Telefono rubato utilizzato anche dai familiari: possibile la ricettazione in forma concorsuale (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 28 maggio 2025, n. 20026).

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SECONDA SEZIONE PENALE

Composta da

Dott. GIOVANNA VERGA – Presidente –

Dott. DONATO D’AURIA – Consigliere –

Dott. MICHELE CALVISI – Consigliere –

Dott. GIOVANNI ARIOLLI – Relatore –

Dott. MARZIA MINUTILLO TURTUR – Consiglie –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(omissis) (omissis), nato a (omissis) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 10/09/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso dell’Avv. (omissis) (omissis);

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIOVANNI ARIOLLI;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto P.G., Dott. ALFREDO POMPEO VIOLA.

Ricorso trattato in camera di consiglio senza la presenza delle parti, in mancanza di richiesta di trattazione orale pervenuta nei termini, secondo quanto disposto dagli articoli 610 co. 5 e 611 co. 1 bis e ss. c.p.p.

RITENUTO IN FATTO

1. (omissis) (omissis), a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria del 10/09/2024, con cui è stata confermata la sentenza del Tribunale di Locri che ha condannato il ricorrente alla pena di giustizia in ordine al reato di cui all’art. 648 cod. pen.

2. La difesa affida al ricorso a due motivi.

2.1 Con il primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al delitto di cui all’art. 648 cod. pen.

Quanto all’elemento oggettivo, la difesa lamenta come dall’analisi dei tabulati telefonici emergeva, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del merito che aveva travisato il dato, l’associazione all’apparecchio di una pluralità di schede appartenenti a soggetti diversi (l’imputato e i suoi due figli).

In particolare, risultava che il primo utilizzo del telefono di illecita provenienza avesse avuto luogo lo stesso giorno (il 3 settembre 2017) ad opera di due soggetti diversi (il ricorrente e la figlia) che coabitavano nella stessa casa e che avevano, dunque, la comune disponibilità del luogo nel quale è stato rinvenuto l’apparecchio. Di conseguenza, non poteva identificarsi l’imputato come il “primo percettore”. Peraltro, risultava anche come la figlia ne avesse continuato a fare uso.

Quanto all’elemento soggettivo, la difesa lamenta che si sia ricavata la prova della consapevolezza della provenienza delittuosa del bene dal fatto che l’imputato fosse rimasto silente al momento della consegna del bene alla polizia giudiziaria, avendo omesso di fornire una giustificazione sulle modalità di acquisizione del telefono, con riguardo anche all’indicazione della persona da cui l’avrebbe ricevuto.

Ciò determinava un’inversione dell’onere della prova che si poneva in contrasto con il diritto al silenzio, espressione del diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto e con le stesse norme processuali che, in sede di perquisizione e attività della polizia giudiziaria, tutelano tale diritto (artt. 63, 64 e 350 cod. proc. pen.), sancendo anche l’inutilizzabilità del dichiarato artt. 350, 63 e 64 cod. proc. pen.

In questa ottica il Collegio, ponendo a base del proprio convincimento una prova assunta in spregio delle garanzie costituzionalmente previste per l’imputato, sarebbe incorso in una violazione degli artt. 24 Cost. e 350 cod. proc. pen.

2.2. Si lamenta, poi, l’inutilizzabilità dei tabulati telefonici del cellulare di provenienza furtiva, in quanto i giudici di merito avrebbero posto a base del giudizio di responsabilità gli esiti ricavati da tabulati telefonici, illegittimamente acquisiti per mancanza del relativo decreto autorizzativo in sede di indagini preliminari.

3. Il P.G. presso questa Corte, con requisitoria del 25 marzo 2025, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Manifestamente infondate risultano le censure mosse in ordine alla disponibilità del telefono da parte dell’imputato.

Dalla lettura della sentenza di primo grado risulta che fu proprio lo (omissis) a consegnare spontaneamente l’apparecchio alla polizia giudiziaria, condotta che esteriormente si presta logicamente a ricondurre alla sua sfera giuridica il possesso del bene, a nulla valendo, in punto di decisività dell’obiezione difensiva, che il telefono sia risultato anche nella disponibilità di familiari che l’abbiano poi continuato ad utilizzare (così non rendendo affatto decisivo il denunciato travisamento in ordine alla circostanza se l’imputato fosse stato o meno il primo percettore).

La ricettazione, infatti, si presta ad essere ritenuta anche in forma concorsuale, potendo la res di provenienza furtiva formare oggetto di compossesso tra più interessati e a nulla valendo che ad uno di costoro non sia stata elevata la contestazione.

Ciò che rileva è che l’imputato di tale bene abbia fatto uso, in assenza di elementi dimostrativi che avvalorino un ipotetico affidamento del ricorrente – che è il padre di colei che secondo la prospettazione difensiva ne avrebbe fatto comune e maggior uso – a fronte dell’utilizzazione di un bene che, per le sue caratteristiche e modalità di circolazione, esige notoriamente l’esistenza di un valido titolo di disponibilità.

3. Di conseguenza, corretto risulta, in punto di dolo, il richiamo operato dalla sentenza impugnata alla giurisprudenza di legittimità a mente della quale «ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, che costituisce prova della conoscenza dell’illecita provenienza della res, in quanto sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede» (ex multis, Sez. 2, n. n. 25439 del 21/04/2017, Rv. 270179).

Si tratta di un principio che non si risolve affatto in una inversione dell’onere della prova in capo all’imputato, in quanto «In tema di ricettazione non si richiede all’imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, ma soltanto di fornire una attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cose medesime, assolvendo non ad onere probatorio, bensì ad un onere di allegazione di elementi, che possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento» (Sez. U, n. 35535 del 12/07/2007).

È, infatti, la stessa struttura della fattispecie che impone al giudice di valutare l’elemento soggettivo anche sulla base delle dichiarazioni dell’imputato, senza che perciò vi sia una violazione del diritto al silenzio. Infatti, rileva ancora la giurisprudenza come «In tema di ricettazione, sussiste il dolo nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di provenienza illecita.

Il giudice, nella formazione del suo libero convincimento, può legittimamente valutare la condotta processuale dell’imputato e, in particolare, il suo silenzio su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo, purché tale valutazione avvenga in concorso con altre circostanze sintomatiche e non si traduca in un’inversione dell’onere della prova.

Il diritto al silenzio, pur essendo elemento centrale della nozione di processo equo, non costituisce un diritto assoluto: se è vero che una condanna non può fondarsi esclusivamente o essenzialmente sul silenzio dell’imputato, è altrettanto vero che, qualora lo svolgimento del processo abbia evidenziato un quadro probatorio sfavorevole all’imputato tale da esigere concretamente spiegazioni in chiave difensiva, l’esercizio della facoltà di non rispondere può costituire un elemento apprezzabile come riscontro a suo carico.

Tale principio, conforme alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, trova applicazione nel caso in cui l’imputato sia trovato nella disponibilità di un bene di provenienza illecita e non fornisca alcuna plausibile giustificazione in merito alla legittima provenienza dello stesso» (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 4838 del 3 febbraio 2023).

Né l’affermazione di un tale principio si pone in contrasto con le norme processuali che tutelano, sin dallo svolgimento dell’attività investigativa della p.g., il diritto al silenzio dell’imputato, sancendo l’inutilizzabilità di quanto dallo stesso eventualmente dichiarato.

È certamente corretto affermare che quanto riferito dall’imputato alla p.g. in occasione della perquisizione non sarebbe utilizzabile nel dibattimento, anche a favore (Sez. 2, n. 3930 del 12/01/2017, Fiolo, Rv. 269206 – 01) ed analoga sorte avrebbero le dichiarazioni spontanee rese alla p.g. (salve le ipotesi di riti a formazione contratta ed accordo delle parti, Sez. 2, n. 14320 del 13/03/2018, Basso, Rv. 272541 – 01), ma ciò non toglie che all’imputato sono riconosciuti appositi strumenti processuali garantiti che gli consentono, sia nel corso delle indagini che al dibattimento (interrogatorio, esame dibattimentale, dichiarazioni spontanee al processo), di chiarire le circostanze in forza delle quali ha acquisto la disponibilità del bene di provenienza furtiva e, pertanto, egli non può dolersi se il giudice del merito, non rinvenendo elementi dichiarativi a discarico dallo stesso forniti, attribuisca all’accertata disponibilità del bene valenza dimostrativa di una pregressa ricezione in mala fede, tenuto conto anche delle specifiche modalità di circolazione della res.

4. Infondato è l’ulteriore motivo con cui la difesa lamenta l’inutilizzabilità dei tabulati telefonici da cui si è ricavato l’uso anche da parte del ricorrente del telefono di provenienza furtiva, sul rilievo che non sarebbe stato acquisito o allegato il relativo provvedimento con cui l’autorità giudiziaria ne ha disposto l’acquisizione.

Dalla lettura della sentenza di primo grado risulta, infatti, che i tabulati furono ritualmente acquisiti all’udienza del 16 ottobre 2018, all’esito dell’esame del teste di p.g. In quella circostanza, per come si ricava dal verbale di udienza, la difesa nulla osservò alla produzione documentale operata dal pubblico ministero e fatta propria dal Tribunale.

Quanto, poi, al differente profilo della valenza probatoria dei tabulati – profilo da affrontarsi in questa sede in virtù della disciplina transitoria introdotta dall’art. 1-bis d.l. 30 settembre 2021, n. 132, inserito, in sede di conversione, nella legge 23 novembre 2021, n. 178 (novella intervenuta successivamente alla proposizione dell’appello) – va al riguardo richiamato il principio affermato dalla Corte di legittimità secondo cui la nuova disciplina sull’acquisizione dei dati esterni del traffico telefonico e telematico contempla una regola legale di valutazione della prova che, derogando espressamente al principio del “tempus regit actum“, ha efficacia retroattiva ed è, pertanto, applicabile anche ai tabulati acquisiti in procedimenti penali prima dell’entrata in vigore del citato d.I., sicché questi ultimi possono essere utilizzati a carico dell’imputato solo unitamente ad altri elementi di prova ed esclusivamente in relazione ai reati indicati dal riscritto art. 132, comma 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (In termini, ex multis, Sez. 3. n. 47034 del 17/10/2023, Bilello, Rv. 285419 – 01).

Nel caso in esame, al dato ricavato dai tabulati si aggiunge quello significativo consistito dalla relazione di fatto che l’imputato aveva con il bene di provenienza furtiva per come ricavata dalla presenza del telefono nella sua abitazione e dal fatto che fu il ricorrente a consegnarlo spontaneamente alla polizia giudiziaria (v. pag. 2 sentenza di primo grado).

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso, l’11 aprile 2025

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2025.

SENTENZA – copia non ufficiale -.

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