Manifestazione No Tav, lavoratori sequestrati: legittima la condanna per violenza privata (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 27 aprile 2022, n. 16149).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SABEONE Gerardo – Presidente –

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere –

Dott. SESSA Renata – Consigliere –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere –

Dott. FRANCOLINI Giovanni – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

(OMISSIS) LUCA nato a GENOVA il 03/10/1978

(OMISSIS) JACOPO nato a GENOVA il 17/02/1990

(OMISSIS) ROBERTO MICHELE nato a GENOVA il 01/01/1949

(OMISSIS) CAMILLA nato a GENOVA il 15/08/1986

(OMISSIS) STEFANO nato a GENOVA il 06107/1957

(OMISSIS) OSCAR nato a RHO il 07/07/1972

(OMISSIS) VITO DANIELE nato a GENOVA il 08/02/1979

(OMISSIS) NICUSOR nato a CRAIOVA (ROMANIA) il 02/11/1980

(OMISSIS) FRANCO nato a GENOVA il 05/06/1959

(OMISSIS) ALFREDO nato a GENOVA il 30/04/1963

(OMISSIS) STEFANO nato a GENOVA il 15/07/1983

(OMISSIS) ORNELLA nato a TAU RASI il 07/01/1959

(OMISSIS) ELIO nato a MONCALIERI il 21/11/1988

(OMISSIS) EDOARDO nato a GENOVA il 29/07/1992

(OMISSIS) SILVIA nato a MONCALIERI il 11/08/1988

avverso la sentenza del 06/11/2020 della CORTE APPELLO di GENOVA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIOVANNI FRANCOLINI;

uditi il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione, Dott.ssa PERLA LORI che ha chiesto dichiararsi inammissibilità i ricorsi,

nonché, per le parti civili

PIETRO (OMISSIS), SALVATORE (OMISSIS), OSVALDO (OMISSIS), l’avvocato ANDREA (OMISSIS), quale sostituto processuale dell’avvocato GIUSEPPE (OMISSIS), che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi e ha depositato conclusioni e nota spese

e, per i ricorrenti

ROBERTO MICHELE (OMISSIS), STEFANO (OMISSIS), NICUSOR (OMISSIS), l’avvocato FABIO (OMISSIS) che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 6 novembre 2020 (dep. il 20 novembre 2020) la Corte di appello di Genova, a seguito del gravame interposto – per quel che qui rileva – da Luca (OMISSIS), Jacopo (OMISSIS), Roberto Michele (OMISSIS), Camilla (OMISSIS), Stefano (OMISSIS), Oscar (OMISSIS), Vito Daniele (OMISSIS), Nicusor (OMISSIS), Franco (OMISSIS), Alfredo (OMISSIS), Stefano (OMISSIS), Ornella (OMISSIS), Elio (OMISSIS), Edoardo (OMISSIS) e Silvia (OMISSIS), ha confermato la pronuncia del 29 marzo 2018, con la quale il Tribunale di Genova aveva affermato la responsabilità degli stessi imputati per il delitto di violenza privata e, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti in imputazione (compresa la recidiva contestata a taluni degli imputati), aveva condannato: Oscar (OMISSIS), Nicusor (OMISSIS) e Alfredo (OMISSIS), alla pena di mesi tre di reclusione, nonché i rimanenti imputati alla pena sospesa di mesi due di reclusione (disponendo, altresì, per Camilla (OMISSIS), Stefano (OMISSIS), Ornella (OMISSIS), Elio (OMISSIS), Edoardo (OMISSIS) e Silvia (OMISSIS), la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale), oltre al pagamento delle spese processuali; nonché tutti, in solido, a risarcire il danno (da liquidarsi innanzi al Giudice civile) e a rifondere le spese di costituzione e assistenza alle parti civili Pietro (OMISSIS), Salvatore (OMISSIS), Osvaldo (OMISSIS).

La sentenza di secondo grado ha condannato tutti gli imputati in solido alla rifusione in favore delle parti civili delle spese di assistenza in grado di appello.

1.1. Ai ricorrenti è contestato, in concorso tra loro e con altri soggetti non identificati, di essersi posizionati – in data 21 novembre 2014, nell’ambito di una manifestazione di protesta NO TAV – davanti al varco di accesso al campo base che ospitava i lavoratori impegnati nella realizzazione del Terzo Valico e di aver costretto i lavoratori, chiudendo il cancello d’entrata anche con l’ausilio di una catena ed impedendo loro il transito in entrata e in uscita, con violenza e minaccia (rappresentata dalla forza intimidatrice del gruppo), a tollerare la manifestazione di protesta e a ritardare le proprie occupazioni.

2. Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione:

– l’avvocato Laura (OMISSIS) nell’interesse di Jacopo (OMISSIS), Camilla (OMISSIS), Vito Daniele (OMISSIS), Franco (OMISSIS), Elio (OMISSIS), Edoardo (OMISSIS), Silvia (OMISSIS), con un unico atto;

– l’avvocato Raffaella (OMISSIS) nell’interesse di Ornella (OMISSIS);

– l’avvocato Emanuele (OMISSIS) nell’interesse di Luca (OMISSIS), Oscar (OMISSIS), Alfredo (OMISSIS), Stefano (OMISSIS), con un unico atto;

– l’avvocato Fabio (OMISSIS) nell’interesse di Roberto (OMISSIS), Stefano (OMISSIS) e Romani (OMISSIS), con un unico atto.

Tutti i ricorsi hanno formulato i tre motivi che di seguito si espongono (nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.).

2.1. Con il primo è stata denunciata la violazione dell’art. 610 cod. pen., assumendo che il fatto degli imputati sarebbe stato sussunto erroneamente e in maniera apodittica nell’appena menzionato precetto penale.

2.2. Con il secondo motivo sono stati addotti la violazione dell’art. 131-bis cod. pen. e il vizio di motivazione, in relazione della mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dalla stessa norma.

2.3. Con il terzo motivo è stato prospettata la violazione degli artt. 62, n. 1, 69 e 133 cod. pen., a cagione della mancata applicazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, dell’erroneo bilanciamento tra le circostanze e dell’irrogazione di una pena eccessiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono inammissibili.

Alla luce dell’identità delle doglianze, essi verranno trattati congiuntamente.

1. Con il primo – sub specie della violazione della legge penale – i difensori hanno dedotto che:

– le condotte poste in essere dai ricorrenti e dagli altri manifestanti non integrerebbero il delitto in contestazione, poiché non avrebbe avuto luogo nessun comportamento minatorio o violento nei confronti degli operai, i quali hanno deciso di non uscire dal campo-base per libera scelta o seguendo le determinazioni degli agenti di Polizia presenti;

– i Giudici di appello avrebbero affermato la sussistenza del reato in maniera apodittica e sulla scorta di mere presunzioni basate su altri episodi, in particolare su altre manifestazioni diverse da quella in discorso, cui invece ha partecipato uno sparuto numero di soggetti; e non avrebbero considerato i diritti di rango costituzionale che si esplicano anche attraverso la partecipazione a manifestazioni (senza che sia dirimente se delle stesse sia stato o meno dato previo avviso, o siano partecipate da molte o da poche persone), le quali determinano necessariamente la compressione dei diritti di terzi.

1.1. Il motivo in esame, con il quale non si è soltanto dedotta la violazione dell’art. 610 cod. pen. ma si è pure censurato l’iter argomentativo in forza del quale i Giudici di appello hanno ricostruito la fattispecie concreta (così prospettando pure un vizio della motivazione: Sez. 5, n. 47757 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404 – 01), è manifestamente infondato ed ha reiterato quanto già dedotto in sede di gravame.

La giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che:

– «ai fini del delitto di violenza privata, non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa» (Sez. 5, n. 29261 del 24/02/2017, S., Rv. 270869 – 01; Sez. 5, n. 8425 del 20/11/2013 – dep. 2014, Iovino, Rv. 259052 – 01);

– e «integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che, nell’ambito di manifestazioni di protesta per l’esecuzione di un’opera pubblica, impedisce agli operai incaricati di svolgere i lavori previsti, frapponendosi all’accesso ai macchinari con comportamenti tali da bloccarne l’utilizzo da parte loro, considerato che, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione» (Sez. 5, n. 48369 del 13/04/2017, Ciartano, Rv. 271267 – 01, che in motivazione ha puntualizzato che:

«è evidente come uno stato di coartazione psicologica ben possa prodursi, in capo a chi lavori in un contesto quotidianamente soggetto ad iniziative di pressione e manifestazioni di protesta, quando il lavoratore si trovi al cospetto di più soggetti che dimostrano il chiaro intento di interromperne le attività, pur senza rivolgergli frasi di esplicita portata monitoria»; cfr. pure Sez. 5, n. 4284 del 29/09/2015 – dep. 2016, G., Rv. 266020 – 01).

Nel caso in esame, la Corte di appello – argomentando sulla deduzione difensiva secondo cui, nella specie, non avevano avuto luogo atti di violenza fisica e di minaccia esplicita – ha ritenuto la sussistenza del delitto in contestazione osservando che nel caso in esame un folto gruppo di persone, tra cui gli imputati, si è posizionato davanti all’area destinata ai servizi per gli addetti al cantiere in discorso (ubicato altrove) ed ha impedito a persone e mezzi di farvi rientro al termine della giornata di lavoro e a chi si trovava all’interno di uscire, tanto che nessuno ha potuto varcare il cancello proprio a cagione della costante sorveglianza dei manifestanti e dell’intimidazione determinata dal numero di costoro (che ha indotto pure la Polizia di Stato a temporeggiare fino al termine della protesta).

Tale argomentazione è congrua e conforme ai princìpi di diritto sopra esposti; e non può dirsi utilmente confutata dai ricorsi, che hanno reiterato il medesimo ordine di allegazioni già prospettate ai Giudice di secondo grado e correttamente disattese (Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584 — 01).

Né può ovviamente invocarsi, per escludere la rilevanza penale del fatto, il disposto della Costituzione repubblicana che garantisce il diritto dei cittadini di «riunirsi pacificamente e senz’armi» (art. 17 Cost.), atteso che – come esposto – nella specie ha avuto luogo una condotta minacciosa, non occorrendo immorare oltre rispetto alla prospettazione difensiva.

2. Con il secondo motivo ci si è doluti della mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.).

I ricorrenti hanno censurato le argomentazioni spese sul punto dalla Corte territoriale, la quale ha rigettato anche in parte qua il gravame rilevando come nella specie sia stata limitata la libertà di un elevato numero di persone e come la condotta illecita abbia assunto grandi proporzioni essendosi protratta per almeno un’ora.

Ad avviso della difesa, in tal modo sarebbe stato violato il disposto dell’art. 131-bis cod. pen., la cui portata precettiva è stata chiarita dalla giurisprudenza di legittimità; e la Corte di appello, qualora avesse valutato compiutamente gli elementi probatori emersi dall’istruzione dibattimentale, sarebbe giunta alla conclusione che la manifestazione era pacifica e di durata limitata, quindi non ha determinato disagi ovvero ha prodotto disagi minimi agli operai e alle Forze dell’ordine, tanto da potersi ritenere non punibile ai sensi dell’art.131-bis cit.

2.1. Il motivo in esame è inammissibile poiché manifestamente infondato, generico e versato in fatto.

La Corte di appello si è determinata apprezzando le modalità dell’azione, (ossia uno degli elementi contemplati dall’art. 133, comma 1, n. 1), cod. pen., come prescritto dall’art. 131-bis, comma 1, cod. pen.); ed ha compiuto un apprezzamento di merito congruo che non può qui essere sindacato (cfr. Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta, Rv. 273678 – 01: «ai fini dell’esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis ritenuto, evidentemente, decisivo») sulla scorta di una valutazione alternativa degli elementi di fatto che il ricorso ha finito con l’addurre irritualmente e in maniera del tutto apodittica in questa sede.

3. Con il terzo motivo la sentenza impugnata è stata censurata – sub specie della violazione della legge penale – per non aver ravvisato i presupposti della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, perché avrebbe compiuto erroneamente il bilanciamento tra le circostanze ed irrogato un pena eccesiva, senza prendere in considerazione gli elementi addotti dalla difesa e non apprezzando correttamente il materiale probatorio.

In particolare, non si sarebbe considerato: che gli imputati intendevano porre l’attenzione dell’opinione pubblica sull’inutilità dell’infrastruttura in discorso e di come con la sua realizzazione si stesse deturpando il patrimonio paesaggistico ed ambientale; e che tale senso di protesta era ed è sostenuto da un generale e diffuso consenso da una parte rilevante della collettività.

Di tal ché, la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere, oltre alle circostanze attenuanti generiche, la circostanza prevista dall’art. 62, n. 1), cod. pen. e ritenerle entrambe prevalenti sulla aggravanti in contestazione, rideterminando in mitius il trattamento sanzionatorio.

3.1. Il motivo in esame – che ha inteso pure censurare la ricostruzione della fattispecie concreta, ossia la motivazione della sentenza impugnata – è manifestamente infondato e generico.

Invero:

– «ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non è sufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività» (Sez. 6, n. 19764 del 11/12/2019 – dep. 2020, Angelino, Rv. 279265 – 01);

– difatti, «i motivi di particolare valore morale o sociale cui l’art. 62, comma primo, n. 1, cod. pen. riconosce efficacia attenuante sono soltanto quelli avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva, ed intorno ai quali vi sia un generale consenso» (Sez. 1, n. 20312 del 29/04/2010, Agostini, Rv. 247459 – 01; conf. Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224077 – 01, la quale in motivazione ha chiarito che «la fattispecie descritta, nell’art. 62 n. 1 c.p. ha due elementi costitutivi: l’uno di carattere soggettivo, che consiste nell’intenzione dell’agente di rimuovere con il proprio comportamento una situazione ritenuta di fatto immorale o antisociale;

– l’altro, di carattere oggettivo, nel senso che il movente deve essere riconosciuto, dalla generalità dei consociati come conforme ai costumi morali o sociali che corrispondono alle finalità della comunità organizzata in un determinato momento storico»;

– ed ha osservato come sia «incontrovertibile che i particolari motivi morali o sociali sono solo quelli che traggono origine da valori avvertiti dalla prevalente coscienza collettiva (Sez. IV, 3 maggio 1985, Mancini, rv. 169364; Sez. I, 14 novembre 1994, Bonello, rv. 200467)»).

Dunque, anzitutto non può considerarsi esaustiva la convinzione, richiamata dalla difesa, che avrebbe animato gli agenti; e il ricorso ha apoditticamente assunto che il «senso di protesta» degli imputati sia sostenuto da un generale e diffuso consenso da una parte rilevante della collettività, senza neppure quanto esposto sul punto dalla Corte di appello, che ha affermato che la protesta in discorso, attuata contro la realizzazione di un’opera pubblica, costituisse piuttosto «una ostinata presa di posizione contro una iniziativa decisa a vantaggio della collettività», negando pertanto in maniera congrua e per nulla illogica, che essa fosse dettata da ragioni di particolare valore morale e sociale, vale a dire che fosse ricollegabile a valori intorno ai quali vi è generale consenso e così argomentando conformemente ai princìpi di diritto sopra indicati.

4. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. deve disporsi la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro tremila, atteso che l’evidente inammissibilità dei motivi d’impugnazione impone di attribuire loro profili di colpa (cfr. Corte cost., sent. n. 186 del 13/06/2000; Sez. 1, n. 30247 del 26/01/2016, Failla, Rv. 267585 – 01).

5. Gli imputati devono essere, altresì, condannati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che si liquidano in complessivi euro 4.500,00 (tenuto conto dell’aumento di cui all’art. 4, comma 2, d.m. 10 marzo 2014, n. 55, atteso che il difensore ha assistito più soggetti aventi la stessa posizione processuale), oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 4500,00, oltre accessori di legge.

Così deciso il 14/1/2022.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.