LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dai Magistrati
Dott. GIACOMO TRAVAGLINO – Presidente –
Dott. ENRICO SCODITTI – Consigliere –
Dott. LINA RUBINO – Consigliere –
Dott. MARCO DELL’UTRI – Consigliere –
Dott. PAOLO SPAZIANI – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32519/2020 R.G., proposto da
(omissis) (omissis) rappresentato e difeso dall’Avv. (omissis) (omissis) in virtù di procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
nei confronti di
(omissis) (omissis), (omissis) (omissis), (omissis) (omissis), quali eredi di (omissis) (omissis) rappresentati e difesi dagli avvocati (omissis) (omissis), (omissis) (omissis) in virtù di procura allegata al controricorso;
– controricorrenti –
per la cassazione della sentenza n. 4831/2020 della CORTE d’APPELLO di ROMA, depositata il 9 ottobre 2020, notificata il 16 ottobre 2020;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 gennaio 2024 dal Consigliere dott. Paolo Spaziani.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Roma, con sentenza 9 ottobre 2020, n. 4831, ha rigettato l’appello proposto dal chirurgo (omissis) (omissis) avverso la decisione del Tribunale della stessa città che, in solido con la (omissis) (omissis) (omissis) (omissis) (ente gestore dell’Ospedale (omissis), lo aveva condannato a risarcire a (omissis) (omissis), i danni (complessivamente liquidati in Euro 198.935,00) subiti in seguito all’intervento chirurgico di cistopessi per cistocele, da lui eseguito nel 2006 presso il predetto Ospedale, in occasione del quale aveva provocato alla paziente una lesione iatrogena dell’uretere, per la quale la sig.ra (omissis) si era dovuta sottoporre a successivi interventi non risolutivi e da cui erano derivati postumi di condizione renale ipofunzionale, disturbi dell’alvo con stipsi e stato ansioso-depressivo, con conseguenze dannose risarcibili.
2. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione (omissis) (omissis) sulla base di tre motivi.
La trattazione del ricorso é stata fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380-bis.1. cod. proc. civ..
II pubblico ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte.
Non sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo viene denunciata, per un verso, la violazione degli artt. 2236, 1176 e 1218 cod. civ. e, per l’altro, la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ..
Sotto il primo profilo, ii ricorrente deduce che la Corte d’appello non avrebbe tenuto canto dei rilievi operati dai consulenti tecnici d’ufficio circa la sussistenza, nella fattispecie, di fattori di incremento della difficoltà tecnica dell’intervento chirurgico, i quali sarebbero stati «ben presenti» e sarebbero stati rappresentati: dall’alto grado del cistorettocele di cui la paziente era portatrice, nonché dal suo sovrappeso; dalla circostanza che essa aveva subito tre tagli cesarei; e dalla isterectomia riferita in anamnesi.
Sotto il secondo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto di «significative incongruenze e contraddizioni risultanti dalla CTU» quali, in particolare, quella relativa alla natura della lesione che non sarebbe stata una lesione dell’uretere ma solo un ematoma che, «organizzandosi», avrebbe prodotto una «compressione ab extrinseco» dell’uretere; soggiunge che la diagnosi di «fistola urogenitale», formulata all’esito del ricovero presso l’Ospedale CTO, non era suffragata da alcun dato strumentale; osserva che, in ogni caso, la sua colpa non sussisteva, in ragione dell’osservanza delle linee guida, ne poteva escludersi una «originaria presenza della lesione».
1.1. II motivo é inammissibile.
La Corte d’appello ha posto a fondamento del giudizio di responsabilità del chirurgo – giudizio perfettamente conforme a quello già espresso dal Tribunale – le risultanze della CTU medico-legale, alla stregua delle quali era stato accertato:
che, durante l’operazione di cistopessi, era stata cagionata alla paziente una lesione iatrogena dell’uretere di tipo indiretto, poiché la tecnica chirurgica non prevedeva manovre dirette su questo organo;
che, sebbene al riscontro di tale lesione fosse seguito l’immediato trasferimento in ambito urologico specializzato, i trattamenti chirurgici successivi, anche presso il CTO, non solo non erano stati risolutivi ma erano stati forieri di ulteriori complicanze;
che dalla lesione erano residuati postumi (ipo-funzionalità renale, problemi dell’alvo con stipsi e sindrome ansioso depressiva) che non si sarebbero dovuti verificare qualora ii trattamento chirurgico fosse stato corretta mente eseguito;
e che da tali postumi erano derivate conseguenze dannose risarcibili, specie di tipo non patrimoniale, avuto riguardo al grado di inabilita accertato dai CTU.
Viene dunque in considerazione un giudizio di merito diretto ad apprezzare l’inesatto adempimento, da parte del chirurgo, alla propria obbligazione professionale; giudizio motivatamente formulato sulla base di rilievi tecnici ritualmente assunti mediante consulenza medico legale e non inficiato da incongruenze e contraddizioni, le quali non sono riscontrabili ne in ordine alla natura della lesione (individuata come lesione dell’uretere di tipo indiretto esitata in fistola urogenitale), ne in ordine alle sue conseguenze.
Le doglianze formulate dal ricorrente, dirette a criticare tale motivato apprezzamento di merito, ad onta della loro intestazione (nonché dell’indebito riferimento agli artt. 1176, 2236 e 1218 cod. civ.), attengono pertanto a motivi di fatto e tendono inammissibilmente a suscitare da questa Corte un apprezzamento di merito alternativo, omettendo di considerare che l’attività di ricostruzione dei fatti e di valutazione delle prove é riservata al giudice del merito ed é insindacabile in sede di legittimità ove, come nella specie, sia stata debitamente motivata.
Giova comunque aggiungere, in relazione alla formale denuncia di violazione dell’art. 2236 cod. civ., che, ai fini della limitazione della responsabilità prevista da tale disposizione, non rileva l’astratta conformità della tecnica adottata alle linee guida (Cass. 11/12/2023, n. 34516); che, sempre ai predetti fini (Cass.19/04/2006, n. 9085), rileva evidenziare che la sentenza impugnata, in base alle risultanze peritali, ha espresso sulla condotta sanitaria un giudizio – insindacabile – di merito non solo di imperizia ma anche di negligenza, stante la rilevata indebita incisione sull’uretere nell’ambito di una tecnica chirurgica che non prevedeva manovre dirette su tale organo; e che, sempre alla luce dei rilievi peritali (di cui il giudice d’appello ha debitamente e motivatamente tenuto conto), lo stesso chirurgo operatore non aveva descritto «sopraggiunte difficoltà tecniche» (p.19 del ricorso), mentre le condizioni personali della paziente (con particolare riguardo ai plurimi parti cesarei avuti, alla subita isterectomia e alla situazione di sovrappeso) erano «ben presenti» già prima dell’esecuzione dell’operazione.
II primo motivo va dunque dichiarato inammissibile.
2. Con ii secondo motivo viene denunciata la violazione degli 1223 e 2697 cod. civ., nonché dell’art. 115 cod. proc. civ..
II ricorrente censura la sentenza impugnata per avere escluso la «rilevanza causale delle condotte dei sanitari intervenuti successivamente all’intervento chirurgico» da lui praticato, le quali avrebbero invece dovuto essere riguardate alla stregua di «cause nuove, che nella successione causale interrompono il nesso tra i postumi rilevati e l’intervento iniziale».
2.1. Anche questo motivo, al di là della formale intestazione, attiene al merito, poiché pone a base della critica del giudizio di irrilevanza causale degli interventi medici successivi a quello eseguito da una circostanza di fatto contraria a quella accertata nella sentenza impugnata, ovverosia la circostanza che dalla CTU sarebbe emersa «la corretta condotta nell’esecuzione» di quell’intervento da parte del ricorrente.
Viene dunque nuovamente criticata la ricostruzione dei fatti e la valutazione delie prove effettuata daI giudice del merito ii quale, tutt’al contrario, ha accertato, come si e sopra evidenziato, il carattere negligente ed imperito dell’intervento chirurgico effettuato da (omissis) per aver provocato, durante la cistopessi, la «involontaria lesione misconosciuta dell’uretere» (tra l’altro, «di tipo indiretto non prevedendo la specifica tecnica chirurgica manovre dirette sull’uretere») con comparsa, dopa l’operazione, «di fistola uretero vaginale, stenosi cicatriziale dell’uretere e idrofrenosi».
La Corte d’appello ha inoltre ritenuto che, proprio «a causa della non corretta esecuzione» dell’intervento di cistopessi per cistocele, (omissis) (omissis) si era dovuta sottoporre ai successivi interventi, i quali, dunque, lungi dall’integrare cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento dannoso (arg. ex art. 41, secondo comma, cod. pen.), costituivano, a loro volta, eventi pregiudizievoli da esso innescato e, pur avendo determinato ulteriori complicanze, non avevano reciso il legame causale del primo intervento con i postumi finali e le connesse conseguenze risarcibili.
Anche ii secondo motive, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
3. Con il terzo motivo viene denunciata la violazione degli artt. 2059 cod. civ. e 115 cod. proc. civ..
II ricorrente contesta la quantificazione del risarcimento, la quale sarebbe stata eccessiva perché fondata sulI’erroneo accertamento, da parte dei consulenti tecnici, del grado di inabilita permanente del 30% in luogo del minore grado del 4-5% che avrebbe dovuto essere accertato come conseguenza dell’unico postumo apprezzabile in termini medico-legali, ovverosia della ipofunzionalità renale.
3.1. Anche questo motivo é inammissibile, in quanto diretto a censurare il giudizio di fatto sul grado di inabilità permanente della danneggiata, espresso dal giudice di merito sulla base delle risultanze della CTU.
4. In definitiva, il ricorso proposto da (omissis) (omissis), deve essere dichiarato inammissibile.
5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
6. II ricorrente soccombente va anche condannato al pagamento, in favore dei controricorrenti vittoriosi, di una somma che si stima equo determinare in misura pari alla meta dei compensi calcolati sulle spese processuali (oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza al saldo), ai sensi dell’art.96, terzo comma, cod. proc. civ.; la proposizione di un mezzo di gravame del tutto inammissibile, con doglianze dirette a censurare l’apprezzamento di fatto operato dal giudice di merito nell’ambito di una doppia pronuncia di conformità, in assenza di alcuna argomentazione idonea ad evidenziare vizi di legittimità della sentenza impugnata, costituisce indice di mala fede o colpa grave e si traduce in una condotta processuale contraria ai canoni di correttezza, nonché idonea a determinare un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali, ponendosi in posizione incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti (art. 6 CEDU) e, dall’altra, deve tenere conto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie, defatigatorie o pretestuose.
Tale condotta, integrando gli estremi dell”‘abuso del processo”, si presta, dunque, nella fattispecie, ad essere sanzionata con la condanna della parte ricorrente soccombente al pagamento, in favore della controparte resistente vittoriosa, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. (Cass. 04/08/2021, n. 22208; Cass. 21/09/2022, n. 27568; Cass. O5/12/2022, n. 35593).
7. Avuto riguardo al tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art.13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso;
condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge;
condanna il ricorrente a pagare ai controricorrenti, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, cod., proc. civ., la somma equitativamente determinata di Euro 3.500,00, oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per ii versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per ii ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, in data 12 gennaio 2024.
Il Presidente
Giacomo Travaglino
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2024.