REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUARTA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. SALVATORE DOVERE – Presidente –
Dott. LUCIA VIGNALE – Relatore –
Dott. DANIELA CALAFIORE – Consigliere –
Dott. EUGENIA SERRAO – Consigliere –
Dott. MARINA CIRESE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(omissis) (omissis) (omissis) nata a (omissis) il 13/03/1984;
avverso l’ordinanza del 26/10/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa LUCIA VIGNALE;
lette le conclusioni del PG, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 26 ottobre 2023, la Corte d’appello di Palermo ha respinto la domanda formulata da (omissis) (omissis) (omissis) per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta detenzione sofferta dal 25 agosto 2019 al 19 dicembre 2019.
2. (omissis) (omissis) (omissis) fu tratta in arresto il 25 agosto 2019, insieme alla sorella (omissis) (omissis), con l’accusa di aver concorso al ferimento dei vicini di casa, (omissis) (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis); ferimento materialmente compiuto da (omissis) (omissis) la quale, usando una pistola a piombini, aveva colpito la (omissis) allo zigomo destro, (omissis) al polpaccio destro e al braccio sinistro.
L’arresto fu eseguito anche per violazione degli artt. 2, 4 e 7 della legge 2 ottobre 1967 n. 895 (come modificati dalla legge 14 ottobre 1974 n. 497): alle sorelle (omissis) fu contestato di aver detenuto un dissuasore multifunzionale da 300.000 volt.
Il 28 agosto 2019, all’esito dell’udienza di convalida, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo dispose la custodia in carcere sia nei confronti di (omissis) (omissis) (omissis), autrice materiale del ferimento, sia nei confronti di (omissis) (omissis) (omissis).
Ritenne, infatti, che l’odierna ricorrente avesse concorso nella condotta lesiva compiuta dalla sorella incoraggiandola ad agire. La misura custodiale fu disposta anche per la detenzione del dissuasore.
Fu fatta applicazione a tal fine dell’orientamento giurisprudenziale in base al quale «il dissuasore elettrico o “taser” ha natura di arma comune da sparo, in quanto è costituito da un dispositivo che ha il funzionamento tipico di tali armi e che, lanciando piccoli dardi che scaricano energia elettrica a contatto con l’offeso, è di certo idoneo a recare danno alla persona» (in tal senso: Sez. 2, n. 49325 del 25/10/2016, Calabrice, Rv. 268364; Sez. 1, n. 8991 del 16/09/2022, dep. 2023, Perna, Rv. 284379).
Con ordinanza del 17 settembre 2019 il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice del riesame, revocò la misura applicata a (omissis) (omissis) (omissis) per il reato di cui agli artt. 110, 61 n. 1, 582, 583 n. 4, 585 cod. pen. (capo a).
Osservò a tal fine che il fratello delle due indagate, (omissis) (omissis), aveva filmato tutte le fasi della lite e da quel video (allegato alla comunicazione di notizia di reato) emergeva: che era stata (omissis) (omissis) a puntare la pistola e a sparare; che (omissis) (omissis) era intervenuta, incitandola a prendere e caricare un fucile, quando il ferimento era già avvenuto e mentre qualcuno lanciava oggetti verso l’ingresso della abitazione delle sorelle.
La misura cautelare fu mantenuta per il delitto di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge 895/1967 (capo b) perché il Tribunale fece propria la qualificazione giuridica del dissuasore elettrico come arma comune da sparo.
L’odierna ricorrente fu assolta «per non aver commesso il fatto» dall’imputazione di cui al capo a) con sentenza del 18 dicembre 2019 pronunciata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo all’esito di giudizio abbreviato.
Con questa sentenza, il G.u.p. ritenne che (omissis) (omissis) (omissis) fosse responsabile del reato di cui al capo b) e, per questo reato, la condannò alla pena di mesi dieci di reclusione ed € 3.000,00 di multa.
Con provvedimento del 19 dicembre 2019, (omissis) (omissis) (omissis) fu posta in libertà con obblighi. In grado di appello la ricorrente è stata assolta «perché il fatto non sussiste» dall’imputazione di cui al capo b).
La sentenza. di assoluzione, pronunciata dalla Corte di appello di Palermo il 7 gennaio 2021, è divenuta irrevocabile il 23 aprile 2021.
2.1. La domanda di liquidazione dell’equa riparazione per la detenzione subita è stata avanzata da (omissis) (omissis) (omissis) il 12 aprile 2023 ed è stata respinta dalla Corte di appello di Palermo.
Secondo la Corte territoriale la (omissis) ha dato causa (o comunque ha concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale con un comportamento gravemente colposo consistito nell’aver preso parte alla lite – incitando la sorella a caricare un fucile ad aria compressa – e nell’aver detenuto, insieme alla sorella, quel fucile e un dissuasore a 300.000 volt che lei stessa consegnò agli ufficiali di Polizia giudiziaria intervenuti a sedare la lite.
Più in particolare, secondo la Corte di appello, pur non avendo concorso alla condotta della sorella, la (omissis) tenne comportamenti tali da essere percepiti come indicativi di contiguità con quella condotta e tali comportamenti erano oggettivamente idonei a determinare l’intervento dell’Autorità: integrano, dunque, una colpa grave ostativa al diritto alla riparazione.
3. Per mezzo del proprio difensore, munito di procura speciale, (omissis) (omissis) (omissis) ha proposto ricorso contro l’ordinanza di rigetto della domanda di riparazione per ingiusta detenzione.
3.1. Col primo motivo, la ricorrente lamenta illogicità e contraddittorietà della motivazione.
Osserva che l’ordinanza impugnata non ha tenuto conto della scansione temporale degli eventi del 25 agosto 2019 e tale scansione temporale è stata invece valutata decisiva dai giudici del riesame, che hanno escluso l’esistenza di un grave quadro indiziario a carico di (omissis) (omissis) (omissis) perché ella non intervenne mentre la sorella sparava e, solo in un secondo momento, la incitò a prendere e caricare un fucile; ma, quando lo fece, il ferimento era già avvenuto e qualcuno stava lanciando oggetti verso le finestre e l’ingresso dell’abitazione che le due sorelle condividevano.
La difesa osserva che, proprio in ragione della scansione temporale degli eventi, il Tribunale per il riesame di Palermo revocò la misura cautelare con riferimento al reato di lesioni aggravate e, pertanto, nel respingere la domanda di riparazione, la Corte di appello avrebbe dovuto spiegare perché l’incitamento a caricare un fucile per difendersi da una aggressione avrebbe carattere gravemente colposo e perché avrebbe potuto essere indicativo del concorso morale in una condotta lesiva ormai esaurita.
3.2. Col secondo motivo, la difesa lamenta erronea applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen.
Osserva che l’ordinanza applicativa della misura cautelare è stata annullata con riferimento al reato di lesioni di cui al capo a) con provvedimento in data 17 settembre 2019 e la privazione della libertà personale si è protratta fino al 19 dicembre 2019 solo per la detenzione di armi contestata al capo b).
Il difensore rileva che, diversamente da quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, l’imputazione di cui al capo b) non faceva riferimento alla detenzione di un fucile ad aria compressa, ma solo alla detenzione del dissuasore elettrico.
Sottolinea che fu proprio (omissis) (omissis) (omissis) a consegnare il dissuasore agli operanti e che le sorelle sono state assolte entrambe dall’imputazione di cui al capo b) perché la Corte di appello ha escluso che quel particolare dissuasore fosse un’arma.
Secondo la difesa, dal 17 settembre al 19 dicembre 2019, (omissis) (omissis) (omissis) è stata sottoposta alla custodia cautelare in carcere per la detenzione di un’arma comune da sparo dalla quale è stata definitivamente assolta perché la Corte di appello di Palermo ha ritenuto che il dissuasore non fosse un’arma.
Nel caso di specie, dunque, il giudizio di cognizione avrebbe accertato che la custodia cautelare in carcere è stata mantenuta senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 cod. proc. pen.
4. Nei termini di legge il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Nello stesso senso ha concluso l’Avvocatura generale dello Stato con memoria del 15 febbraio 2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
È fondato invece, nei termini che saranno di seguito specificati, il secondo motivo.
2. Per maggiore chiarezza espositiva, prima di procedere nell’esame dei motivi di ricorso occorre delineare l’oggetto del presente giudizio di riparazione con maggior precisione di quanto non sia stato fatto nell’ordinanza impugnata.
Non è sufficiente a tal fine il riferimento all’art. 314 cod. proc. pen., atteso che possono ricondursi entro l’ambito operativo di questa norma più ipotesi di ingiusta privazione della libertà personale in relazione alle quali il sorgere del diritto all’indennizzo si fonda su presupposti diversi.
Nel presente procedimento hanno astratta rilevanza due diverse ipotesi di applicazione dell’istituto in esame:
– la prima, disciplinata dal primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., riguarda la, così detta, “ingiustizia sostanziale” della detenzione e si verifica quando una persona – prosciolta perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato – era stata sottoposta, per quel fatto, a misura cautelare privativa della libertà personale;
– la seconda, disciplinata dall’art. 314 comma 2, cod. proc. pen., riguarda la così detta “ingiustizia formale” e si verifica quando una persona – prosciolta per qualsiasi causa o anche condannata – sia stata sottoposta, nel corso del procedimento o del processo, a misura cautelare privativa della libertà personale e si sia accertato, con decisione irrevocabile, che la misura era stata disposta o mantenuta «senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280» del codice di rito.
Dopo una iniziale incertezza, la giurisprudenza si è consolidata nel senso che la nozione di «decisione irrevocabile» di cui all’art. 314, comma 2, comprenda, oltre alle decisioni adottate in fase cautelare, anche quelle adottate all’esito del giudizio di merito, sempre che dalle stesse si evinca la mancanza, sin dall’origine, delle condizioni di applicabilità della misura (fra le tante: Sez. 4, n. 8869 del 22/01/2007, Frajese, Rv. 240332; Sez. 4, n. 23896 del 09/04/2008, Greco, Rv. 240333; Sez. 4, n. 43458 del 15/10/2013, Taliento, Rv. 257194; Sez. 4, n. 39535 del 29/05/2014, Scalise, Rv. 261408; Sez. 4, n. 29340 del 22/05/2018, Gallace, v. 273089).
2.1. La giurisprudenza di legittimità si è interrogata sulla possibilità di applicare ad entrambe le ipotesi di ingiusta detenzione sopra indicate la causa ostativa espressamente prevista dall’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. per chi abbia dato causa o concorso a dar causa con dolo o colpa grave alla privazione della libertà personale.
A questo proposito si è sottolineato che, ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo, può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena, ed è conforme al fondamento solidaristico dell’istituto che non possa considerarsi “ingiusta” la privazione della libertà personale causata (o concausata) da una condotta dolosa o gravemente colposa dell’interessato (cfr: Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606; Sez. 4, n. 35689 del 09/07/2009, Farris, Rv. 245311).
Con riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che «la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.» e, tuttavia, tale causa ostativa non può operare quando l’accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663).
In questo caso, infatti, la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dolosa o colposa dell’imputato è preclusa dalla constatazione che il giudice della cautela disponeva, per negare o revocare la misura, degli stessi elementi sulla base dei quali il giudice di merito ha escluso la sussistenza delle condizioni di applicabilità della stessa; sicché la condotta dell’interessato, ancorché dolosa o gravemente colposa, non può aver avuto efficacia sinergica rispetto alle determinazioni assunte nella fase cautelare.
A questo orientamento la giurisprudenza di legittimità si è costantemente uniformata affermando che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, l’aver dato causa (o concorso a dare causa) alla custodia cautelare per dolo o colpa grave «non opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto, qualora l’accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare» (fra le tante: Sez. 4, n.5452 del 11/01/2019, Raso, Rv. 275021; Sez. 4, n. 54042 del 09/11/2018, Longordo, Rv. 274765).
Muovendosi nel solco tracciato dalla sentenza D’Ambrosio, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che l’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. possa trovare applicazione anche quando l’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura sia conseguenza della qualificazione attribuita ai fatti all’esito del giudizio di merito.
Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è stato dunque ritenuto sussistente:
– nell’ipotesi di misura cautelare applicata in difetto di una condizione di procedibilità, la cui necessità sia stata accertata all’esito del giudizio di merito in ragione di diversa qualificazione attribuita ai fatti rispetto a quella ritenuta nel corso del procedimento cautelare (Sez 4. n. 39535 del 29/5/2014, Scalise, Rv. 261408; Sez. 4 n. 43458 del 15/10/2013, Taliento, Rv. 257194; Sez. 4 n. 23896 del 9/4/2008, Greco, Rv. 240333).;
– nell’ipotesi in cui la diversa qualificazione giuridica abbia portato a ritenere applicabile una fattispecie incriminatrice che non avrebbe consentito l’applicazione di misure cautelari privative della libertà personale in ragione della pena edittale, inferiore ai limiti indicati nell’art. 280, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 16175 del 22/04/2021, Bosio, Rv. 281038; Sez. 4, n. 26261 del 23/11/2016, Ministero Economia Finanze, Rv. 270099; Sez. 4, n. 8021 del 28/01/2014, Gennusa, Rv. 258621; Sez. 4 n. 44596 del 16/4/2009, De Cesare, Rv. 245437; Sez. 4 n. 8869 del 22/1/2007, Frajese, Rv. 240332).
In queste ipotesi, all’accertamento della illegittimità della misura consegue, ai sensi dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., il diritto all’indennizzo.
La verifica che l’imputato abbia dato causa o concorso a dare causa alla custodia con dolo o colpa grave è di regola necessaria anche in questi casi, ma non lo è ogniqualvolta l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura sia avvenuta sulla base dei medesimi elementi in forza dei quali il giudice cautelare aveva ritenuto di dover disporre la privazione della libertà personale.
3. Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha individuato quali condotte ostative al riconoscimento del diritto: l’aver incitato la sorella a caricare un fucile ad aria compressa; l’aver detenuto quel fucile e un dissuasore elettrico.
Non è illogico né contraddittorio aver ritenuto gravemente colposo l’incitamento alla sorella ad armarsi di un fucile.
La circostanza che ciò sia avvenuto in un momento successivo al ferimento, mentre qualcuno lanciava oggetti verso l’abitazione delle due sorelle – valorizzata nel giudizio di cognizione per escludere il concorso nel reato di lesioni – non rileva in senso contrario.
Neppure la ricorrente, infatti, ha sostenuto che tale condotta sia stata realizzata in una situazione di legittima difesa (ciò che ne escluderebbe in radice l’antigiuridicità); non risulta che, nel momento in cui (omissis) (omissis) (omissis) incitò la sorella a prendere il fucile e a caricarlo, lei e i suoi congiunti si trovassero in una situazione di pericolo grave ed attuale non fronteggiabile in altro modo che caricando un fucile a pallini; nulla consente di ipotizzare che vi fosse proporzione tra l’offesa temuta e la difesa così attuata.
Secondo la Corte di appello, tale condotta, unita alla detenzione di un fucile ad aria compressa e di un dissuasore ad alto voltaggio, fu gravemente imprudente, perché tale da rendere prevedibile l’intervento dell’Autorità giudiziaria e l’adozione di provvedimenti restrittivi.
Il ragionamento sviluppato è congruo e immune dalle censure che gli vengono addebitate perché conforme al principio di autoresponsabilità, più volte richiamato in questa materia, in ragione del quale la regola solidaristica sottesa al diritto all’equa riparazione, non può essere invocata in presenza di una condotta volta alla realizzazione di un evento voluto confliggente con una prescrizione di legge, ma neppure a fronte di una condotta consapevole che – valutata dal giudice della riparazione secondo le ordinarie regole di esperienza – sia tale da creare una situazione di allarme sociale che imponga l’intervento dell’Autorità giudiziaria.
È pertanto, in questo senso, gravemente colposo quel comportamento che, pur non integrando il reato, ponga in essere – per grave negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari – una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (cfr. Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203637).
A questo proposito si deve sottolineare che, come risulta dall’ordinanza impugnata, il Tribunale del riesame non ha escluso che (omissis) (omissis) (omissis) abbia incitato la sorella a caricare il fucile e fosse consapevole del fatto che in casa c’erano un dissuasore ad alto voltaggio e armi ad aria compressa.
Ha ritenuto, invece, che tali condotte non fossero sufficienti a provare il concorso dell’odierna ricorrente nel reato di lesioni realizzato dalla sorella.
Alle stesse conclusioni è giunto il G.u.p. che ha assolto l’odierna ricorrente dall’imputazione di cui al capo a) sicché la condotta valutata come gravemente colposa dall’ordinanza impugnata non è stata esclusa nel giudizio di merito.
4. Per quanto esposto, l’ordinanza impugnata non merita censura quando sostiene che la ricorrente contribuì con un comportamento gravemente colposo alla privazione della libertà personale sofferta per la ritenuta sussistenza di gravi indizi del reato di cui agli artt. 110, 61 n. 1, 582, 583 n. 4, 585 cod. pen.
Tale comportamento, però, può aver avuto rilevanza sinergica soltanto con riferimento alla privazione della libertà personale subita dal 25 agosto al 17 settembre 2019.
La (omissis), infatti, è stata detenuta con l’accusa di aver concorso nel reato di lesioni commesso dalla sorella solo fino a questa data e la detenzione si è protratta fino al 19 dicembre 2019 per il reato di cui agli artt. 2, 4 e 7 legge 895/67.
Dal 17 settembre al 19 dicembre 2019 (omissis) (omissis) (omissis) è stata ristretta in carcere per aver detenuto «un dissuasore multifunzionale marca TW- 10 da 300.000 volt costituente arma comune da sparo» (così recita testualmente il capo b dell’imputazione).
L’ordinanza impugnata dà atto che da questo reato la ricorrente è stata assolta «perché il fatto non sussiste», ma sostiene che, detenendo il dissuasore, un fucile a pallini e incitando la sorella a farne uso, la (omissis) avrebbe dato causa anche a tale ulteriore privazione della libertà personale.
L’ordinanza impugnata non spiega se la sentenza definitiva di assoluzione – secondo la quale il dissuasore oggetto di imputazione non era un’arma comune da sparo – sia giunta a tali conclusioni sulla base di elementi acquisiti nel corso del giudizio o abbia tenuto conto, diversamente valutandoli, dei medesimi elementi trasmessi ai giudici della cautela.
5. Col secondo motivo di ricorso, la difesa osserva che le sorelle (omissis) sono state assolte dall’imputazione di cui al capo b) perché si è escluso che il dissuasore da loro detenuto fosse un’arma comune da sparo.
Sul punto la difesa si era soffermata già nella domanda di riparazione, aveva evidenziato infatti che la natura di arma comune da sparo del dissuasore è stata esclusa dalla Corte di appello perché «il suo funzionamento presuppone l’applicazione diretta al corpo e non spara dardi elettrici» (pag. 3 dell’istanza).
La difesa sostiene che, nel caso in esame, l’assoluzione è dipesa da una diversa qualificazione giuridica del fatto dalla quale è emerso che la misura cautelare era stata mantenuta senza che sussistessero le condizioni di applicabilità di cui all’art. 273 cod. proc. pen. Invoca, quindi, l’applicazione dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen.
Il motivo è fondato.
Avendo escluso che il dissuasore detenuto dalla (omissis) possa essere considerato un’arma comune da sparo, i giudici della cognizione hanno qualificato il fatto ascritto all’imputata (detenzione di arma comune da sparo) come detenzione di strumento atto ad offendere e, in forza di tale diversa qualificazione giuridica, le condizioni di applicabilità della misura non sarebbero state sussistenti.
Si è già chiarito che, alla luce dei principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 32383/2010 (D’Ambrosio), quando l’accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avviene sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare l’aver dato causa (o concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale per dolo o colpa grave non opera quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione.
In questi casi, infatti, la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dolosa o colposa dell’imputato è preclusa dalla constatazione che il giudice della cautela disponeva, per negare o revocare la misura, degli stessi elementi sulla base dei quali il giudice di merito ha escluso la sussistenza delle condizioni di applicabilità della stessa, sicché la condotta dell’interessato, ancorché dolosa o gravemente colposa, non può aver avuto efficacia sinergica rispetto alle determinazioni assunte nella fase cautelare.
La Corte di appello avrebbe dovuto attenersi a questi principi e, pertanto, avrebbe dovuto chiarire se, nel caso in esame, la diversa qualificazione giuridica del fatto sia stata fondata su elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio, ovvero su elementi che erano già a disposizione del giudice della cautela e, solo nel primo caso, avrebbe potuto valutare l’eventuale ruolo sinergico della condotta dell’imputata nel protrarsi della privazione della libertà personale dal 17 settembre al 19 dicembre 2019.
6. All’accoglimento del secondo motivo di ricorso consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata limitatamente alla domanda relativa al periodo di detenzione sofferto tra il 17 settembre e il 19 dicembre 2019, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Palermo cui deve essere demandata anche la regolamentazione delle spese tra le parti del presente giudizio di legittimità. Nel resto il ricorso non merita accoglimento.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alla domanda per il periodo dal 17 settembre al 19 dicembre 2019 con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Palermo, cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso il 12 marzo 2024.
Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2024.