Successioni. Indegnità a succedere: le ipotesi sono tassative (Corte di Cassazione, Sezione II Civile, Sentenza 28 aprile 2022, n. 13266).

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1130-2017 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS) CARLO FELICE, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco (OMISSIS), Giuseppe (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) VINCENZO, (OMISSIS) CONO DOMENICO, elettivamente domiciliati in Roma, via (OMISSIS) 85, presso lo studio dell’avvocato Domenico (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli avvocati Maria Antonietta (OMISSIS), Bruno (OMISSIS);

– controricorrenti – ricorrenti incidentali –

(OMISSIS) Cono Michele;

– intimato –

avverso la sentenza n. 885/2016 della Corte d’appello di Catanzaro, depositata il 30/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/01/2022 dal consigliere Dott. Giuseppe Tedesco.

FATTI DI CAUSA

La presente causa riguarda la duplice successione di (OMISSIS) Michele e (OMISSIS) Giuseppina, i cui successibili ex lege sono i nipoti (OMISSIS) Carlo Felice, (OMISSIS) Cono Michele, (OMISSIS) Vincenzo e (OMISSIS) Cono Domenico.

La causa è stata promossa da (OMISSIS) Cono Domenico, che ha chiamato in giudizio gli altri nipoti.

Fu richiesto in particolare di dichiarare l’indegnità a succedere del nipote (OMISSIS) Carlo Felice, designato erede nei testamenti olografi della de cuius rispetto ai quali l’attore aveva dedotto l’invalidità per incapacità dei testatori e l’apocrifia.

Il giudice di primo grado, con ordinanza del 2 ottobre 2012, «[…] rilevato che quanto alla domanda di indegnità a succedere a (OMISSIS) Michelina Giuseppina e per essa soltanto la causa può essere decisa senza ulteriore istruzione e che la sua sollecita definizione è di apprezzabile interesse per le parti che ne hanno fatto richiesta perché da questa discenderebbe poi il diritto alla petizione di eredità e di divisione del compendio ereditario in caso di accoglimento o la necessità di istruire il procedimento per accertare l’autenticità del testamento olografo o la capacità di intendere e volere al momento della redazione in caso di rigetto».

Con sentenza non definitiva, oggetto di appello immediato, il Tribunale ha dichiarato l’indegnità di (OMISSIS) Carlo Felice rispetto alla successione di (OMISSIS) Michelina; in particolare, il primo giudice riteneva che il comportamento tenuto dal (OMISSIS) Carlo Felice, il quale aveva di fatto abbandonato l’anziana zia e impedito, essendo l’unico detentore delle chiavi di abitazione della stessa, che se ne potessero occupare gli altri nipoti, in quanto inquadrabile «nell’ambito del reato di cui agli artt. 56, 591, ultimo comma del codice penale ovvero per un reato che abbia determinato, per una condotta volontaria posta in essere dall’agente, un concreto pericolo di vita per il de cuius […]», fosse conseguentemente sanzionabile ai sensi dell’art. 463, n. 2, c.c., con la declaratoria di indegnità a succedere alla congiunta.

Il primo giudice osservava che «rimangono quindi assorbite e non debbono essere prese in considerazione in questa sede tutte le altre questioni compresa quella relativa alla declaratoria di indegnità ai sensi dell’art. 463 n. 4 e n. 6 che debbono ritenersi per ordine di gravità indicato dallo stesso legislatore subordinate».

La sentenza è stata oggetto di appello immediato da parte di (OMISSIS) Carlo Felice, che è stato accolto dalla Corte d’appello di Catanzaro, la quale ha escluso che fosse configurabile nella specie la sussistenza della causa di indegnità riconosciuta dal primo giudice, in assenza di una condotta cui la legge dichiari applicabile le disposizioni relative all’omicidio.

Secondo la Corte d’appello, «ovviamente, l’accoglimento del presente motivo di appello e, conseguentemente, l’accertata insussistenza, nel caso di specie, della causa di indegnità a succedere prevista dall’art. 463 n. 2 c.c., lascia impregiudicata la questione concernente l’eventuale sussistenza di ulteriori cause di indegnità a succedere, sussumibili nelle previsioni di cui agli artt. 463 n. 4 e 6, questione che il giudice di primo grado ha ritenuto erroneamente assorbite dal tenore della decisione, ma sulle quali, invece, giammai avrebbe potuto pronunciarsi richiedendosi in via pregiudiziale specifici accertamenti concernenti l’autenticità del testamento e, in subordine, la sussistenza della capacità di testare della de cuius al momento della redazione del testamento, valutazioni di particolare complessità da demandarsi al giudice di prime cure presso cui prosegue l’istruttoria del presente giudizio».

Per la cassazione della sentenza (OMISSIS) Carlo Felice ha proposto ricorso, affidato a due motivi.

(OMISSIS) Cono Domenico e (OMISSIS) Vincenzo hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi.

(OMISSIS) Carlo Felice ha depositato controricorso al ricorso incidentale.

Le parti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto cha la decisione assunta, lasciasse «impregiudicata la questione concernente l’eventuale sussistenza di ulteriori cause di indegnità a succedere, sussumibili nelle previsioni di cui agli artt. 463 nn. 4 e 6, questione che il giudice di primo grado ha ritenuto erroneamente assorbite dal tenore della decisione, ma sulle quali, invece giammai avrebbe potuto pronunciarsi richiedendosi in via pregiudiziale specifici accertamenti concernenti l’autenticità del testamento e, in subordine, la sussistenza della capacità di testare della de cuius al momento della redazione del testamento, valutazioni di particolare complessità da demandarsi al giudice di prime cure presso cui prosegue l’istruttoria del presente giudizio».

Si sostiene che la Corte d’appello non ha tenuto conto che le questioni, riguardanti le altre cause di indegnità, che il primo giudice aveva ritenuto assorbite, non furono riproposte nel giudizio d’appello. Esse, quindi, dovevano intendersi rinunciate ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., nella quale il giudice d’appello era incorso laddove ha riconosciuto che il primo giudice male avrebbe fatto a ritenere assorbite le questioni sull’autenticità del testamento o sulla capacità della testatrice.

Si fa notare che l’erroneo assorbimento non aveva costituito oggetto di censura, né con appello principale, né con appello incidentale.

2. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono fondati nei limiti di seguito indicati.

Viene in considerazione il principio secondo cui il giudice dell’appello, poiché è investito della piena cognizione di tutte le domande ed eccezioni ritualmente devolutegli, comprese quelle non esaminate dal giudice di primo grado per asserito assorbimento conseguente all’accoglimento di altre domande ed eccezioni, deve eliminare siffatta omissione egli stesso decidendo sul merito, senza rimettere la causa al primo giudice (Cass. n. 5785/1984; n. 15373/2000).

In tale caso, non si verifica violazione del principio del doppio grado di giurisdizione, il quale non comporta che una determinata questione sia decisa due volte da giudici diversi ma che essa sia sottoposta all’esame successivo di due giudici, uno di primo grado e l’altro di appello (Cass. n. 1162/1978).

Nello stesso tempo si deve considerare la regola, consolidata nella giurisprudenza della Corte, secondo cui la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare in discussione le proprie domande o eccezioni non accolte nella pronuncia, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite; in tal caso la parte è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello o nel giudizio di cassazione in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un comportamento omissivo (Cass. n. 13195/2018).

La circostanza, evidenziata dalla sentenza impugnata, che il processo era ancora in corso dinanzi al Tribunale non autorizzava il giudice dell’impugnazione a sottrarsi dal dovere di decidere sulle questioni assorbite.

Infatti, il processo proseguiva dinanzi al primo giudice per altri aspetti, che non comprendevano più la domanda di indegnità per le ragioni di cui all’art. 463 n. 4 e n. 6 c.c., divenute irrilevanti a seguito del riconoscimento della ragione di indegnità prevista nel n. 2 della nonna, in quanto prioritaria «per ordine di gravità indicato dallo stesso legislatore».

Consegue da ciò che la Corte d’appello di Catanzaro non poteva prendere spunto dal fatto, del tutto casuale, che il processo proseguiva in primo grado per rimettere al primo giudice la decisione sulle questioni tornate rilevanti a seguito della riforma, ma doveva statuire su di esse, in quanto, come si vedrà, le questioni erano state formalmente riproposte nel grado.

3. È stato precisato che, in mancanza di una norma specifica sulla forma nella quale l’appellante che voglia evitare la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c. deve reiterare le domande e te eccezioni non accolte in primo grado, queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse (Cass. n. 10796/2009).

«In tema di appello, la presunzione di rinuncia alle domande ed eccezioni non accolte in primo grado, sancita dall’art. 346 c.p.c., non è impedita da un richiamo, del tutto generico, agli atti di quel grado, così da tradursi in una mera formula di stile, ma, ove ciò non sia accaduto e l’appellato abbia soltanto omesso di riproporre espressamente una determinata domanda, occorre tenere conto dell’intero contenuto delle sue difese e della posizione da lui complessivamente assunta, sicché quando questi, con qualsiasi forma, abbia evidenziato la sua volontà di mantenere comunque ferma la propria domanda, sollecitando il giudice di secondo grado a decidere in merito, va escluso che vi abbia rinunciato» (Cass. n. 413/2017; cfr. n. 33103/2021).

In applicazione di tali principi deve escludersi, nella specie, la presunzione che gli appellati avessero rinunciato alle domande, rimaste assorbite dalla sentenza di primo grado.

Risulta dall’esame della comparsa di costituzione, depositata in appello dagli appellati (esame consentito alla Corte in conseguenza della natura di errore in procedendo del vizio denunciato: Cass. n. 5971/2018), che la comparsa non contiene solo il richiamo alle conclusioni e alle richieste istruttorie formulate in primo grado, ma a tale richiamo, pure operato, è seguita la richiesta trascrizione di tutte istanze di prova di cui chiedeva l’ammissione, per l’ipotesi che la Corte avesse ritenuto necessario istruire la causa.

Senza che sia necessario l’esame nel dettaglio delle richieste istruttorie, è sufficiente rilevare che le stesse riflettono l’intera materia controversa del giudizio di primo grado.

In questo contesto, la reiterazione del complesso delle domande già proposte, lungi dall’apparire una formula di stile, dimostra univocamente la volontà degli appellati di mantenere ferme anche le domande ritenute assorbite dal primo giudice.

Pertanto, nei limiti sopra indicati, i motivi vanno accolti e la causa deve essere rimessa alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, affinché decida sulle domande rimaste assorbite dalla decisione del primo giudice.

4. Il primo motivo del ricorso incidentale censura la sentenza perché la Corte d’appello non ha rilevato l’inammissibilità dell’appello, in carenza della necessaria specificità.

Il motivo è manifestamente infondato.

Si osserva che gli stessi controricorrenti riportano, a pag. 11 del controricorso, il motivo di censura, il cui accoglimento ha giustificato la riforma della sentenza: «ha errato il giudice di primo grado nel ritenere che il comportamento tenuto da (OMISSIS) Carlo Felice fosse configurabile nell’ambito del reato di cui agli artt. 56 e 591, ultimo comma del codice penale ovvero in un reato che avesse determinato per una condotta volontaria posta in essere dall’agente un concreto pericolo di vita per il de cuius, come tale sanzionabile ai sensi dell’art. 463, comma 2, c.c.».

La Corte d’appello ha accolto tale motivo, in quanto ha riconosciuto che non fosse riscontrabile, nel caso in esame, l’ipotesi di indegnità riconosciuta dal primo giudice, in difetto delle condizioni richieste dall’art. 463 n. 2, c.c.

Dal semplice confronto fra la censura e la decisione risulta con chiarezza che l’impugnazione aveva i requisiti di specificità richiesti dall’art. 342 c.p.c., inteso nel significato chiarito da questa Corte (Cass. S.U., n. 27199/2017).

L’atto conteneva sia la parte volitiva (la pronuncia di indegnità conseguente all’inquadramento giuridico della condotta), sia la parte argomentativa, cioè le ragioni che rendevano errata la decisione: l’avere il primo giudice considerato la condotta, in ipotesi penalmente rilevante, fra quelle che possono condurre all’indegnità ai sensi dell’art. 463, comma 2, c.c., nonostante la non applicabilità delle disposizioni relative all’omicidio.

5. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia “omessa, insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Violazione di legge dell’art. 116 c.p.c. ed artt.2697 e 2727 c.c., e difetto di motivazione in riferimento all’art. 360 c.p.c. n. 3 e n. 5″.

Il giudice di primo grado aveva accertato l’indegnità a succedere in conseguenza della «deplorevole condotta posta in essere dal (OMISSIS) Carlo Felice, che non ha portato alla morte di (OMISSIS) Michelina solo grazie all’intervento deciso e energico degli altri nipoti».

I controricorrenti incidentali evidenziano la correttezza di tale decisione, trattandosi di comportamento sanzionabile ex art. 463 c.c.

Quindi, essi rimproverano alla Corte d’appello di aver assunto una decisione formale e immotivata, che non teneva conto delle prove acquisite, che comprovavano ampiamente il pericolo di vita corso della de cuius a causa della “deplorevole condotta del nipote”.

Il motivo è infondato.

Ex art. 463 c.c. è escluso dalla successione come indegno:

1) chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente della medesima, purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale;

2) chi ha commesso, in danno di una di tali persone, un fatto al quale la legge dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio […].

Al fine della sussistenza dell’indegnità a succedere di cui all’art. 463 n. 1, c.c., l’attentato alla vita del de cuius deve essere commesso volontariamente (Cass. n. 6669/1984).

Si osserva che non sono cause di indegnità l’omicidio colposo e quello preterintenzionale perché manca, in entrambi la volontà di uccidere.

In quanto alla comminatoria di indegnità a succedere stabilita al n. 2 dell’art. 463 c.c., risulta dai lavori preparatori che si volle con tale norma risolvere il caso dell’uccisione in duello, che era assai controversa sotto il vecchio codice.

In base alla nuova disposizione l’uccisione in duello determinerà l’indegnità dell’uccisore, solo quando siano applicabili le pene previste per l’omicidio, cioè in caso di duello irregolare ai sensi dell’art. 397 c.p.

Poiché l’art. 397 c.p. è stato abrogato, al pari degli altri articoli concernenti il duello, dall’art. 18, comma 1 della legge 25 giugno 1999, la norma, per questa parte, non può più trovare applicazione.

Inoltre, la legge penale dichiara applicabili le disposizioni relative all’omicidio al caso di istigazione o eccitazione al suicidio di minore degli anni 14 o comunque di persona priva della capacità di intendere e di volere (art. 580, comma 2, c.p.).

Secondo l’opinione prevalente, invece, non deve ritenersi compresa nel n. 2 dell’art. 463 c.c. il caso dell’omicidio del consenziente, in quanto si tratta di un’ipotesi di uccisione volontaria, senza che occorra che siano applicabili le disposizioni relative all’omicidio ex art. 579, comma 3 c.p.

6. Il primo giudice ha ritenuto che il comportamento tenuto dal (OMISSIS) Carlo Felice, il quale aveva di fatto abbandonato l’anziana zia e impedito, essendo l’unico detentore delle chiavi di abitazione della stessa, che se ne potessero occupare gli altri nipoti, in quanto inquadrabile «nell’ambito del reato di cui agli artt. 56, 591, ultimo comma del codice penale ovvero per un reato che abbia determinato, per una condotta volontaria posta in essere dall’agente, un concreto pericolo di vita per il de cuius […1», fosse conseguentemente sanzionabile ai sensi dell’art. 463, n. 2, c.c., con la declaratoria di indegnità a succedere alla congiunta.

L’argomento è ripreso dai controricorrenti nella memoria, depositata in vista dell’udienza, nella quale si legge: «Vi è inoltre che l’anziana (OMISSIS) Michelina (si ricorda ultra novantacinquenne) era un soggetto non capace d’intendere e di volere fin da giovane età come certificato dalla stessa dott.ssa (OMISSIS) unico medico curante della stessa, ne consegue quindi che anche il documento depositato come testamento olografo non può essere ricondotto scientemente alla (OMISSIS) che non è stata mai capace di disporre di alcunché né di badare a se stessa anche tale circostanza è stata valutata dal Giudice di prime cure anche se ha ritenuto più grave il comportamento tenuto dal nipote (OMISSIS) Carlo Felice nei confronti della zia lasciandola completamente priva di ogni più basilare assistenza fino a determinarne uno stato di completa indigenza e ormai quasi completamente disidratata e priva di alimentazione.

Dalla descrizione dei fatti l’attentato alla vita del de cuius è stato commesso con dolo, con la conseguenza che tale ipotesi di indegnità costituisce il presupposto della volontarietà del fatto lesivo la cui realizzazione determina l’indegnità a succedere».

Ora, se fosse vero quello che dicono i controricorrenti, cioè che il giudice di primo grado aveva ricostruito i fatti quale attentato volontario alla vita della de cuius, non occorreva richiamare il n. 2 dell’art. 463 c.c. Il fatto avrebbe determinato l’indegnità ai sensi del n. 1 della stessa norma.

7. Si nota in dottrina che l’abbandono di cui all’art. 591 c.p. (Abbandono di persone minore o incapaci) consiste nel lasciare la persona in balia di sé stessa o di terzi che non siano in grado di provvedere adeguatamente alla sua custodia e cura, in modo che ne derivi un pericolo per la vita e l’incolumità della persona medesima.

L’art. 591 c.p. non esige espressamente questo requisito, ma esso si desume in modo univoco dallo scopo dell’incriminazione.

Ai fini dell’elemento soggettivo del delitto previsto dall’art. 591 c.p. in esame, il dolo è generico e postula la volontà dell’abbandono, sussistente in chi sia consapevole tanto del dovere di cura o di custodia che intercorre tra lui e l’incapace, quanto del pericolo che l’abbandono determina nei riguardi dell’incolumità individuale.

Per la configurabilità del dolo è richiesta la consapevolezza di abbandonare il soggetto passivo, che non abbia la capacità di provvedere a sé stesso, in una situazione di pericolo di cui si abbia l’esatta percezione (Cass. pen. n. 27926/2021; n. 29666/2016; n. 10994/2012).

Secondo la prevalente dottrina e la giurisprudenza il dolo può presentarsi anche nella forma eventuale”.

Il dolo assume la forma eventuale quando l’agente, pur essendosi rappresentato, come conseguenza del proprio comportamento inerte, la concreta possibilità del verificarsi di uno stato di abbandono del soggetto passivo, in grado di determinare un pericolo anche solo potenziale per la vita e l’incolumità fisica di quest’ultimo, persista nella sua condotta omissiva, accettando il rischio che l’evento si verifichi (Cass. pen. n. 44013/2017).

Il delitto di abbandono di minore si distingue da quello di tentato omicidio per il diverso elemento psicologico.

Nel primo caso l’elemento soggettivo è costituito dalla coscienza di abbandonare la persona minore o incapace con la consapevolezza del pericolo inerente all’incolumità fisica della stessa con l’instaurarsi di una situazione di pericolo, sia pure potenziale.

Nella seconda ipotesi è necessario che il soggetto compia la condotta vietata con la volontà e la consapevolezza di cagionare la morte del soggetto passivo o tale evento si rappresenti come probabile o possibile conseguenza del suo operare, accettando il rischio implicito del suo verificarsi (Cass. pen. n. 9562/1989; n. 2269/1991).

Il delitto è aggravato se dal fatto deriva una lesione personale o la morte (art. 591, 30 co.).

Se la lesione o la morte siano volute, anche a titolo di dolo eventuale (secondo l’opinione della dottrina maggioritaria), l’abbandono concorre con le lesioni personali ex artt. 582 o 583 c.p. o l’omicidio ex art. 575 c.p.

Consegue da quanto sopra che il delitto di abbandono, anche nella forma aggravata dall’evento morte, non può a priori, e qualunque sia il giudizio morale sulla condotta dell’agente, farsi rientrare fra le ipotesi previste dall’art. 463, n. 2, c.c., perché la legge non dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio.

Se poi l’abbandono sia stato posto in essere con la volontà di cagionare la morte, nel senso sopra indicato, il fatto non deve ritenersi compreso nel predetto n. 2, ma nel n. 1 dell’art. 463 c.c.

Ma non è questa l’ipotesi riscontrata dal primo giudice, che ha riconosciuto l’indegnità sulla base di un percorso logico diverso, fondato su una falsa interpretazione della norma dell’art. 463 n. 2, che comprenderebbe, in presenza del pericolo per l’incolumità fisica, l’abbandono dell’incapace, anche se non sanzionato penalmente mediante richiamo delle disposizioni relative all’omicidio.

8. A un attento esame, i ricorrenti incidentali, sotto l’impropria rubrica, insistono nel sostenere che i fatti, posti dal primo giudice a fondamento dell’indegnità, erano stati accertati correttamente, essendo quindi ingiusta la riforma della decisione.

In questo senso la censura non si confronta con la ratio decidendi.

La Corte d’appello si è posta su una linea diversa.

Essa ha preso per buona la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice e, senza minimamente pronunciarsi su di essa, l’ha ritenuta apriori inidonea a integrare l’ipotesi di indegnità prevista dall’art. 463, n. 2, c.c.

In ordine a tale valutazione, che esaurisce la ratio decidendi, i ricorrenti incidentali non muovono alcuna censura.

La ritengono non corretta in rapporto ai fatti come accertati dal primo giudice, la cui gravità sarebbe tale da giustificare la sanzione dell’indegnità, che ha fondamento nella ripugnanza sociale a consentire che chi abbia offeso gravemente la persona dell’ereditando o la sua libertà testamentaria possa trarre profitto dall’eredità dell’offeso.

In questo senso i ricorrenti incorrono nello stesso errore del giudice di primo grado, errore limpidamente colto dalla Corte d’appello.

Le ipotesi di indegnità, giustificate dal comune senso sociale, ad ammettere che possa succedere alla persona offesa colui che abbia commesso atti particolarmente gravi nei suoi confronti, non sono rimesse alla valutazione giudiziale, perché le ipotesi sono a ritenersi rigorosamente tassative e il relativo regime è di ordine pubblico. Esse non sono suscettibili di interpretazione estensiva, né analogica (Cass. n. 314/1946).

In conclusione, il ricorso incidentale deve essere rigettato.

9. Ci sono le condizioni per dare atto della sussistenza ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater d.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto”.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione al ricorso principale; rinvia la causa alla Corte d’appello di Catanzaro anche per le spese;

ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 19 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria, Roma 28 aprile 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.