REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
LUCIA TRIA Presidente
ANDREA ZULIANI Consigliere – Rel.
IRENE TRICOMI Consigliere
ROBERTO BELLÉ Consigliere
ILEANA FEDELE Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 20464/2022 R.G. proposto da:
(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato in Roma, via (omissis) n. 3, presso lo studio dell’ avv. (omissis) (omissis), rappresentato e difeso dall’avv. (omissis) (omissis)
– ricorrente –
contro
AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI PALERMO, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, con diritto di ricevere le comunicazioni presso gli indicati indirizzi degli avv. (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis), che la rappresentano e la difendono
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1438/2021 del Corte d’Appello di Palermo, depositato il 25.2.2021;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’11.9.2024 dal Consigliere dr. Andrea Zuliani;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocata Generale Rita Sanlorenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avv. (omissis) (omissis), per delega verbale dell’ avv. (omissis) (omissis);
udito l’avv. (omissis) (omissis).
FATTI DI CAUSA
Il ricorrente, medico psichiatra con incarichi di lavoro a termine presso due istituti penitenziari, rinunciò a tali incarichi per assumerne un altro – anch’esso temporaneo – presso l’ASP di Palermo, intendendo così adeguarsi alla clausola di esclusiva inserita nel relativo contratto di lavoro.
Tuttavia – ritenendo di non essere assoggettato all’obbligo di esclusiva di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, in forza della deroga prevista nell’art. 2 della legge n. 740del 1970 – si rivolse al Tribunale di Palermo, in funzione di giudice del lavoro, per chiedere la condanna dell’ASP al risarcimento del danno provocatogli dall’ingiusta clausola contrattuale, danno da liquidare in misura pari ai guadagni non potuti percepire presso gli istituti penitenziari.
Il Tribunale di Palermo rigettò la domanda e la sentenza di primo grado venne confermata dalla Corte d’Appello, respingendo il gravame del lavoratore.
Contro la sentenza della Corte territoriale il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi.
L’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo si è difesa con controricorso, illustrato anche con memoria.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso, richiesta ribadita in pubblica udienza, nella quale sono intervenuti per discutere la causa anche i difensori delle parti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia «violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360, comma 1 , n. 3, c.p.c. per erronea applicazione dell’ art. 2 legge n. 740/70 in relazione all’art. 53 d.lgs. n. 165/2001».
Il ricorrente sostiene che la Corte d’Appello abbia errato nel ritenere applicabili ai medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena le incompatibilità tipiche del pubblico impiego, nonostante la specifica eccezione posta dall’art. 2 della legge n. 740 del 1970.
1.1. Il motivo è infondato, perché la Corte d’Appello ha ben interpretato la portata dell’art. 2 della legge n. 740 del 1970 e, in particolare, il suo rapporto con la disciplina generale dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.Proprio su tale rapporto tra le due disposizioni è invece errata la tesi prospettata dal ricorrente.
La legge n. 740 del 1970pone l’« Ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell’Amministrazione penitenziaria».
L’art. 2 disciplina il «Rapporto di incarico», stabilendo, al comma 2, che «Ai medici incaricati non sono applicabili le norme relative alla incompatibilità e al cumulo di impieghi né alcuna altra norma concernente gli impiegati civili dello Stato».
Il comma 3 aggiunge che «A tutti i medici che svolgono, a qualsiasi titolo, attività nell’ambito degli istituti penitenziari non sono applicabili altresì le incompatibilità e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale».
Il ricorrente interpreta tali disposizioni nel senso di porre una deroga all’obbligo di esclusiva che grava sui pubblici impiegati ai sensi dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Al contrario, come questa ha già avuto occasione di statuire, «La disposizione in commento è… volta a disciplinare il rapporto fra il sanitario e l’amministrazione penitenziaria ed esclude l’obbligo di esclusività, anche al fine di estendere la platea dei possibili aspiranti all’incarico, in considerazione della peculiare natura dello stesso». Invece, «la norma non incide sulla disciplina di rapporti diversi da quello al quale si riferisce e, pertanto, non conferisce al medico incaricato il diritto a cumulare l’incarico con qualsiasi altra attività, prescindendo dai requisiti che per quest’ultima il legislatore richiede.
Il distinto rapporto che viene in rilievo resta soggetto alle regole sue proprie, sicché, ove lo stesso sia caratterizzato dall ’ esclusività, l’obbligo resta immutato, e non rileva che l’incarico ulteriore che si pretende di svolgere sia riconducibile alle previsioni della legge n. 740/1970» (Cass. n. 20880/2018).
In altri termini, tra l’art. 2 della legge n. 740 del 1970 e l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 non vi è alcuna incompatibilità , né il primo pone una deroga al secondo , perché ciascuno è volto a disciplinare un diverso rapporto.
L’art. 2 della legge n. 740 del 1970 esclude che il «Rapporto di incarico» dei medici presso gli istituti di prevenzione e di pena sia un rapporto di lavoro dipendente con la pubblica amministrazione e stabilisce che ad esso non si applicano incompatibilità analoghe a quelle previste per il pubblico impiego e per i medici dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale.
Ma nulla consente di ritenere che la legge n. 740 del 1970, e l’art. 2 in particolare, interferiscano con la disciplina del pubblico impiego, che è estranea alla sedes materiae. «Da ciò discende che il medico legato ad una pubblica amministrazione da rapporto di impiego a tempo indeterminato, in relazione a detto rapporto ed agli obblighi che dallo stesso scaturiscono, è tenuto al rispetto dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che richiama il regime delle incompatibilità ed il divieto di cumulo di cui al d.P.R. n. 3/1957, sicché non può sottrarsi alle conseguenze derivanti dalla violazione del divieto facendo leva sulla disciplina dettata, ad altri fini, dal menzionato art. 2 della legge n. 740/1970, che la Corte territoriale, correttamente, ha ritenuto non applicabile alla fattispecie» (così, ancora, Cass. n. 20880/2018 cit., alla cui motivazione si rinvia ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.).
2. Il secondo motivo di ricorso censura «violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360, comma 1 , n. 3, c.p.c., per violazione e/o falsa applicazione dell’ art. 53 D.lgs. 165/2001».
Si contesta alla Corte territoriale di avere ritenuto operanti le incompatibilità tipiche del pubblico impiego, senza considerare che il rapporto di lavoro di dirigente medico instaurato tra il ricorrente e l’ASP Palermo era un rapporto a tempo determinato.
2.1. Anche questo motivo è infondato.
Quantunque la temporaneità del rapporto di pubblico impiego instaurato dal ricorrente con l’ASP di Palermo distingua la presente fattispecie da quella esaminata nel citato precedente (Cass. n. 20880/2018), tale distinzione non ha la rilevanza che nel ricorso le si vorrebbe attribuire.
Infatti, il regime delle incompatibilità è posto nell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 in termini generali, senza distinzioni tra rapport i di pubblico impiego a tempo determinato e rapporti a tempo indeterminato . Sono oggetto di separata considerazione soltanto «i rapporti di lavoro a tempo parziale» (commi 1 e 6), da contrapporre ai rapporti a tempo pieno.
Pertanto, il rapporto di pubblico impiego instaurato con la ASL Palermo, quantunque a tempo determinato, vincolava il medico al regime delle incompatibilità posto dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, sicché era perfettamente legittima la clausola in tal senso inserita nel contratto, senza che ne possa scaturire la pretesa responsabilità per danni in capo alla pubblica amministrazione.
3. Respinto il ricorso, le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
4. Si dà atto che sussistono i presupposti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bisdello stesso articolo 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in € 3.000, oltre a spese generali al 15%, € 200 per esborsi e accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte suprema di cassazione il giorno 11.9.2024
Il Consigliere Estensore Il Presidente
Andrea Zuliani Lucia Tria
Depositato in Cancelleria il giorno 17 ottobre 2024