Chiedono soldi a una suora per non diffondere foto ‘intime’ che la ritraggono: è estorsione (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 2 novembre 2021, n. 39256).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CERVADORO Mirella – Presidente –

Dott. AGOSTINACCHIO Luigi – Consigliere –

Dott. ARIOLLI Giovanni – Consigliere –

Dott. PELLEGRINO Andrea – Rel. Consigliere –

Dott. RECCHIONE Sandra – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti, con unico atto, rispettivamente da

(OMISSIS) Ornella, nata a Desio il 16/10/19xx;

(OMISSIS) Achille, nato a Bergamo il 12/07/19xx;

(OMISSIS) Federica, nata a Bergamo il 07/08/19xx;

tutti rappresentati ed assistiti dall’avv. Luca (OMISSIS), di fiducia;

avverso la sentenza n. 4304 in data 11/09/2019 della Corte di appello di Milano, terza sezione penale;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Andrea Pellegrino;

letta la requisitoria scritta ex art. 23 d.l. n. 137/2020 convertito in I. n. 176/2020 con la quale il Sostituto procuratore generale Dott. Fulvio Troncone ha chiesto di dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi;

preso atto che le difese non hanno chiesto la discussione orale né hanno presentato memorie.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 11/09/2019, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado resa dal Tribunale di Como in data 06/12/2016, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Ornella (OMISSIS), Achille Giovanni (OMISSIS) e Federica (OMISSIS) in relazione ai reati di cui ai capi A), B) e D) e rideterminando la pena nei loro confronti in relazione al residuo capo C) d’imputazione (artt. 81 cpv., 110 e 629 cod. pen.) nella misura di anni cinque di reclusione ed euro 1000 di multa ciascuno.

Con riferimento al capo C), ai ricorrenti viene imputato di essersi – in tempi diversi e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso – procurati un ingiusto profitto non inferiore a euro 9600,00 in danno di (OMISSIS) Caterina, costringendo quest’ultima mediante minaccia a consegnare loro a più riprese somme di denaro di quell’ammontare complessivo, onde evitare la diffusione di fotografie in pose pornografiche di una sua nipote ((OMISSIS) Silva) nonché di fotomontaggi che ritraevano in pose siffatte la stessa (OMISSIS) Caterina.

2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di Ornella (OMISSIS), Achille Giovanni (OMISSIS) e Federica (OMISSIS), viene proposto ricorso per cassazione.

Lamentano i ricorrenti:

– mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità in ordine al reato di estorsione (primo motivo); in particolare, si insisteva nel rilevare come, nel racconto della persona offesa e dei testi, il fatto non risultasse per nulla circostanziato e non trovasse collocazione temporale, né vi fosse prova del versamento di alcuna somma in conseguenza della presunta minaccia e quindi della percezione dell’illecito profitto da parte degli imputati; inoltre, era risultata evidente la contraddittorietà tra la testimonianza della persona offesa e quella resa dagli altri testi in ordine al male minacciato e alla provenienza del medesimo;

– inosservanza ed erronea applicazione di legge in relazione alla qualificazione della condotta di estorsione anziché in quella di truffa aggravata, ex art. 640, comma 2 n. 2 cod. pen., con sussistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale necessitante, in subordine, il ricorso alle sezioni unite (secondo motivo); in particolare, l’orientamento cd. oggettivo della giurisprudenza appare maggiormente aderente ad una valutazione materiale del reato e risulta quindi maggiormente conforme a principi di tipicità e di certezza del diritto: di tal che, se la minaccia di un danno nasconde una truffa (e ciò avviene senz’altro tutte le volte che il male è immaginario ed inventato dall’agente), la fattispecie di riferimento, benchè nella versione aggravata dall’ingenerato pericolo immaginario, sarà quest’ultima, non già l’estorsione.

Certamente la paura dell’offeso è essenziale nell’estorsione, ma sicuramente un male concretamente realizzabile dall’agente è cosa diversa da un male immaginario e se tale paura non è connessa ad una minaccia la cui realizzabilità in effetti dipenda dall’agente, allora si può dire, senza alcun dubbio, che si sia all’interno della sfera tipica del delitto di truffa;

– mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, laddove ha ritenuto di attribuire alla condotta posta in essere dagli imputati nei confronti della persona offesa, concreta efficacia coercitiva ai fini dell’integrazione del reato di estorsione, nonostante le contrarie risultanze dell’istruttoria dibattimentale (terzo motivo); si evidenzia come, nella fattispecie, anche volendo prescindere dal considerare l’oggettiva inverosimiglianza della minaccia, che la stessa non fosse dotata di alcuna effettiva potenzialità coercitiva e che soprattutto non abbia in concreto coartato la volontà della vittima, si ricava chiaramente dalle stesse inequivoche dichiarazioni testimoniali della persona offesa.

In tal senso, è emblematico e risolutivo quanto da suor Caterina riferito relativamente ai rapporti con i propri familiari ed in particolare con la propria sorella (OMISSIS), ovvero colei che, secondo la prospettazione data, avrebbe ordito il ricatto manipolando le fotografie e pretendendo la consegna del denaro per evitarne la divulgazione.

Ed è la stessa suor Caterina che ha dichiarato di non aver mai pensato che sua sorella (OMISSIS) potesse o anche solo volesse arrecarle del male, il che esclude ineluttabilmente che la minaccia (diffusione da parte della stessa di fotomontaggi compromettenti) abbia avuto un’effettiva efficacia coercitiva della volontà della persona offesa: se, infatti, suor Caterina riteneva la sorella (OMISSIS) incapace di arrecarle danno, evidentemente nemmeno la poteva credere capace di attuare il male minacciato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono entrambi inammissibili.

2. Aspecifico e comunque manifestamente infondato è il primo motivo.

2.1. Invero, pur volendo superare il profilo della concomitante proposizione di una (non consentita, e come tale inammissibile) censura cumulativa e/o alternativa in relazione a tutti e tre i profili del vizio di motivazione (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo ed altri, secondo cui il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione), nella fattispecie, si è comunque in presenza di doglianze prive di specificità in tutte le loro articolazioni in quanto meramente reiterative di censure già proposte e sulle quali la Corte territoriale ha fornito ampia ed adeguata risposta, doglianze che, in ogni caso, appaiono – come detto – manifestamente infondate.

Ricorre, inoltre, un’ipotesi di c.d. “doppia conforme” con riferimento all’affermazione della penale responsabilità in ordine al capo C), con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell’adozione – da parte di entrambe le sentenze – dei medesimi criteri nella valutazione delle prove (cfr., Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218).

2.2. I ricorrenti contestano la sentenza di secondo grado che – a loro dire – avrebbe fatto esclusivo riferimento alle dichiarazioni della teste (OMISSIS), oggetto di testimonianza indiretta e, in quanto tale, inidonea a costituire elemento di prova: tuttavia, gli stessi omettono di confrontarsi con il rilievo per cui la sentenza di condanna è fondata – come rilevato dalla Procura generale – oltre che sulla testimonianza resa dalla sunnominata teste (OMISSIS) anche sulle dichiarazioni della persona offesa, che risultano intrinsecamente attendibili in quanto precise e circostanziate.

Invero, dette dichiarazioni risultano riscontrate da ulteriori elementi oggettivi quali sms, aventi oggetto le continue richieste di denaro a suor Caterina, e i riscontri documentali dei pagamenti effettuati.

Lo stato di profonda prostrazione della persona offesa, non altrimenti spiegabile, è stato poi confermato da numerosi testi, tutti convergenti nel descrivere Suor Caterina come una donna spaventata, soggiogata, non più lucida e psicologicamente distrutta.

2.3. Come è noto, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede, non necessita di altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214) ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso (salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere, in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza).

In tal senso, non può che ribadirsi il principio giurisprudenziale secondo cui, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere corroborata dai cosiddetti “elementi di riscontro” richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dai soggetti indicati nel comma terzo dell’art. 192 cod. proc. pen., il giudice deve limitarsi a verificare l’intrinseca attendibilità della testimonianza stessa, partendo però dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri, o da lui ragionevolmente ritenuti tali (cfr., Sez. 6, n. 27185 del 27/03/2014, P.G.in proc. P., Rv. 260064).

2.3.1. Sotto altro, ma connesso profilo, l’espressione “fino a prova contraria” non significa che la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l’una o l’altra di dette ipotesi (Sez. 1, n. 7568 del 02/06/1993, dep. 03/08/1993, Rv. 194774).

In assenza, quindi, di elementi di “sospetto”, il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza.

2.3.2. Peraltro, le dichiarazioni di un testimone (anche se si tratti della persona offesa), per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con il logico corollario che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone (Sez. 3, n. 11829 del 26/08/1999, dep. 15/10/1999, Rv. 215247).

Il fatto poi che la testimonianza della persona offesa, quando portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto, debba essere certamente soggetta a un più penetrante e rigoroso controllo circa la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca del racconto (Sez. U, n. 41461/2012, cit.) non legittima un aprioristico giudizio di inaffidabilità della testimonianza stessa (espressamente vietata come regola di giudizio): nella fattispecie, tale rigoroso controllo, alla luce dei rilievi sopra esposti, risulta essere stato effettivamente compiuto dai giudici di merito.

2.3.3. In ogni caso, va tenuto presente che il giudizio circa l’attendibilità del teste è di tipo fattuale, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa: conseguentemente, lo stesso può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito – come nella fattispecie – abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (cfr., Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578).

3. Aspecifico e comunque manifestamente infondato è anche il secondo motivo.

3.1. I giudici di merito si sono attenuti al principio statuito dalla giurisprudenza di legittimità, di recente consolidatasi (da qui l’assenza dei presupposti per ritenere l’attualità di un contrasto giurisprudenziale da rimettere al giudizio delle Sezioni unite), secondo il quale integra il reato di estorsione, e non quello di truffa aggravata, la minaccia di un male, indifferentemente reale o immaginario, dal momento che identico è l’effetto coercitivo esercitato sul soggetto passivo, tanto che la sua concretizzazione dipenda effettivamente dalla volontà dell’agente, quanto che questa rappresentazione sia percepita come seria ed effettiva dalla persona offesa, ancorché in contrasto con la realtà, a lei ignota.

Il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, è infatti rappresentato dalla concreta efficacia coercitiva, e non meramente manipolativa, della condotta minacciosa rispetto alla volontà della vittima, da valutarsi con verifica ex ante, che prescinde dalla effettiva realizzabilità del male prospettato (cfr., Sez. 2, n. 21974 del 18/04/2017, Cianci, Rv. 270072; Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Guarnieri, Rv. 267124; Sez. 2, n. 46084 del 21/10/2015, Levak, Rv. 265362; Sez. 2, n. 7662 del 27/01/2015, Lanza, Rv. 262574; Sez. 6, n. 27996 del 28/05/2014, Stasi, Rv. 261479; Sez. 2, n. 35346 del 30/06/2010, De Silva, Rv. 248402; Sez. 2, n. 23326 del 02/07/2020, El Montaser, non mass.; Sez. 2 n. 23896 del 14/7/2020, Faldini, non mass.).

3.1.1. Fermo quanto precede, con ampie argomentazioni, la Corte territoriale, conformemente alla sentenza di primo grado, ha ricostruito il fatto evidenziando l’attività coercitiva esercitata sulla vittima, intimidita e piegata alla richiesta estorsiva accompagnata da chiari ed univoci atti intimidatori, con conseguente impossibilità di qualificare la condotta come truffa, in assenza di effetti semplicemente manipolatori.

Scrivono i giudici di appello:

… nel caso in esame, la volontà di suor Caterina risulta fortemente coartata dal male prospettatole dagli autori della condotta in ragione del profondo stato di prostrazione psicologica e fisica nella quale la donna si trovava, condizione … comprovata dalle dichiarazioni rese dai vari testi nel corso del processo.

Come risulta dagli atti del processo, ella si rappresentava il pericolo della diffusione dei fotomontaggi pornografici come certo e realizzabile, ritenendo di non avere altra scelta se non quella di soddisfare le continue richieste di denaro provenienti dagli imputati …“.

3.1.2. La difesa ha sostanzialmente omesso di confrontarsi con dette conclusioni, finendo per sollecitare un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate ed invocando una rilettura delle prove poste a fondamento della decisione impugnata.

Come è noto, è preclusa alla Suprema Corte «la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova» (così, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; in senso conforme, Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, dep. 2019, Battaglia, Rv. 275100, in motivazione; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 2, n. 23338 del 07/07/2020, Saccenti, non mass.).

4. Manifestamente infondato è, infine, il terzo motivo.

Premesse le considerazioni esposte nel precedente paragrafo 2.1. del considerato in diritto in relazione alla proposta censura cumulativa del vizio motivazionale, evidenzia il Collegio come si sia in presenza di un motivo di doglianza che tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.

Le conclusioni circa la responsabilità dei ricorrenti risultano adeguatamente giustificate dal giudice di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni.

Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile.

Esula, infatti, dai poteri della Suprema Corte quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (cfr., Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. 7 n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dai ricorsi, si determina equitativamente in euro duemila per ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 22/06/2021.

Depositato in Cancelleria, addì 2 novembre 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.