Reati fiscali: delitto di riciclaggio sui reati tributari (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 5 novembre 2020, n. 30889).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGO Geppino – Presidente –

Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere –

Dott. SGADARI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PARDO Ignazio – Rel. Consigliere –

Dott. MESSINI D’AGOSTINI Piero – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

RENELLA RAFFAELE nato a FORMIA il 23/03/1964;

avverso la sentenza del 18/04/2019 della CORTE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. IGNAZIO PARDO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO TOCCI che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste;

udito il difensore, avv.to Cardillo Cupo Pasquale, che ha concluso associandosi alla richiesta del P.G. e riportandosi ai motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 18 aprile 2019, la corte di appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia del G.U.P. del tribunale di Latina datata 18-07-2012, riduceva la pena inflitta a Renella Raffaele, in ordine al delitto di riciclaggio allo stesso contestato ad anni 2, mesi 8 di reclusione ed C 4.000,00 di multa.

Al Renella era contestato di avere ricevuto negli anni 2005 e 2006 assegni bancari, per un importo complessivo di oltre 666.000 euro, emessi dai clienti dell’avv.to Angelo Castelli ed intestati all’imputato il quale, incassati i titoli in banca operava poi la restituzione degli importi corrispondenti allo stesso Castelli che, a sua volta, ometteva ogni dichiarazione dei ricavi ricevuti in ciascun anno di imposta ai fini fiscali; secondo tale ricostruzione, quindi, il Castelli veniva chiamato a rispondere del reato presupposto costituito dalla fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all’art. 3 del D.Lvo 74/2000 ed il Renella della successiva attività di riciclaggio del profitto illecito derivante dalla violazione finanziaria penalmente rilevante.

1.1 Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato avv.to Pasquale Cardillo Pupo deducendo con distinti motivi:

– illogicità della motivazione ed erronea applicazione di legge per palese assenza dei requisiti strutturali del reato di cui all’art. 648 bis cod.pen. stante l’impossibilità giuridica di configurare l’ipotesi contestata di riciclaggio a fronte di condotte del Renella solo strumentali al delitto fiscale commesso dal coimputato avv.to Castelli, come dimostrato dalla sequenza temporale dei fatti che vedeva il presunto riciclaggio consumato anticipatamente rispetto al delitto presupposto di evasione fiscale, mancando così la natura delittuosa del denaro oggetto di sostituzione;

– insussistenza dell’elemento soggettivo trattandosi di attività poste in essere per pura cortesia ed in assenza di consapevolezza degli illeciti del Castelli ed, in ogni caso, essendo mancata la volontà di ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa dei beni, avendo il Renella operato su beni di provenienza lecita al momento della loro ricezione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Il ricorso è fondato e deve, pertanto, essere accolto non potendo qualificarsi la condotta posta in essere dal Renella quale riciclaggio punibile ex art. 648 bis cod.pen..

2.1 Deve essere ricordato come l’esigenza di tutela dell’ordine economico ha portato il legislatore italiano ad introdurre previsioni che puniscono penalmente la circolazione e sostituzione del profitto illecito; nell’ambito della repressione delle condotte di circolazione dei profitti illeciti post delictum va innanzi tutto precisato che solo con il codice Rocco e l’introduzione della fattispecie autonoma di ricettazione di cui all’art. 648 c.p. si è giunti alla definitiva autonomizzazione della predetta ipotesi posto che, prima di tale previsione, le condotte da ricezione dell’oggetto illecito venivano punite a titolo di concorso nel delitto presupposto.

Difatti, fino al diritto comune, l’auxilium come specie della compartecipazione era distinto in tre categorie a secondo che fosse prestato ante delictum, in delicto o post delictum sicché la ricettazione rientrava proprio in tale ultima figura di concorso.

Si riteneva così che la volontà di un soggetto può in un certo modo concorrere ad un delitto da altri commesso anche “con la partecipazione al frutto derivatone” . Fu all’inizio del XX secolo che la dottrina italiana sottolineò l’inconsistenza logica e politica-criminale della suddetta tesi sconfessando la correttezza della possibilità di ritenere il concorso di persone in un reato già consumato e di ciò prese atto proprio il codice Rocco introducendo l’autonoma fattispecie di cui all’art. 648 c.p..

Nell’individuare il bene giuridico della suddetta norma, la dottrina ha parlato di evidente difficoltà di identificare con sufficiente precisione l’oggetto della tutela che tuttavia non impedisce di fissarla nella lesione di interessi patrimoniali, evidentemente riferendosi al patrimonio del soggetto titolare del bene aggredito dal reato presupposto, e ciò perché “nella ricettazione si continua a perpetuare il mantenimento della situazione lesiva del patrimonio creata con la consumazione del delitto presupposto.

La repressione penale delle condotte aventi ad oggetto il profitto illecito si è evoluta anche a seguito delle sollecitazioni internazionali dirette ad introdurre adeguate normative di contenimento dei fenomeni di impiego del provento di precedenti delitti idonee ad aggredire non più e soltanto il patrimonio individuale del soggetto privato di propri beni ma, anche, l’ordine pubblico economico; in tale contesto, nel 1978, veniva introdotto il testo originario dell’art. 648 bis c.p. intitolato significativamente: “sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata o sequestro di persona a scopo di estorsione”; nella relazione del ministro della giustizia al Parlamento in sede di approvazione espressamente si sottolineava che la norma di nuova introduzione, tende a colpire un’attività costituente un vero e proprio incentivo alla criminalità più pericolosa ed efferata proprio in quanto permette un impiego relativamente sicuro dei proventi delle più gravi imprese delittuose.

Nel 1990, l’originaria fattispecie di cui all’art. 648 bis cod.pen. viene modificata, poiché, tra i reati presupposto del riciclaggio, oltre a rapina, estorsione, sequestro a scopo di estorsione, venivano inserite anche tutte le ipotesi di traffico di sostanze stupefacenti.

Tuttavia, la particolare struttura del reato così come era congegnato, richiedeva svolgersi un doppio accertamento poiché:

a) si doveva provare una condotta di sostituzione su somme provento di quei delitti indicati od oggetti di provenienza illecita;

b) si doveva provare che l’agente fosse consapevole di sostituire somme frutto di quel particolare precedente delitto.

Le evidenti difficoltà connesse a tali particolari accertamenti portarono alla definitiva modifica, con la legge 328 del 1993, che ha introdotto l’attuale testo secondo cui “Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.493”.

Così come strutturate, non vi è dubbio alcuno, che il presupposto normativo delle fattispecie previste e punite dagli artt. 648, 648 bis 648 ter, 648 terl c.p. è sempre costituito dalla necessità che la condotta dell’agente, per essere punibile, sia posta in essere su beni o denaro provento di precedente delitto come può agevolmente ricavarsi dal testo della norma di contenuto generale che è quella dell’art. 648 c.p. che punisce “chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare”.

2.2 Quanto ai rapporti tra riciclaggio e reati tributari, va poi ricordato come con la Direttiva 20 maggio 2015 del Parlamento Europeo espressamente dedicata “alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio..” si sottolineava un intervento del legislatore nazionale in tale campo; in particolare detta presa di posizione veniva espressamente motivata affermandosi che” è importante evidenziare esplicitamente che, in linea con le raccomandazioni riviste del GAFI, i «reati fiscali» connessi alle imposte dirette e indirette rientrano nell’ampia definizione di «attività criminosa» ai sensi della presente direttiva”.

L’espressa previsione contenuta nella Direttiva non può che eliminare ogni dubbio perché, a partire da detta previsione, i reati fiscali possono certamente costituire il reato presupposto delle condotte riciclatorie e poiché tra le suddette fattispecie prevalgono quelle di omesso versamento delle imposte appare evidente che anche un risparmio di spesa può costituire profitto illecito.

Parallelamente all’evoluzione normativa anche la giurisprudenza ha mutato orientamento quanto alla identificazione ed individuazione del profitto riciclabile in caso di illecito risparmio di spesa.

Con un primo intervento di questa corte di legittimità sul tema, si è affermato che soltanto le contravvenzioni ed i delitti colposi non possono costituire il presupposto di quello di riciclaggio; ne consegue che tutti i delitti dolosi, e quindi anche quello di frode fiscale, sono idonei a fungere da reato presupposto del riciclaggio (Sez. 2, n. 6061 del 17/01/2012, Rv. 252701).

In questa occasione la Corte Suprema ha precisato che il riferimento dell’art. 648-bis cod. pen. alle “altre utilità” ben può ricomprendere il risparmio di spesa che l’agente ottiene evitando di pagare le imposte dovute, poiché esso produce un mancato decremento del patrimonio che si concretizza in una utilità di natura economica. In motivazione, si precisa che la tesi negativa secondo cui il reato di frode fiscale non può rientrare fra i reati presupposto perché la frode fiscale non determinerebbe alcun accrescimento del patrimonio dell’agente (nel senso che dalla consumazione del reato non deriverebbero denaro, beni o altra utilità oggetto del successivo riciclaggio) ma solo un non impoverimento del patrimonio, limitandosi ad impedire la perdita, ancorché giusta, di un bene (rectius: denaro) legittimamente posseduto, viene smentita dalla già analizzata evoluzione storica della norma in esame che mette in evidenza come il legislatore, con le riforme della fattispecie dell’art. 648 bis cod.pen., abbia ampliato non solo il numero dei reati presupposto, ma anche la condotta incriminabile e lo stesso oggetto del reato, passando dalla semplice sostituzione di “denaro o valori” alla sostituzione o trasferimento “di denaro, beni o altre utilità”.

Si è così affermato che con tale amplissima ed ellittica formula, è del tutto evidente che il legislatore ha inteso colpire, con il delitto di riciclaggio, ogni vantaggio derivante dal compimento del reato presupposto, tant’è che ha adoperato la locuzione “altre utilità” come una sorta di clausola di chiusura rispetto al “denaro e beni”, proprio per evitare che potessero sfuggire dalle maglie della repressione penale utilità (qualunque esse fossero) derivanti dal reato presupposto e delle quali l’agente, grazie all’attività di riciclaggio posto in essere da un terzo, potesse usufruirne.

In altri termini, la locuzione “altre utilità” è talmente ampia che in esse devono farsi rientrare tutte quelle utilità che abbiano, per l’agente che abbia commesso il reato presupposto, un valore economicamente apprezzabile.

Così interpretata la locuzione “altre utilità”, è chiaro che in esse devono farsi rientrare non solo quegli elementi che incrementano il patrimonio dell’agente ma anche tutto ciò che costituisca il frutto di quelle attività fraudolente a seguito delle quali si impedisce che il patrimonio s’impoverisca: il che è quanto accade quando viene perpetrato un reato fiscale a seguito del quale l’agente, evitando di pagare le imposte dovute, consegue un risparmio di spesa che si traduce, in pratica, in un mancato decremento del patrimonio e, quindi, in una evidente utilità di natura economica.

Inoltre, posto che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte di cassazione costituisce profitto dei reati tributari la somma corrispondente all’imposta evasa, sicché, ai sensi della L. finanziaria n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, se ne ammette il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, il profitto che l’agente ricava dai reati tributari non può che essere una concreta utilità economica suscettibile di essere riciclata al fine di ostacolarne la provenienza delittuosa e sottrarla alla pretesa impositiva dello Stato. In conclusione, si afferma che la locuzione “altre utilità” di cui all’art. 648 bis c.p. dev’essere intesa come tutte quelle utilità che abbiano, per l’agente che abbia commesso il reato presupposto, un valore economicamente apprezzabile.

In esse devono farsi rientrare non solo quegli elementi che incrementano il patrimonio dell’agente ma anche quelle attività fraudolente a seguito delle quali l’agente impedisce che il proprio patrimonio s’impoverisca. Di conseguenza, rientra fra i reati presupposto anche il reato di dichiarazione fraudolenta (frode fiscale) a seguito del quale l’agente, evitando di pagare le imposte, consegue un risparmio di spesa che si traduce in un mancato decremento del patrimonio e, quindi, in una evidente utilità di natura economica (Sez. 2, n. 6061 del 17/01/2012 cit.).

Tuttavia, come si vedrà, in relazione al rapporto con il reato di riciclaggio, per quanto non sussiste limite ontologico alla derivazione del profitto illecito da un reato di natura fiscale, presupposto imprescindibile per la configurabilità della fattispecie di cui all’art. 648 bis cod.pen. rimane quello della precedente consumazione di quel delitto.

2.3 Ed infatti, il coordinamento dei principi già analizzati in tema di momento consumativo dei delitti di cui agli artt. 648, 648 bis, 648 ter, 648 terl cod.pen. e riciclabilità del risparmio di spesa derivante da reato fiscale, deve essere attuato con particolare riferimento all’individuazione della struttura dei delitti in materia di dichiarazioni sui redditi e sul valore aggiunto di cui agli artt. 2, 3, 4 e 5 del D.Lvo 74 del 2000, tale verifica risultando necessaria anche per la soluzione del caso di specie in cui viene contestata al Renella una condotta di riciclaggio di profitti illeciti derivanti dalla fattispecie di cui all’art. 3 del D.Lvo citato.

Al proposito, occorre fare riferimento sia alla giurisprudenza delle Sezioni Unite che della Corte costituzionale entrambe pronunciatesi già all’indomani dell’entrata in vigore della riforma dei reati fiscali; in particolare, le Sezioni Unite di questa corte, hanno affermato come in tema di reati fiscali, in seguito all’introduzione della nuova ipotesi criminosa di dichiarazione fraudolenta ad opera dell’art. 2 D.L.G. 10 marzo 2000, n. 74 ed all’ “abolitio criminis” disposta dal successivo art. 25, le condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, già punite dall’art. 4, lett. d), d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito in I. 7 agosto 1982, n. 516, in quanto meramente prodromiche o strumentali rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto non sono più, di per sè, penalmente rilevanti, non potendo in alcun modo essere ricondotte nella previsione della più recente disposizione incriminatrice che individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica della fattispecie ed il momento in cui si verifica la lesione dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposte (Sez. U, n. 27 del 25/10/2000, Rv. 217031).

In motivazione, le Sezioni Unite precisano che:” Conformemente alle direttive dell’art. 9, legge delega n. 205 del 1999, la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 è in formata al superamento della strategia privilegiata dalla pre vigente normativa, fondata sul modello delle violazioni “prodromiche” ad una falsa dichiarazione e all’evasione d’imposta con intenti anticipatori di tutela, e, nelle linee generali (sottolineate con in usuale chiarezza e vigore in molteplici passi della Relazione governativa che accompagna il decreto), segna una netta inversione di rotta, imperniandosi viceversa l’intervento repressivo su un più ristretto catalogo di fattispecie delittuose, connotate da rilevante offensività degli interessi connessi al prelievo fiscale e da dolo specifico di evasione d’imposta.

La scelta del modello normativo ha portato a concentrare l’attenzione sulla dichiarazione annuale prevista ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, quale momento essenziale di disvalore del fatto, “… nel quale si realizza dal lato del contribuente il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione d’imposta …”.

La violazione dell’obbligo di veritiera prospettazione della situazione reddittuale e delle basi imponibili è al fondamento, segnatamente, della tipologia criminosa costituente “l’asse portante” del nuovo sistema punitivo: la dichiarazione annuale “fraudolenta” che, siccome non soltanto mendace ma caratterizzata altresì da un particolare “coefficiente di insidiosità” per essere supportata da un impianto contabile o documentale per operazioni inesistenti, costituisce dunque la fattispecie commissiva ontologicamente più grave, sanzionata con la sola pena detentiva, ma rafforzata rispetto al passato.

Ed ancora, si aggiunge nella predetta pronuncia, con particolare chiarezza come:” Il delitto, di tipo commissivo e di mera condotta, seppure teleologicamente diretta al risultato dell’evasione d’imposta [come precisato nella definizione del dolo specifico di evasione sub art. 1 lett. d, ha natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale, non rilevando le dichiarazioni periodiche e quelle relative ad imposte diverse.

Con la conseguenza che il comportamento di utilizzazione, nel senso sopra specificato, si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell’illecito, e perciò non punibile.

Si avverte in proposito nella Relazione governativa (par. 3.1.1) come “…l’ampia elaborazione giurisprudenziale e dottrinale relativa al concetto di utilizzazione di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, rilevante nell’ottica applicativa del delitto di frode fiscale di cui all’ad 4 d.l. n. 429/82 non sia recuperabile sic et simpliciter in rapporto alla nuova figura di reato, la quale resta integrata non dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev’essere allegata alcuna documentazione probatoria”.

Particolare rilievo sistematico assumono altresì le disposizioni normative degli artt. 6 e 9 d.lgs. n. 74 del 2000 sul tentativo e, rispettivamente, sul concorso di persone. In forza del disposto dell’art. 6, il delitto di dichiarazione fraudolenta previsto dall’art. 2 “non è comunque punibile a titolo di tentativo”.

La ratio legis, ovvia e trasparente, è quella di evitare la vanificazione della strategia abolitrice del modello di reato prodromico mediante la generalizzata applicazione dell’art. 56 cod. pen. (Relazione governativa, par. 3.1.5), potendosi altrimenti sostenere che la propedeutica registrazione in contabilità o la detenzione a fine di prova di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, accertate nel corso del periodo d’imposta, siano teleologicamente dirette in modo non equivoco alla successiva dichiarazione fraudolenta, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato; s’intende in tal modo favorire nell’interesse dell’erario la resipiscenza, anche se non spontanea, del contribuente, il quale di fronte a un accertamento compiuto nei suoi confronti nel corso del periodo d’imposta sarà portato a presentare una dichiarazione veridica e conforme alle risultanze della verifica fiscale per sottrarsi alla responsabilità penale.

Risulta poi autonomamente strutturata la fattispecie criminosa di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, attività illecita di spiccata pericolosità consistente nell’immissione sul mercato di documentazione idonea a supportare l’indicazione fraudolenta in dichiarazione di elementi passivi fittizi: l’ipotesi criminosa dell’emissione, regolata dall’art. 8, è dunque punita di per sé, mentre l’utilizzazione “solo in quanto trasfusa in una falsa dichiarazione”.

Anche la Corte costituzionale ha suffragato tale interpretazione; difatti nella pronuncia 49 del 2002 quanto alla struttura dei reati fiscali in materia di dichiarazione si è espressamente affermato che:” tale opzione politico-criminale consiste infatti, fondamentalmente, nell’abbandono del modello del c. d. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina di cui al d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516 — modello che attestava la linea d’intervento repressivo sulla fase meramente “preparatoria” dell’evasione d’imposta — a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario.

Questa strategia — come si legge nella relazione ministeriale — ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che “realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e “definitivo — dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa.

La disposizione dell’art. 6 del d.lgs. n. 74 del 2000, oggi denunciata, si colloca nel solco di detta strategia.

Escludendo la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4 dello stesso decreto legislativo, essa mira infatti — oltre che a stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta — ad evitare che violazioni “preparatorie”, già autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sotto fatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione.

Nondimeno — per ragioni che non interessa scrutinare in questa sede, collegate dalla relazione ministeriale ad una valutazione marcatamente negativa del ruolo svolto dagli autori “tipici” del fatto incriminato, “nel quadro delle fenomeniche dell’evasione” — il legislatore ha perpetuato, in via d’eccezione, il vecchio modello punitivo in rapporto all’emissione di fatture (o altri documenti) per operazioni inesistenti, finalizzata a consentire l’evasione altrui: condotta che l’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 continua a reprimere penalmente in sè e per sè — al pari dell’art. 4, comma 1, lettera d), della legge n. 516 del 1982 — ancorchè meramente preparatoria dell’evasione stessa.

Proprio a conferma, però, del carattere eccezionale di tale deviazione dalla linea guida della riforma, il legislatore ha inteso comunque assicurare che dal lato dell’utilizzatore la punibilità resti ancorata alla falsa dichiarazione, escludendo, con l’art. 9, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 74 del 2000, la configurabilità del concorso dell’utilizzatore stesso nel fatto dell’emittente: concorso altrimenti ravvisabile nella generalità dei casi, a fronte dell’accordo tra i due soggetti normalmente sottostante all’emissione delle false fatture.

I principi affermati dalle Sezioni Unite e dalla Corte costituzionale risultano pacificamente recepiti dalla giurisprudenza delle sezioni semplici di questa corte di legittimità; al proposito, basta richiamare quella pronuncia (Sez. 3, n. 52752 del 20/05/2014, Rv. 262358) secondo cui in tema di reati tributari, i delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e 3, D.Lgs. n. 74 del 2000, si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodronnici tenuti dall’agente, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false rappresentazioni con l’uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento. In motivazione, detta pronuncia aggiunge che:” come risulta inequivocamente dagli stessi lavori preparatori, il perfezionamento delle fattispecie criminose è stato previsto dal legislatore proprio per “superare l’impianto normativo della L. n. 516 del 1982, la quale configurava le fattispecie di reato secondo lo schema dei c.d. reati prodromici” (Circolare ministeriale 154/E del 4 agosto 2000), ritenuto inadeguato rispetto al principio di offensività.

La condotta integrativa dei due reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3, è, quindi, una condotta progressiva, che non si esaurisce nella utilizzazione e nell’inserimento in contabilità della falsa fatturazione o della falsa rappresentazione con l’uso di mezzi fraudolenti, ma completa il suo iter (da potenzialmente ad effettivamente offensivo) incidendo sul contenuto della dichiarazione, sicché la condotta stessa viene punita solo se ed in quanto la prima fase viene completata con la seconda, mediante la dichiarazione dell’elemento passivo fittizio”.

L’affermazione della consumazione del reato in materia di dichiarazione soltanto al momento di presentazione della stessa, risulta costantemente ribadito anche da altri interventi di questa corte più recenti; così, proprio in tema di violazione di cui all’art. 3 D.Lvo 74/2000, si è ribadito che il reato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, caratterizzato da struttura bifasica, presuppone la compilazione e presentazione di una dichiarazione mendace nonché la realizzazione di una attività ingannatoria prodromica, purché di quest’ultima, ove posta in essere da altri, il soggetto agente abbia consapevolezza al momento della presentazione della dichiarazione (Sez.3, n. 15500 del 15/02/2019, Rv. 275902).

2.4 Tali essendo i principi stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità sul momento consumativo del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all’art. 3 del D.Lvo 74 del 2000, ed avuto riguardo alla particolare struttura del reato di riciclaggio già in precedenza analizzata, ne deriva affermare l’insussistenza dei fatti di cui all’art. 648 bis cod.pen. contestati al Renella così come eccepito nel primo motivo di ricorso, errata apparendo la ricostruzione effettuata dalla Corte di appello di Roma a pagina 2 della motivazione della impugnata sentenza.

Difatti, il ricorrente, avendo sostituito l’importo di assegni dati in pagamento all’avv.to Castelli per la sua attività da clienti del medesimo e mai dichiarati dallo stesso Castelli ai fini fiscali, è intervenuto a compiere detta operazione prima della scadenza dell’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte dello stesso Castelli e non può, pertanto, avere agito su un profitto che a qual momento era privo di origine illecita neppure identificabile come risparmio di spesa.

Come risulta chiaro ed evidente dalla ricostruzione dei fatti, compiuta con valutazione conforme dai giudici di merito e dalla stessa lettura dell’imputazione, al Renella viene contestato di avere ricevuto somme nel corso degli anni 2005 e 2006 sottratte agli obblighi di pagamento fiscali contestati al Castelli, consumati nei successivi anni solari del 2006 e del 2007 in occasione della presentazione delle rispettive dichiarazioni; difatti, dalla lettura del capo A) dell’imputazione che costituisce il reato presupposto, emerge che Renella ha ricevuto (e sostituito) nell’anno 2005 un numero di 45 assegni per complessivi C 274.400,00 che il Castelli ometteva di dichiarare quali propri compensi nella dichiarazione dei redditi di quell’anno solare presentata nel successivo anno 2006; ancora, Renella, riceveva e sostituiva n. 87 assegni per l’importo complessivo di C 391.900,00 nel corso del 2006 che Castelli ometteva di dichiarare nella dichiarazione IRPEF per i redditi del 2006 presentata nel successivo anno 2007.

Tale ricostruzione dei fatti rende chiaro ed evidente che il reato di riciclaggio non è configurabile perché l’attività del Renella è avvenuta prima della consumazione del delitto di dichiarazione fraudolenta e, per definizione, il riciclaggio non può essere consumato prima del delitto presupposto poiché, a quel momento, il denaro ricevuto non ha ancora il carattere di illecito profitto di altro fatto rilevante penalmente.

Difatti, come ripetutamente già affermato, il riciclaggio non può avere ad oggetto somme che al momento della movimentazione non avevano ancora carattere e natura illecita e tali sono le somme sottratte al pagamento dell’obbligo fiscale di versamento delle imposte che si consuma solo al termine di presentazione della dichiarazione dei redditi.

Ne consegue affermare il seguente principio di diritto:” il delitto di riciclaggio non è configurabile nelle attività di sostituzione di somme sottratte al pagamento delle imposte mediante delitti in materia di dichiarazione se il termine di presentazione della dichiarazione non è ancora decorso e la stessa non è stata ancora presentata”.

Alla luce delle predette considerazioni, pertanto, l’impugnata sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Così deciso il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.

_____//

video
play-sharp-fill