REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. ROSA PEZZULLO – Presidente –
Dott. IRENE SCORDAMAGLIA – Consigliere –
Dott. PIERANGELO CIRILLO – Consigliere –
Dott. RENATA SESSA – Relatore –
Dott. ELENA CARUSILLO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
{omissis) (omissis) (omissis) (omissis) nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 11/09/2023 del Tribunale del Riesame di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Renata Sessa;
lette/sentite le conclusioni del PG, Dott. ALDO CENICCOLA;
udito il difensore.
RITENUTO IN FATTO
1. L’ordinanza impugnata è stata pronunziata in data 11.9.2023 dal Tribunale del riesame di Roma, che ha confermato l’ordinanza cautelare, emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma il 29.8.2023 nei confronti di (omissis) (omissis) (omissis) (omissis) applicativa della misura cautelare in carcere in relazione ai fatti dì cui all’incolpazione in atti, fatti per i quali l’indagato era tratto in arresto in flagranza di reato di tentata rapina aggravata, poi riqualificata dal giudice della convalida in tentato furto con strappo pluriaggravato.
Si segnala che per il predetto reato, a seguito di giudizio abbreviato, l’imputato è stato condannato alla pena di anni due di reclusione e di euro 800 di multa, previa riqualificazione del fatto nell’ipotesi tentata.
2. Contro l’ordinanza sopra indicata ha proposto ricorso per cassazione l’indagato a mezzo del proprio difensore di fiducia, che ha sviluppato tre motivi.
2.1. Il primo motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione evidenziando l’errore commesso dal Tribunale nel non aver valorizzato l’avvenuta derubricazione del reato, fatto sopravvenuto certamente destinato ad incidere sul quadro cautelare esistente.
Il ridimensionamento della fattispecie criminosa avrebbe perciò dovuto suggerire un doveroso adeguamento della misura cautelare.
In particolare, si evidenzia che a differenza di quanto afferma il tribunale del riesame all’atto dell’applicazione della misura custodiale il fatto era riqualificato nell’ipotesi consumata del furto con strappo laddove all’esito del giudizio di primo grado vi è stata un’ulteriore riqualificazione in tentato furto con strappo, sicché si versa proprio nell’ipotesi del sopravvenuto ridimensionamento del quadro cautelare a seguito della riqualificazione dei fatto di reato nell’ipotesi meno grave, quale quella appunto del tentativo; ciò avrebbe imposto una diversa valutazione al riguardo da parte del tribunale dei riesame che, rilevando erroneamente che l’intervenuta riqualificazione risalisse già alla fase applicativa della misura, ha evitato qualsivoglia vaglio in ordine all’incidenza di tale circostanza sopravvenuta all’atto della pronuncia della sentenza di primo grado in ordine all’attualità e concretezza del pericolo di reiterazione del reato; incidenza posta dalla difesa alla base della richiesta di riesame avanzata.
2.2. Col secondo motivo si rappresenta che si era altresì dedotta la violazione dell’art. 575, comma 2-bis c.p.p., che richiama l’art. 624-bis cod. pen., con indicazione che deve ritenersi relativa al solo reato consumato, ma il tribunale del riesame riteneva tuttavia, pur riconoscendo la correttezza di tale premessa, sussistente l’ulteriore ipotesi derogatoria prevista dall’art. 275, comma 2 bis del codice di rito, ovvero l’assoluta inidoneità di misure non detentive a soddisfare l’esigenza cautelare, correttamente ritenuta dal giudice a quo, relativa al pericolo di reiterazione del reato; ma la difesa aveva in particolare evidenziato che la pena inflitta all’imputato all’esito del giudizio abbreviato era quella di anni due di reclusione ed euro 800 di multa, sicché, essendo stata comminata una pena infratriennale, si doveva ritenere violata la disposizione di cui all’art. 275, comma 2-bis c.p.p., che, come noto, esclude l’applicabilità della custodia cautelare in carcere nel caso di applicazione di una pena di entità esigua (individuata dal legislatore in misura inferiore agli anni tre di reclusione) e di potenziale assenza di pericolosità dell’imputato, imponendo un onere di congrua motivazione a carico del giudice anche con riferimento alla personalità dell’imputato; ebbene, il tribunale della libertà ometteva tale disamina, rinviando tuttavia ad una paventata assoluta inidoneità di misure non detentive a soddisfare l’esigenza cautelare, omettendo di considerare che l’istanza cautelare avesse ad oggetto la sostituzione della misura custodiale con il regime degli arresti domiciliari e dunque di misura detentiva.
2.3. Il terzo motivo deduce, sempre nella prospettiva del vizio motivazionale, la erronea valutazione operata dal Tribunale in relazione alla ritenuta inadeguatezza della misura degli arresti domiciliari, valutazione svolta sulla base di mere supposizioni ed ipotesi astratte del tutto avulse da quanto documentato dall’imputato.
3. Il ricorso è stato trattato senza l’intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Preliminarmente si dà atto che l’avv. (omissis) (omissis), già difensore di fiducia dell’indagato, aveva designato per la proposizione del ricorso per cassazione in scrutinio, quale suo sostituto processuale, l’avv. (omissis) (omissis), patrocinante in Cassazione, al quale è stato regolarmente notificato l’avviso di fissazione dell’udienza per la data del 28.11.2023, e che nelle more della celebrazione del processo, l’avv. (omissis) (omissis) ha fatto pervenire, in data 3.11.2023, una nota con la quale ha comunicato che con delibera del 20.10.2023 era stato iscritto all’Albo speciale dei Cassazionisti e ha chiesto che le comunicazioni e notificazioni successive fossero effettuate presso di lui.
A seguito di essa la Cancelleria procedeva ad inviare nuovo avviso di udienza all’avv. (omissis) che era pertanto notiziato in ordine alla data di celebrazione del processo dinanzi a questa Corte, con la conseguenza che la circostanza che la comunicazione della requisitoria resa per iscritto dal Procuratore Generale risulti comunicata al sostituto processuale avv. (omissis) non ha precluso all’avv. (omissis) di prendere cognizione dell’atto, né ha impedito all’avv. (omissis) di informare, doverosamente, l’avv. (omissis) dell’atto e del suo contenuto.
Né d’altra parte risulta eccepito alcunché al riguardo né da parte dell’avv. (omissis) né da parte dell’avv. (omissis) che pure era stato messo in condizione di prendere cognizione della data dell’udienza in cui sarebbe stato celebrato il processo dinanzi a questa Corte.
1. Passando quindi al merito del ricorso, va subito precisato che il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del riesame, ha confermato l’ordinanza con cui il giudice aveva applicato all’imputato la misura della custodia cautelare in carcere per il reato di tentato furto con strappo pluriaggravato, commesso in concorso con altra persona (così riqualificato il fatto originariamente sussunto nella fattispecie di tentata rapina aggravata); e che in sede di giudizio abbreviato l’imputato era condannato per il medesimo fatto, qualificato sempre nella forma tentata, alla pena di anni due di reclusione e di euro 800 di multa.
Sicché il tribunale non è incorso in alcuno errore nel ritenete che il reato nella forma del tentativo fosse stato ravvisato già in sede di applicazione della misura cautelare, con la conseguenza che non si poneva una questione di rivalutazione della gravità cautelare sotto il profilo di un sopravvenuto ridimensionamento della condotta criminosa nel giudizio abbreviato.
In ogni caso il giudice della cautela si è soffermato a valutare se dovesse confermarsi la misura restrittiva carceraria o se, come richiesto nella sostanza dalla difesa, potesse trovare applicazione la misura degli arresti domiciliari, offrendo argomenti a sostegno del rigetto che congruamente danno atto, nei loro complesso, dell’impossibilità di ritenere idonea nel caso di specie a scongiurare il pericolo di reiterazione una misura diversa da quella carceraria.
Innanzitutto, il tribunale ha correttamente rilevato, concordando con la difesa, che il titolo di reato di tentato furto con strappo non potesse essere ricompreso nel primo catalogo delle ipotesi derogatorie di cui all’art. 275, comma 2-bis, c.p.p. che include unicamente il reato di furto di cui all’art. 624-bis cod. pen., consumato.
Ciò nondimeno ha osservato, il tribunale, che ricorresse nel caso di specie l’altra ipotesi derogatoria di cui alla seconda parte del comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. evidenziando che il ricorrente, che annovera carichi pendenti per reati contro il patrimonio e la persona (ben quattro tra febbraio e luglio 2023) e non ha fonti documentate di reddito lecito, ha commesso il fatto mentre era sottoposto alla misura del divieto di dimora nel Comune di Roma, che platealmente violava commettendo i fatti di cui al presente procedimento; e quanto al profilo della mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati dall’art. 284 cod. proc. pen. ove poter disporre la misura degli arresti domiciliari, ulteriore condizione prevista dalla medesima disposizione normativa per l’applicazione della deroga in argomento, ha ben posto in rilievo come la situazione di indisponibilità di idoneo domicilio – come già peraltro valutata dal giudice della convalida davanti al quale l’indagato, senza fissa dimora, dichiarava di abitare in albergo – non fosse mutata poiché il soggetto dichiaratosi disponibile ad accogliere il ricorrente in regime di arresti domiciliari si era dichiarato “assegnatario” di immobile ubicato nel Comune di Roma ma non aveva documentato nemmeno tale assegnazione e i limiti della stessa.
Tali argomenti soddisfano i requisiti di una motivazione congrua ed adeguata, avendo il tribunale motivato in riferimento all’ipotesi derogatoria sopra indicata dando correttamente conto anche della inidoneità del domicilio indicato ai fini dell’esecuzione della misura degli arresti domiciliari (laddove la inadeguatezza di una misura non detentiva è in re ipsa avendo l’imputato commesso il reato mentre era sottoposto alla misura del divieto di dimora), circostanza quest’ultima che anzi a ben vedere fa scattare l’altra ipotesi derogatoria di cui al comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. che a monte esclude la rilevanza della previsione del limite dei tre anni.
Ed invero, a rigore nel caso di specie ricorre l’ulteriore profilo derogatorio di cui all’art. 280, comma 3, cod. proc. pen., espressamente richiamato dal comma 2-bis proprio in relazione al caso di prevedibile irrogazione di pena infratriennale, avendo l’imputato commesso il fatto allorquando era sottoposto alla misura del divieto di dimore nel Comune di Roma; l’art. 280, comma 3, deve essere interpretato, tenuto conto del tenore letterale e della ratio ad esso sottesa nell’ambito del raccordo con il comma 2-bis dell’art. 275 che lo richiama, nel senso che la deroga in esso prevista opera nei confronti di chi – come nel caso di specie – abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare (Sez. 5, n. 108 del 30/10/2019 Cc., deo, 03/01/2020, Rv. 278554 – 01); non viene, cioè, in rilievo, con riferimento a tale ipotesi di deroga, la violazione delle prescrizioni relative alla misura in corso di esecuzione che, allorquando essa consista negli arresti domiciliari, ricade nel novero di cui all’art. 276 comma 1-ter cod. proc. pen. (costituente l’ulteriore caso di deroga di cui al comma 2-bis dell’art. 275).
Tornando quindi alla congruità della motivazione, si osserva che, d’altra parte, la forma sintetica e lapidaria della stessa è piuttosto tesa a scolpire la graniticità di un quadro cautelare che non lascia dubbi ed alternative alla luce dei pregnanti elementi segnalati rispetto ai quali la natura tentata della fattispecie non è evidentemente apparsa idonea ad esplicare quell’effetto riduttivo delle esigenze cautelari che la difesa ha inteso attribuirvi, rimanendo ferma, da un lato, la gravità della condotta, pluriaggravata, commessa in concorso, ai danni di persona ultrasessantacinquenne, non portata a compimento per cause indipendenti dalla volontà del suo autore, e dall’altro l’allarmante personalità del ricorrente, come ben illustrata nel provvedimento impugnato.
D’altronde, si deve rammentare, che nel giudizio in Cassazione, i limiti della cognizione della Corte, anche in relazione ai provvedimenti riguardanti l’applicazione di misure cautelari, sono individuabili nell’ambito della specifica previsione normativa contenuta nell’art. 606 cod. proc. pen., con la conseguenza che, qualora venga denunciato il vizio di motivazione di un’ordinanza, tale vizio, per poter essere rilevato, deve assumere i connotati indicati nell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., e cioè riferirsi alla mancanza della motivazione o alla sua manifesta illogicità (Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199391).
Donde, il sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento cautelare personale è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti:
1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;
2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto ai fine dei provvedimento (Sez. 3, n. 40873 del 21/10/2010, Merja, Rv. 248698).
Rimanendo entro i confini di tale pacifica interpretazione, deve darsi atto che la motivazione del provvedimento impugnato è tutt’altro che priva di coerenza, completezza e logicità, né può ritenersi che si sia incorsi in violazione di legge nel confermare l’adeguatezza della misura cautelare.
Sicché manifestamente infondato è l’argomento secondo cui il giudice del merito avrebbe superato il divieto previsto dall’art. 275, comma 2-bis, c.p.p. senza verificare approfonditamente l’inadeguatezza di ogni altra misura e l’impossibilità di disporre gli arresti domiciliari per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284, primo comma, c.p.p.
Il Tribunale, attraverso una motivazione puntuale, logica ed immune da ogni censura in chiave di ragionevolezza, ha indicato diversi elementi certamente idonei a fondare il giudizio di inadeguatezza espressamente previsto dalla norma richiamata, quali:
i procedimenti pendenti per reati contro il patrimonio commessi dall’imputato in tempi abbastanza prossimi;
l’assenza di fonti documentabili di reddito;
l’avvenuta commissione del fatto durante la sottoposizione al divieto di dimora nel Comune di Roma;
la concreta indisponibilità di idoneo domicilio (avendo un soggetto terzo solo dichiarato, ma non anche documentato, la propria qualità di “assegnatario” di un immobile, senza tuttavia fornire alcuna precisazione sull’effettivo titolo di tale assegnazione e sugli eventuali limiti che lo accompagnano);
l’assenza di fissa dimora dell’imputato (che aveva in precedenza dichiarato di abitare in un albergo).
A fronte di tali circostanze, i motivi articolati in ricorso si rivelano anche aspecifici oltre che manifestamente infondati, dal momento che essi, di là di una generica doglianza circa la necessaria adeguatezza della misura cautelare, non indica alcun concreto elemento idoneo a contraddire gli elementi di fatto valorizzati dal tribunale.
Occorre solo precisare, quanto al terzo motivo, che il punto segnalato nel provvedimento impugnato circa la mancanza di documentazione in ordine alla dichiarata assegnazione di un immobile da parte di un terzo non è superabile con l’argomento esposto in ricorso secondo cui tale incertezza sarebbe arginabile mediante i controlli di Polizia giudiziaria, avendo il tribunale escluso a monte la dimostrazione di un domicilio idoneo ad ospitare il ricorrente agli arresti domiciliari senza entrare nei profilo della idoneità della misura domestica a scongiurare il pericolo di reiterazione del reato (profilo in realtà precluso a fronte di un domicilio non reputato idoneo).
2. Dalle superiori considerazioni discende la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate.
3. Va, infine, disposto che la Cancelleria provveda agli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1- ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 28/11/2023.
Depositato in Cancelleria, il 10 gennaio 2024.