositata il 27/07/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 12/09/2024dal Consigliere Dott. Federico Rolfi;
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza n. 99/2018, depositata in data 27 luglio 2018, la Corte d’appello di Trieste, nella regolare costituzione dell’appellata AZIENDA SANITARIA UNIVERSITARIA INTEGRATA DI TRIESTE, ha accolto parzialmente l’appello proposto da (omissis) (omissis) avverso la sentenza del Tribunale di Trieste n. 63/2016 del 4 aprile 2016 e, per l’effetto, ha dichiarato la nullità della clausola di cessazione automatica dall’incarico contenuta nel contratto individuale di lavoro concluso in data 2 febbraio 2009 tra l’appellante e l’appellata, respingendo tuttavia le altre domande proposte dallo stesso (omissis) (omissis).
2. Quest’ultimo aveva adito il Tribunale di Trieste, riferendo in fatto di avere concluso con la AOU Ospedali Riuniti di Trieste un contratto di affidamento dell’incarico quale direttore amministrativo presso l’azienda stessa con scadenza al 2 febbraio 2012 ma che, con delibera in data 28 aprile 2010, era stata disposta la cessazione anticipata dell’incarico dirigenziale a decorrere dal 13maggio 2010, ai sensi della previsione contenuta nell’art. 7, ultimo capoverso, del contratto individuale.
Deducendo di avere assunto in data 10 novembre 2010 l’incarico di direttore amministrativo dell’ASS n. 3 di Gemona del Friuli, percependo una minore retribuzione, (omissis) (omissis) aveva chiesto di dichiarare la nullità della clausola contrattuale che consentiva il recesso anticipato e di condannar e l’Azienda convenuta al risarcimento dei danni, consistenti nelle minori retribuzioni maggiorate del trattamento economico del dirigente meglio retribuito, nonché delle spese di trasferta.
3. Costituitasi l’Azienda convenuta con una nutrita serie di eccezioni, il Tribunale di Trieste aveva respinto integralmente la domanda, argomentando che il rapporto intercorso tra le parti era da ritenersi riconducibile ad un contratto di lavoro autonomo, retto dal principio della libertà di recesso del cliente, con conseguente possibilità di inserimento di termini o condizioni risolutive, ed affermando che la disciplina legale di cui al D.Lgs. n. 502/92 ed al D.P.C.M. n. 502/95 presupponeva la sussistenza di un particolare vincolo fiduciario tra direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario, risultando quindi giustificato il recesso anticipato, in quanto determinato dalla nomina di un nuovo direttore generale.
4. Proposto gravame da parte di (omissis) (omissis), la Corte d’appello di Trieste, richiamati precedenti di questa Corte, ha invece escluso che dalla disciplina del D. Lgs. n. 502/92 e del D.P.C.M. n. 502/95 venga a derivare un vincolo tra direttore generale e direttore amministrativo tale da giustificare l’applicazione della disciplina del c.d. spoil system, concludendo, quindi, nel senso dell’assoggettamento del rapporto di lavoro del direttore amministrativo alla disciplina generale dettata dall’art. 2119 c.c., con conseguente nullità della clausola contrattuale che consenta il recesso unilaterale del datore di lavoro per effetto della mera sostituzione del direttore generale.
Ritenuta, quindi, la illegittimità del recesso, la Corte territoriale ha tuttavia confermato il rigetto della domanda del ricorrente avente ad oggetto la condanna del datore di lavoro alla corresponsione della differenza tra la retribuzione prevista per l’incarico interrotto a causa del recesso unilaterale e la retribuzione percepita dallo stesso (omissis) (omissis) per incarichi che aveva successivamente ricevuto.
Disattesa l’eccezione con cui l’appellata opponeva che l’appellante non avesse proceduto alla formale offerta delle prestazioni lavorative – in quanto il recesso è stato ritenuto di per sé idoneo a porre il datore in mora credendi –la Corte d’appello ha invece ritenuto fondata l’eccezione ex art. 1227, secondo comma, c.c., valorizzando la circostanza delle dimissioni rassegnate dell’appellante dall’incarico successivamente ricevuto e concludendo che, in assenza di adeguata prova dell’esistenza di una differenza tra il compenso dovuto e quello successivamente percepito, non sussistevano elementi sufficienti per affermare l’effettiva esistenza di un credito residuo.
5. Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Trieste ricorre ora (omissis) (omissis).
Resiste con controricorso e ricorso incidentale AZIENDA SANITARIA UNIVERSITARIA INTEGRATA DI TRIESTE.
6. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis.1, c.p.c.
Le parti hanno depositato memorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso principale è affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 , 1227, secondo comma , e 2697 c.c . “erronea sussunzione della fattispecie concreta nella normativa astratta applicata”.
Il ricorrente censura la decisione per avere quest’ultima ritenuto che, in virtù dei successivi incarichi rivestiti dal ricorrente medesimo presso le Aziende di Gemona e Belluno ed in applicazione della regola dell’aliunde percipiendum, al ricorrente medesimo non spettava alcun risarcimento.
Argomenta, invece, di avere sin dal giudizio di primo grado individuato specificamente le differenze stipendiali dalle quali era possibile evincere che i successivi incarichi erano comunque remunerati in misura inferiore all’incarico presso la AZIENDA SANITARIA UNIVERSITARIA INTEGRATA DI TRIESTE, concludendo che, anche a voler valorizzare le dimissioni dall’incarico presso l’ASS di Gemona, residuerebbe in ogni caso un danno differenziale.
Deduce, quindi, che la Corte territoriale non solo avrebbe applicato l’art. 1227 c.c. ad una ipotesi che esula dalla sua area di operatività, ma avrebbe fatto non corretto governo dell’art. 2697 c.c., gravando lo stesso ricorrente dell’onere di contestare un mero argomento difensivo, mentre i presupposti dell’originaria domanda del ricorrente erano da ritenersi già pienamente provati.
2.2. Il motivo è fondato.
La Corte territoriale, invero, non ha fatto corretta applicazione degli artt. 2697 e 1227 c.c., da un lato seguendo un ragionamento che si è tradotto in un sostanziale rovesciamento degli oneri probatori, e dall’altro, escludendo qualsiasi diritto del ricorrente al risarcimento dei danni, sulla scorta di un generico – e non pertinente – riferimento all’aliunde percipiendum.
Secondo un principio che è desumibile da precedenti di questa Corte in fattispecie diversa ma avente comunque caratteri di affinità quanto al profilo degli oneri probatori (Cass. Sez. L -Sentenza n. 22294 del 25/07/2023), una volta dedotta dall’odierno ricorrente una situazione di pregiudizio derivante da un comportamento illegittimo della p.A.– consistente, nel caso ora in esame, nell’anticipato recesso dal contratto di lavoro e nella conseguente perdita delle relative retribuzioni – ai fini dell’identificazione del danno rivendicato doveva ritenersi sufficiente il richiamo appunto al presupposto di detto pregiudizio, senza che la parte potesse ritenersi onerata né della quantificazione delle “minori somme eventualmente dovute” né della contestazione delle avverse allegazioni, concernendo queste ultime non fatti ma mere deduzioni a carattere valutativo (l’equivalenza dei compensi del nuovo incarico rispetto a quello precedentemente ricoperto).
Essendo la vicenda fattuale di inoccupazione od occupazione a condizioni deteriori effetto concreto e diretto dell’anticipato recesso – dalla Corte stessa dichiarato illegittimo – la quantificazione del danno veniva a concernere il piano della prova, anche sotto il profilo del riparto del conseguente onere ex art. 2697 c.c., e non quello dell’introduzione della domanda e della pretesa risarcitoria, con la conseguenza che – pur nell’esplicito riconoscimento da parte dell’odierno ricorrente dell’assunzione di un altro incarico peraltro asseritamente meno remunerato – non avrebbe potuto la Corte territoriale gravare il ricorrente dell’onere di procedere ad uno specifico conteggio del danno quale presupposto per il riconoscimento del medesimo, pervenendo in caso contrario – come poi è avvenuto – al rigetto della domanda. In altri termini, a fronte dell’allegazione di un danno da minor retribuzione – ed in presenza della produzione delle buste paga (da questa Corte già ritenute elemento probatorio decisivo: sempre Cass. Sez. L – Sentenza n. 22294 del 25/07/2023 ) – la presenza di una semiplena probatio avrebbe semmai imposto alla Corte territoriale – come si vedrà anche in relazione al secondo motivo – di esercitare i propri poteri istruttori d’ufficio per verificare l’effettiva sussistenza ed entità del danno, mentre non avrebbe consentito l’esclusione radicale del riconoscimento risarcitorio unicamente per la presunta difficoltà del relativo calcolo.
Rammentato, poi, il principio per cui l’aliunde perceptum è un’eccezione e, come avviene per tutte le eccezioni, deve essere provata da chi la sollevi, vale a dire dal datore di lavoro ogni qual volta si discuta di danno da lucro cessante (cfr., ad esempio, Cass. 14 giugno 2022, n. 19163; Cass. 31 gennaio 2017 n. 2499; Cass. 12 maggio 2015, n. 9616; Cass. 17 novembre 2010, n. 23226; Cass. 26 ottobre 2010, n. 21919; Cass. 1° giugno 2004 n. 10531; Cass. 9 aprile 2003 n. 5532; Cass. 29 agosto 2000 n. 11341; Cass. 22 ottobre 1998 n. 10522; Cass. 27 marzo 1996 n. 2756; Cass. 19 luglio 1990 n. 7380; Cass. 20 giugno 1990 n. 6193 e altre) – sicchè sarebbe stato onere semmai del datore di lavoro provare anche il quantum di detto aliunde perceptum senza limitarsi ad affermare la sua equivalenza alla precedente retribuzione – si deve ulteriormente rilevare che la Corte territoriale ha fatto inadeguato governo anche della regola di cui all’art.1227 c.c. valutando le dimissioni dell’odierno ricorrente dall’incarico successivamente assunto come contributo causale al verificarsi del danno conseguente al precedente illegittimo recesso della ricorrente incidentale.
Governo inadeguato, in quanto la scelta di dimettersi da un successivo incarico, distinto da quello oggetto del contendere, non avrebbe potuto essere qualificata come contributo colposo del lavoratore al prodursi di un danno che aveva invece autonoma ed esclusiva fonte causale nella condotta illegittima della p.A., quasi che tali dimissioni –rientranti invece nella piena autonomia decisionale del lavoratore – costituissero di per sé condotta contra legem, e fermo restando che, anche solamente sul piano squisitamente logico, l’evidenza della riconducibilità cronologica di tali dimissioni ad un momento ben successivo a quello dell’inizio del prodursi del danno imputabile alla ricorrente incidentale non avrebbe mai potuto condurre la Corte territoriale alla esclusione radicale del riconoscimento del danno, come invece è avvenuto.
3.1. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza e del procedimento; la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost.; 421 e 437, secondo comma, c.p.c., “anche in relazione agli artt. 112, 115, 116 c.p.c.”.
Argomenta, in particolare, il ricorso che la Corte d’appello:
− rigettando integralmente la domanda sulla base di un’eccezione che copriva un arco temporale più ridotto rispetto a quello interessato dalla domanda medesima, avrebbe omesso di statuire sui periodi non interessati dall’eccezione;
− avrebbe in ogni caso omesso di avvalersi dei propri poteri istruttori per procedere ad una consulenza tecnica d’ufficio.
3.2. Anche tale motivo è fondato.
Questa Corte, infatti, ha reiteratamente chiarito – anche con riferimento al giudizio d’appello -che nel rito del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori del giudice – che può essere utilizzato a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti – vede quali presupposti la ricorrenza di una semiplena probatio e l’individuazione di quegli elementi che sono stati ricondotti alla categoria della «pista probatoria», e cioè di quelle informazioni che emergono dal complessivo materiale probatorio, anche documentale, e che costituiscono fattore che non solo vale a superare una rigida applicazione delle già richiamate preclusioni istruttorie e degli stessi limiti all’attività istruttoria, ma anche giustifica – ed anzi rende doveroso – l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, oltre ad una valorizzazione complessiva e non parziale del materiale probatorio, sebbene anche solo indiziario (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 26597 del 23/11/2020; Cass. Sez. L, Ordinanza n. 33393 del 17/12/2019; Cass. Sez. L -Ordinanza n. 32265 del 10/12/2019; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 11845 del 15/05/2018; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 28134 del 05/11/2018; Cass. Sez. L, Sentenza n. 9034 del 06/07/2000).
Tale principio, del resto, costituisce gemmazione di un principio più generale, anch’esso oggetto di reiterata enunciazione e riferito proprio alla verifica dell’effettiva sussistenza di uno scenario di assoluta mancanza di prova, quale quello evocato dalla decisione impugnata.
A mente di tale principio, nel rito del lavoro, la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo – costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito -che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo, ma conduce a considerare del tutto residuale l’ipotesi di “assoluta mancanza di prove” (Cass. Sez. L, Sentenza n. 18410 del 01/08/2013).
Alla luce di tali principi, ha errato la Corte territoriale nel rigettare la domanda risarcitoria dell’odierno ricorrente, da un lato facendo – come in visto in precedenza –non corretta applicazione dell’art. 1227 c.c. e dall’altro lato omettendo di procedere a qualunque forma di istruttoria –a cominciare dall’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio – sulla scorta della generica considerazione per cui l’odierno ricorrente non aveva proceduto ad una specifica e dettagliata quantificazione della propria pretesa risarcitoria né aveva replicato alle contestazioni in ordine alla sussistenza del danno.
Sarebbe stato invece onere della Corte territoriale, a fronte dell’accertata nullità della clausola di recesso anticipato dal rapporto di lavoro e della deduzione in ordine all’esistenza di un danno correlato alle minori retribuzioni del nuovo incarico, assumere tali elementi quali “pista probatoria” per dar luogo all’esercizio dei propri poteri istruttori d’ufficio in ordine all’accertamento di an e quantum del danno.
4.1. Con il terzo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio con connessa violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.
Argomenta, in particolare, il ricorso che la Corte territoriale, nella propria decisione, avrebbe omesso di valutare:
− l’efficacia temporale delle dimissioni, le quali non avrebbero potuto elidere il danno pregresso;
− “la valutazione dell’effettiva incidenza delle dimissioni in relazione all’ammontare del danno anche per il periodo posteriore”.
4.2. Il motivo è inammissibile, in quanto i profili di cui lamenta l’omesso esame non costituiscono fatti storici veri e propri – da intendersi come riferiti a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass. Sez. 1 -Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018; Cass. Sez. S4/L – R.G. 8892/2019 – CC 12/09/2024 – Pagina nr. 11 di 16 Sez. 2 – Sentenza n. 14802 del 14/06/2017) – ma si sostanziano in prove ed in elementi di fatto, peraltro oggetto di considerazione da parte della Corte territoriale con valutazione che non è sindacabile nella presente sede.
Va invero ribadito che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. 2 -Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018), e ciò in quanto le deduzioni aventi ad oggetto la persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attengono alla mera sufficienza della motivazione, e cioè ad un profilo non (più) deducibile come motivo di ricorso (Cass. Sez. 6 -5, Ordinanza n. 11863 del 15/05/2018).
5. Il ricorso incidentale è affidato a tre motivi.
6.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio “con connessa violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.”.
La ricorrente incidentale censura la decisione della Corte di Trieste in quanto quest’ultima avrebbe omesso di valutare l’esistenza di una disciplina regionale – la Delibera G.R. F.V.G. 4012/2003 – che avrebbe approvato uno schema tipo di contratto secondo quanto previsto dall’art. 3-bis, D.Lgs. n. 502/1992, di cui l’odierna ricorrente incidentale si era avvalsa.
Tale circostanza sarebbe decisiva in quando l’odierno ricorrente non avrebbe mai impugnato tale delibera mentre l’odierna ricorrente incidentale si sarebbe solo conformata agli atti della Regione.
6.2. Il motivo è inammissibile e infondato.
In primo luogo, infatti, si deve rilevare che il motivo, da un lato, non rispetta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c. – non avendo la ricorrente incidentale proceduto alla riproduzione dei passaggi essenziali di tale delibera e del relativo schema-tipo, limitandosi ad una generica localizzazione della medesima negli atti processuali – e, dall’altro lato, qualifica come fatto storico un profilo che, in realtà, concerneva il vaglio di fondatezza della domanda, e quindi cerca di estendere inammissibilmente il paradigma di cui all’art. 360, n. 5), c.p.c. (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass. Sez. 1 -Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018; Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 14802 del 14/06/2017).
In secondo luogo, si deve rilevare che la decisione impugnata ha, in realtà, menzionato la delibera di cui si assume l’omesso esame (pag. 4 della decisione) ma si è conformata all’orientamento espresso in materia da questa Corte (Cass. Sez. L, Sentenza n. 14349 del 09/07/2015; Cass. Sez. L – Sentenza n. 24079 del 07/09/2021; Cass. Sez. L – Sentenza n. 19739 del 11/07/2023; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 1895 del 18/01/2024), dovendosi qui ribadire che l’eventuale regolazione del rapporto sarebbe dovuta avvenire con atto legislativo della Regione, conformemente a quanto stabilito dall’art. 3-bis,D. L gs. n. 502/1992, e peraltro, a propria volta, in conformità ai principi sanciti dall’art. 97 Cost.
Da ciò discende un ulteriore profilo di carenza del motivo di ricorso, dal momento che la circostanza di cui si è assunto l’omesso esame non può ritenersi decisiva ai fini del giudizio, anche in virtù del fatto che il ricorrente principale non sarebbe stato comunque tenuto ad impugnare autonomamente la delibera, ben potendone chiedere la disapplicazione ex art. 63, D. Lgs. n. 165/2001.
7.1. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c. e la “errata applicazione dell’art. 63 D.Lgs. 165/2001 e dell’art. 1218 cc, in quanto la Corte non si è pronunciata sulle eccezioni che l’ASUI ha tempestivamente svolto in considerazione del fatto che il rapporto è disciplinato anche dalle regole dettate dalla Regione con la precitata Delibera, che il dott. (omissis) avrebbe dovuto impugnare autonomamente e che, anche se disapplicabile in questa sede, comunque rappresentava un fatto del terzo idoneo ad escludere ogni colpa in capo alla ASUI”.
7.2. Anche tale motivo è inammissibile.
Ferma, invero, la già argomentata non decisività del profilo in questione –come appena osservato in relazione al primo motivo – si osserva che il vizio dedotto nel motivo sarebbe stato in realtà riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, n. 4), c.p.c. in combinato disposto con l’art. 112 c.p.c.
Deve allora trovare applicazione il principio – da questa Corte reiteratamente affermato -per cui, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4) del primo comma dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché il ricorso sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24553 del 31/10/2013; Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 10862 del 07/05/2018), come è appunto avvenuto nel caso in esame, dal momento che il motivo di ricorso, al di là della formulazione della sua rubrica, omette radicalmente di dedurre la nullità decisione.
8.1. Con il terzo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 1206, 1207 e 1227 c.c., in quanto la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto irrilevante, ai fini risarcitori, la mancata offerta della prestazione da parte dell’odierno ricorrente principale. Si argomenta, invece, che quest’ultimo avrebbe dovuto procedere alla messa in mora dell’azienda per poter avere titolo a richiedere le retribuzioni.
8.2. Il motivo, pur essendo ammissibile (Cass. Sez. 2 -Ordinanza n. 33109 del 10/11/2021) è tuttavia infondato.
Infatti, i precedenti di questa Corte invocati dalla ricorrente a sostegno delle proprie ragioni sono riferiti all’ipotesi in cui, apposto illegittimamente un termine al contratto di lavoro , il lavoratore sospenda l’esecuzione della prestazione per – come ha osservato questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 14381 del 08/10/2002) – “attuazione di fatto del termine nullo”, in tal caso risultando evidente che la spontanea attuazione della previsione illegittima – e quindi l’altrettanto spontanea interruzione della prestazione lavorativa – comportano il venir meno della sinallagmaticità del rapporto e rendono riconducibile alla stessa condotta del lavoratore il mancato conseguimento della remunerazione, giustificando quindi la subordinazione di ogni pretesa economica alla previa offerta formale della prestazione lavorativa.
È tuttavia da ritenersi che sia ben diversa l’ipotesi in cui il datore, avvalendosi di una clausola contrattuale nulla, venga a comunicare al lavoratore il recesso dal rapporto, in quanto tale recesso unilaterale ed illegittimo, viene ad integrare ex se rifiuto della prestazione del lavoratore da parte del datore, esonerando il primo dall’onere di procedere alla messa in mora del secondo ai fini del riconoscimento del risarcimento dei danni, come peraltro da questa Corte già chiarito in fattispecie consimile di illegittima sospensione del rapporto per collocamento in cassa integrazione guadagni non conforme a legge (Cass. Sez. L, Sentenza n. 7524 del 27/03/2009). A tale principio la decisione in esame risulta essersi correttamente richiamata, da ciò derivando la infondatezza del motivo di ricorso.
9. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso principale deve essere accolto limitatamente ai primi due motivi, inammissibile essendo il terzo, mentre il ricorso incidentale deve essere respinto.
La decisione impugnata deve, quindi, essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, la quale, nel conformarsi ai principi qui richiamati, provvederà a regolare le spese anche del presente giudizio di legittimità.
P. Q. M.
La Corte, accoglie il primo e secondo motivo del ricorso principale, inammissibile il terzo; rigetta il ricorso incidentale; cassa l’impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1- quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro il giorno 12 settembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2024.