Licenziamento individuale: l’indennità ex art. 18 non esclude il danno morale (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 23 ottobre 2023, n. 29335).

L A    C O R T E    S U P R E M A    D I    C A S S A Z I O N E

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.  ADRIANA DORONZO – Presidente –

Dott.  ROBERTO RIVERSO – Rel. Consigliere –

Dott.  ANTONELLA PAGETTA – Consigliere –

Dott. CARLA PONTERIO – Consigliere –

Dott. GUGLIELMO CINQUE – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 2006-2019 proposto da:

(omissis) (omissis), elettivamente domiciliato in ROMA, (omissis) (omissis) 209, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis), rappresentato e difeso dall’avvocato (omissis) (omissis) (omissis);

– ricorrente –

contro

(omissis) (omissis) ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (omissis) (omissis) 161, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis), che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 800/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/07/2018 R.G.N. 1240/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/09/2023 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO.

Fatti di Causa

La Corte d’appello di Milano con la sentenza in atti, respingendo l’appello principale proposto da (omissis) (omissis) e quello incidentale svolto da (omissis) (omissis) Italia Srl, ha confermato la sentenza di primo grado condannando (omissis) (omissis) alla rifusione delle spese del grado liquidate in € 3500, oltre spese generali ed oneri di legge.

Per quanto ancora di interesse – relativamente ai danni subiti da (omissis) (omissis) in conseguenza del licenziamento disposto il 7 luglio 2010 con l’accusa di furto di beni aziendali da cui il lavoratore era uscito indenne sia in sede penale che nel giudizio di impugnazione dell’atto espulsivo (sentenza del 13.3.2013 passata in giudicato) – la Corte di appello, premesso che il lavoratore ricorrente aveva già ottenuto la condanna al risarcimento dei danni ex art. 18 st. lav. e quella relativa ai danni professionali (per perdita di chance e di lesione di immagine) subiti per inadempimento dell’ordine di reintegra (il ricorrente venne dispensato dal servizio fino al 21.10.2016, quando presentò ricorso in giudizio), ha confermato l’esclusione di qualsiasi altro danno di natura professionale per la totale inattività subita dal lavoratore nel periodo precedente, dal licenziamento alla reintegra (dal 2010 al 2013); nonché i danni esistenziali e quelli morali per licenziamento ingiurioso.

Ha affermato in proposito la Corte che, per quanto riguardava la domanda di risarcimento dei danni professionali relativamente al periodo dal licenziamento alla sentenza di reintegra di primo grado (dal 2010 al 2013), il ricorrente si era limitato a richiamare la giurisprudenza relativa al risarcimento del danno alla professionalità per inadempimento dell’ordine di reintegra; in ogni caso, secondo la Corte, il risarcimento del danno alla professionalità non poteva essere riconosciuto per essere esso già compreso nell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 Statuto.

Quanto al danno morale da licenziamento ingiurioso poteva essere risarcito solo qualora fossero state provate particolari forme o modalità offensive del recesso, le quali nel caso di specie non erano state dimostrate, né potevano identificarsi con l’accusa di furto posta a base del licenziamento.

Avverso la sentenza ha proposto appello per cassazione (omissis) (omissis) con quattro motivi ai quali ha opposto resistenza di (omissis) (omissis) Italia Srl con controricorso.

Le parti hanno depositato memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380-bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.

CONSIDERATO CHE

1.- Il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della l.300/70 anche in relazione con l’art. 2103 c.c. ex art. 360 n. 3, avendo la Corte d’appello violato le norme indicate, essendo principio noto quello per cui nel regime di tutela reale la predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore non esclude che lo stesso possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore che gli sia derivato dal licenziamento; come già più volte statuito da questa Corte di cassazione (Cass. nn. sentenza 8006/2014, 9073/2013, 30668/ 2011).

1.2.- Anzitutto non può accogliersi l’eccezione di genericità del motivo o infondatezza in ragione della giurisprudenza citata dal ricorrente.

Il ricorrente ha specificamente dedotto di aver subito un danno alla professionalità dal momento del licenziamento, nel giugno 2010, fino alla effettiva reintegra, nell’ottobre 2016. I giudici di merito gli hanno riconosciuto il risarcimento del danno alla professionalità (per perdita di chance e lesione all’immagine) soltanto per il periodo dalla sentenza che annullava il licenziamento (marzo 2013) all’effettiva reintegra, negandogli quello subito nel periodo precedente, sostenendo che il danno alla professionalità, dal licenziamento alla sentenza di reintegra, sarebbe stato liquidato con l’indennità risarcitoria ex art. 18 l. 300/1970 (nella versione ante legge 90/2012 e post legge 108/1990).

Va ricordato in proposito che secondo la giurisprudenza costante di questa Corte nel regime di tutela reale la predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore (con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione) non esclude che questi possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore che gli sia derivato dal licenziamento (Cass. 14 aprile 2013 n. 9073; Cass. 30 dicembre 2011 n. 30668; Cass. n. 8006/2014, Cass n. 15/2021; Cass. n. 10203/2002).

E tale affermazione, va qui chiarito, deve valere per il periodo successivo alla sentenza di reintegra come per il periodo precedente; a nulla rilevando che la giurisprudenza citata dal lavoratore si riferisca soltanto al periodo successivo, dovendo il giudice applicare comunque alla domanda le regole di diritto vigenti, secondo il noto principio condensato nell’art. 113 c.p.c. (iura novit curia).

L’indirizzo di questa Corte va riferito dunque non soltanto al periodo successivo all’ordine di reintegra, posto che non si discute delle conseguenze della mera inottemperanza dell’ordine di reintegra e che la pronuncia della sentenza di annullamento del licenziamento non comporta alcuna immutazione ontologica nell’esistenza del danno alla professionalità dedotto in giudizio sulla scorta di una medesima allegazione riferita ad una condotta illecita unitaria.

1.3.- Il ricorrente ha, invero, dedotto:

– di non aver lavorato per licenziamento dal 7 luglio 2010 fino al marzo 2013 (data della reintegra), di essere rimasto inattivo per un lungo periodo che si è protratto anche dopo la sentenza di reintegra essendo stato dispensato dalla prestazione lavorativa per impossibilità della collocazione (fino al 21.10.2016);

– di aver rivestito prima del licenziamento il ruolo di responsabile essendo inquadrato con funzioni direttive attraverso la conduzione e il controllo di rilevanti unità organizzative (12-13 unità impiegatizie e circa 60-70 esterni);

– che il danno alla professionalità era legato alla gravità della condotta, alla inattività, alla durata, all’anzianità maturata, alla perdita del coordinamento, alla rapida evoluzione del settore nel quale operava; che l’inattività durava da oltre 5 anni compreso il periodo del licenziamento;

– che all’epoca dei fatti aveva maturato un’anzianità di servizio di circa trent’anni cosa che dimostrava il possesso di un solido bagaglio professionale di competenze maturate; che aveva perduto il ruolo di responsabile, le mansioni direttive, il coordinamento del personale;

– che operava nel settore della logistica legata al mondo delle telecomunicazioni, soggetto a continue e rapide evoluzioni tecnologiche, posto che tali evoluzioni non riguardano solo le tecnologie e i prodotti ma a cascata influiscono sulle strategie aziendali le procedure i software;

– che aveva subito anche una perdita di chance (in relazione ai premi aziendali).

La Corte non dà conto delle ragioni per cui queste circostanze – che erano valse al ricorrente il riconoscimento del danno alla professionalità (da perdita di chance e lesione dell’immagine professionale) per il periodo successivo alla reintegra – perdano di rilevanza per il periodo precedente alla sentenza di reintegra, essendosi essa limitata ad affermare, in modo pressoché tautologico che il danno alla professionalità prodottosi fino alla sentenza sarebbe ricompreso nell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 della legge 300/1970, mentre quello successivo alla sentenza non lo sarebbe.

Per contro, l’art. 18, 4 comma, nella versione risultante dalla legge n. 108 del 90 (applicabile alla fattispecie), prevedeva per tutti i casi di illegittimità del licenziamento (al pari della versione applicabile ai casi di nullità del licenziamento ex art 18, comma 2 post legge Fornero n. 92/2012 ) “il risarcimento del danno…commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione”, senza nessuna differenza nei due periodi intermediati dalla pronuncia della sentenza.

1.5.- Va ancora ribadito che l’indennità spettante ex art. 18, comma quarto, legge n. 300 del 1970, al dipendente illegittimamente licenziato è destinata a risarcire il danno intrinsecamente connesso alla impossibilità materiale di eseguire la prestazione lavorativa.

Sicché la previsione e la corresponsione di tale indennità non escludono che il lavoratore licenziato (prima o dopo la reintegra) possa avere subito danni ulteriori alla propria professionalità o alla propria immagine a causa del licenziamento o della mancata reintegrazione.

1.6. Ciò appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che nella parte in cui discorre di danni ulteriori rispetto a quelli inevitabilmente connessi alla mancata prestazione lavorativa, ne ammette la configurabilità all’unica condizione del rispetto dell’onere probatorio da parte del lavoratore (sentenza n. 10203 del 13/07/2002), senza che rilevi la collocazione temporale dei medesimi danni rispetto alla pronuncia della sentenza di reintegra.

Anche Cass. n. 8006/2014 non esclude che il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore che gli sia derivato al licenziamento (come Cass. 14 aprile 2013 n. 9073 e Cass. 30 dicembre 2011 n. 30668).

1.7. – E’ stato infatti precisato in dette pronunce che in tema di risarcimento dei danni da licenziamento illegittimo, mentre in relazione alla misura del risarcimento dei pregiudizi economici che si configurano come ineliminabili e immancabili conseguenze dell’inattività lavorativa da licenziamento illegittimo, ai quali si riferisce l’indennità di cui all’art. 18, comma quarto, cit., incombe sul datore di lavoro l’onere di provare che nel corso della sospensione del rapporto lavorativo il lavoratore abbia eventualmente percepito emolumenti che non avrebbe percepito se non fosse stato licenziato; grava invece sul lavoratore l’onere di provare di avere subito danni alla propria professionalità e alla propria immagine ulteriori e diversi da quelli già indennizzati attraverso l’attribuzione della indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto per il periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione.

Il problema è dunque di prova e non ontologico, posto che il risarcimento stabilito dall’art. 18 della l. 300/70 non ha attinenza con gli altri danni, diversi dalla perdita della retribuzione globale di fatto, che il lavoratore deduce di aver subito, nel medesimo periodo di forzata inattività, sia patrimoniali che non patrimoniali, né in particolare con il danno alla professionalità -nei termini configurati dalla giurisprudenza di questa Corte -Cass. n. 24585 del 02/10/2019 – con l’unico onere di fornirne la prova.

2.- Col secondo motivo il ricorso ha dedotto, ex art. 360 n. 5 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in quanto il Collegio non si era pronunciato sulla domanda di risarcimento del danno esistenziale da licenziamento illegittimo limitandosi a decidere solo sul danno morale.

Ancorché la censura rechi in rubrica l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c., in realtà nel corpo del motivo il ricorrente deduce con chiarezza un’omessa pronuncia su un capo della domanda(che avrebbe dovuto più correttamente inquadrare nel vizio ex art. 360 n.4 c.p.c.), sicché l’erronea indicazione della norma violata non ne impedisce l’esame (Cass.7981/2007; Cass. 10862/2018). Il motivo è fondato (cfr. Cass. n. 12690/2018) atteso che, nonostante le deduzioni contenute nel ricorso di primo grado e nell’atto di appello (riprodotto nel ricorso per cassazione a pagg. 11, 12, 13), nulla è stato detto in sentenza a proposito del danno esistenziale da licenziamento rivendicato in giudizio.

2.1. In materia, va ricordato che questa Corte di cassazione con la sentenza n. 345/2015 ha già riconosciuto che oltre alla reintegra nel posto di lavoro il lavoratore ha diritto a risarcimento del danno sub specie di danno non patrimoniale ed in particolare di danno esistenziale. Il danno esistenziale, infatti, pur non integrando una autonoma categoria di pregiudizio, rientra nel danno non patrimoniale la cui liquidazione è il risultato di una valutazione equitativa ed unitaria basata su tutte le circostanze del caso concreto.

2.2. Nel caso in esame il ricorrente ha dedotto, sotto questo profilo, che ricopriva un ruolo direttivo di responsabile, che la famiglia poteva contare solo sul suo reddito, che di colpo aveva perduto il lavoro a causa di un licenziamento per furto di beni aziendali, che era stato perseguito penalmente e costretto senza stipendio ad affrontare vari procedimenti giudiziari, ed a stare in casa inattivo, senza lavoro, senza stipendio e che il fatto aveva avuto risonanza in tutta l’azienda ed era stato espressamente comunicato dalla datrice di lavoro a tutte le sedi di non farlo accedere in azienda. Queste le circostanze allegate sotto il profilo del danno esistenziale su cui il collegio milanese ha omesso di pronunziarsi.

2.3. Neppure può ritenersi che tale profilo di danno si confonda con quello relativo al danno morale da licenziamento ingiurioso, parimenti dedotto e di cui si tratta nel capo successivo, attenendo i due pregiudizi a domande diverse e configurando essi distinti profili del danno non patrimoniale che vanno autonomamente apprezzati (l’uno sul piano intimo del dolore e l’altro sul piano delle ricadute relazionali proiettate all’esterno, anche unitariamente a quelle professionali di natura non professionale, di cui si è detto al capo precedente).

2.4.- In materia va ribadito che questa Corte con la sentenza n. 30668/2011 (richiamando la sentenza della Cassazione a S.U. n. 26973/2008) ha già ribadito la presenza nell’ordinamento del danno esistenziale (come “pregiudizio al fare aredittuale determinante una modifica peggiorativa da cui consegue uno sconvolgimento dell’esistenza e in particolare delle abitudini di vita con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare”), sicché deve ritenersi che nessuna limitazione sia consentita nella liquidazione del danno non patrimoniale (biologico, morale ed esistenziale) comprovato in ciascun giudizio, dovendosi valutare l’autonomia dei titoli risarcitori in riferimento alla sostanziale diversità del tipo di pregiudizio scaturito dalla lesione dei valori della persona determinata dal licenziamento.

2.5.- E’ stato di recente osservato da questa Corte (Cass. n.25191/2023), in materia di danni n on patrimoniali a fronte della procurata totale inidoneità lavorativa con cessazione forzosa dell’attività, che “il danno morale, all’interno della categoria unitaria del danno non patrimoniale, dà rilievo ai pregiudizi del danno alla persona che attengono alla dignità ed al dolore soggettivo ovvero a quei pregiudizi interiori rilevanti sotto il profilo del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione, che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, sono differenti ed autonomamente apprezzabili sul piano risarcitorio rispetto agli effetti dell’illecito incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano cioè nell’ambito delle relazioni di vita esterne; cfr. sez. 3, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018).

Secondo il richiamato insegnamento giurisprudenziale, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius sul la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, in quanto provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (cfr., ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 901 del 17/01/2018).”

2.6. Sul giudice del merito, pertanto, incombe l’obbligo di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze in peius derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici.

3.- Con il terzo motivo viene lamentato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 n. 5 c.p.c. posto che in relazione alla domanda di risarcimento del danno morale il collegio ha emesso una motivazione insufficiente, apparente e comunque sganciata dalle ampie deduzioni in fatto e dalle stesse prove documentali offerte; atteso che secondo l’unanime giurisprudenza il licenziamento ingiurioso si ha quando ad esempio quando l’azienda lo pubblicizzi pur non essendo necessario o gli attribuisca condotte dolose e/o a infamanti secondo il comune sentire, e nel caso di specie l’azienda aveva comunicato e diffidato tutti i responsabili dei vari siti a non farvi accedere il signor (omissis).

3.1. Il motivo va rigettato, perché la censura sollevata si limita a sollecitare una rilettura e una diversa valutazione del materiale di prova, e si risolve nella domanda a questa Corte di legittimità di un nuovo accertamento di fatto, estraneo ai suoi compiti ed invece prerogativa del giudice di merito.

Nel caso di specie la Corte di appello, come già il primo giudice, ha affermato che il licenziamento ingiurioso non si identifica con la sua illegittimità e che il ricorrente non aveva provato quali fossero le particolari forme o modalità offensive del recesso, non potendosi esse identificare con l’accusa di furto posta a base del licenziamento.

Si tratta di una motivazione congrua e non apparente, come sostiene il ricorrente, il quale deduce pure un inammissibile vizio di insufficienza della motivazione che si pone al di fuori dell’art 360 c.p.c. ed è pure in contrasto con la preclusione da doppia conforme ex art. 348-ter c.p.c.

4.- Infine, col quarto motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.

Il motivo è assorbito dovendo essere le spese dell’appello da riliquidare per la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad un nuovo giudice.

5.- In conclusione il ricorso deve essere accolto nei limiti indicati e la sentenza cassata di conseguenza; la causa va rinviata al giudice indicato in dispositivo il quale nella decisione della stessa si atterrà ai principi sopra indicati e procederà altresì alla regolazione delle spese del giudizio di Cassazione.

Non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002,.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso, rigetta il terzo e dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in camera di consiglio all’adunanza del 13 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.