REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SESTA SEZIONE PENALE
Composta da
Giorgio Fidelbo -Presidente
Angelo Costanzo -Consigliere
Ercole Aprile -Consigliere
Martino Rosati -Relatore
Maria Sabina Vigna -Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis) nata a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza emessa il 26/09/2022 dalla Corte di appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Martino Rosati;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Antonio Balsamo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore della ricorrente, avv. (omissis) (omissis) che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con atto del proprio difensore, (omissis) (omissis) chiede alla Corte di cassazione di annullare la sentenza della Corte di appello di Brescia del 26 settembre 2022, che ne ha confermato la condanna per peculato, inflittale dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bergamo con sentenza del 30 giugno 2021.
Ella è accusata di essersi appropriata di oltre 55.000 euro, sottratti dall’attivo fallimentare della “(omissis) (omissis), di cui era curatrice, avendo chiesto ed ottenuto, dall’istituto bancario presso il quale era acceso il conto corrente della società fallita, due assegni circolari, tratti su tale conto e da lei girati in favore della “(omissis); s.r.l., di cui era amministratrice e socia al 50%.
2. Il ricorso poggia su due motivi.
2.1. Il primo consiste nel vizio cumulativo della motivazione, nella parte in cui è stata esclusa l’esistenza di un errore sul fatto, a norma dell’art. 47, cod. pen..
Indiscusso che non vi fosse la necessaria autorizzazione del giudice fallimentare al prelievo di dette somme, cui tuttavia l’imputata riteneva di aver diritto a titolo di compenso professionale per l’attività di curatrice da lei sino ad allora effettivamente svolta e che aveva consentito di realizzare un consistente attivo fallimentare, la sua difesa aveva sostenuto con l’atto d’appello che ella aveva agito nella convinzione che la relativa richiesta fosse stata avanzata al giudice da un suo collaboratore e che il relativo provvedimento fosse stato emesso; convinzione, questa, rafforzata dalla liquidazione effettuata dalla banca senza alcuna obiezione.
Si sostiene che, su entrambe tali circostanze, la sentenza d’appello abbia omesso di soffermarsi, limitandosi all’apodittica conclusione per cui l’imputata fosse certamente a conoscenza della mancata adozione di tale provvedimento, dal momento che si trattava di persona professionalmente qualificata e che collaborava spesso con il commercialista (omissis) più volte incaricato di curatela fallimentari.
Non pertinente, poi, sarebbe l’osservazione della Corte d’appello sull’irrilevanza dell’avvenuta liquidazione da parte della banca, in quanto – secondo quei giudici – successiva alla condotta dell’imputata e, pertanto, inidonea rafforzarne la convinzione dell’esistenza del provvedimento autorizzativo. Replica il ricorso, in proposito, che tale circostanza era stata evidenziata in appello soltanto a riprova di come anche un soggetto qualificato, qual è la banca, potesse incorrere in errore su tale aspetto.
2.2. La seconda doglianza denuncia il vizio della motivazione nella parte in cui è stata negata la circostanza attenuante del risarcimento del danno, a norma dell’art. 62, n. 6), cod. pen.
La sentenza impugnata, richiamando quella di primo grado, ha giustificato tale decisione in ragione del mancato risarcimento integrale, comprensivo non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello morale ed all’immagine subìto dalla curatela.
Evidenzia a confutazione il ricorso che la banca ha integralmente restituito alla curatela le somme corrispondenti a quegli assegni; che l’imputata ha raggiunto con tale istituto di credito un accordo transattivo, versandogli 41.500 euro; che ella ha personalmente corrisposto alla società fallita altri 20.000 euro; e che, infine, ha rinunciato al suo compenso, benché legittimamente spettantele e successivamente liquidatole dal giudice fallimentare nella misura di 63.000 euro (con disposizione poi revocata a séguito del sorgere del procedimento penale).
Considerando, quindi, che la richiesta per tutte tali voci di danno, avanzata dalla curatela fallimentare all’atto della costituzione nel processo come parte civile (poi revocata), era stata quantificata in misura non inferiore a 73.000 euro, e che tali danni morali e d’immagine non sono specificamente dimostrati, la motivazione sul punto si presenterebbe manifestamente illogica; inoltre, essa risulterebbe contraddittoria rispetto a quella con la quale la stessa sentenza impugnata ha giustificato la revoca della confisca, rilevando, appunto, come le somme indebitamente sottratte fossero state restituite alla curatela e come l’ablazione non possa superare l’entità del danno cagionato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, perché manifestamente infondato.
L’allegazione difensiva per cui l’imputata avrebbe chiesto alla banca l’emissione degli assegni nella convinzione di aver ottenuto la relativa autorizzazione dal giudice fallimentare è un puro asserto, poiché priva di qualsiasi conforto probatorio.
Per converso, la motivazione si fonda su una pluralità di dati di fatto indiscussi, che, valutati in coordinazione tra loro, rendono logicamente del tutto lineare la conclusione cui sono giunti entrambi i giudici di merito, vale a dire:
a) il nitido dato normativo di riferimento, ovvero l’art. 39, r.d. n. 267 del 1942, secondo cui il compenso e le spese dovuti al curatore sono liquidati secondo una ben definita procedura (istanza del curatore, relazione del giudice delegato e decreto del Tribunale), di regola dopo l’approvazione del rendiconto e, se del caso, dopo l’esecuzione del concordato, essendo prevista la possibilità di acconti sul compenso solamente in caso di giustificati motivi;
b) la qualità professionale dell’imputata e la sua specifica esperienza, avendo spesso collaborato prima d’allora con il suo socio affidatario di numerose curatele fallimentari;
c) le precedenti condotte delittuose analoghe realizzate da costui in altre procedure fallimentari;
d) soprattutto, la causale generica e non pertinente con le quali la (omissis) aveva giustificato nelle relative fatture le somme autoliquidatesi, inspiegabile qualora ella avesse agito in buona fede;
e) l’irrilevanza, infine, della condotta negligente della banca, in quanto – semmai la ricostruzione difensiva fosse vera – essa era intervenuta in un momento in cui la convinzione dell’esistenza dell’autorizzazione giudiziaria era stata già maturata dall’imputata.
2. È fondato, invece, il secondo motivo di ricorso, in tema di riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62, 6), cod. pen..
La sentenza ha escluso tale circostanza, sostenendo che sarebbe stato risarcito il solo danno patrimoniale, ma non anche quello morale e d’immagine.
Non specifica, tuttavia, gli elementi giustificativi di tali voci di danno, le quali rimangono perciò incerte, soprattutto ove si considerino le prestazioni risarcitorie intervenute medio tempore, la revoca della costituzione di parte civile della curatela, l’entità della domanda risarcitoria da essa avanzata all’atto di tale costituzione (stabilita, ancorché solo nel minimo, in 73.000 euro), la disposta revoca della confisca sul presupposto per cui «l’ablazione del bene non può superare l’entità del danno cagionato».
Per altro verso, occorre che la Corte d’appello chiarisca altresì i tempi e la genesi delle diverse prestazioni risarcitorie, valutando le stesse al lume dei seguenti princìpi di diritto:
– ai fini del riconoscimento dell’attenuante in questione, qualora si proceda – com’è avvenuto nel caso di specie – con il rito abbreviato, la riparazione del danno mediante risarcimento o restituzione deve intervenire prima che sia pronunciata l’ordinanza di ammissione al rito (per tutte: Sez. 5, n. 223 del 27/09/2022, dep. 2023, Casagrande, Rv. 284043);
– in caso di risarcimento effettuato da parte di un soggetto diverso dall’imputato (nello specifico, la banca), non è sufficiente che tale soggetto abbia con l’imputato, ovvero con i suoi coobbligati solidali, rapporti contrattuali o personali che ne giustifichino l’intervento, ma è necessario che l’imputato manifesti una concreta e tempestiva volontà riparatoria, che abbia contribuito all’adempimento (per tutte: Sez. 4, n. 6144 del 28/11/2017, dep. 2018, MV, Rv. 271969).
3. La sentenza impugnata, dunque, dev’essere annullata sul punto, con rinvio al giudice d’appello, per la necessaria motivazione supplementare.
A norma dell’art. 624, commi 1 e 2, cod. proc. pen., invece, va dichiarata irrevocabile l’affermazione della colpevolezza dell’imputata per il reato addebitatole.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), cod. pen., e rinvia per nuovo giudizio su tale punto ad altra sezione della Corte di appello di Brescia.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Visto l’art. 624, cod. proc. pen., dichiara irrevocabile la sentenza in ordine alla responsabilità della ricorrente.
Così deciso in Roma, il 15 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria, oggi 9 ottobre 2023.