REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. ANDREA PELLEGRINO – Presidente –
Dott. LUCIA AIELLI – Consigliere –
Dott. GIUSEPPE COSCIONI – Consigliere –
Dott. DONATO D’AURIA – Consigliere –
Dott. GIUSEPPE NICASTRO – Relatore –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(omissis) (omissis), nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 13/12/2023 del G.i.p. del Tribunale di Nuoro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dr. LUIGI GIORDANO, il quale ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata venga annullata senza rinvio e che venga disposta la trasmissione degli atti al Tribunale di Nuoro per nuovo giudizio;
lette le conclusioni dell’Avv. (omissis) (omissis), difensore di (omissis) (omissis), la quale ha affermato di condividere le conclusioni del Pubblico Ministero e si è integralmente riportata a quanto esposto nel ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere dr. GIUSEPPE NICASTRO.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 13/12/2023, il G.i.p. del Tribunale di Nuoro ha applicato, su richiesta congiunta dell’imputato e del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., a (omissis) (omissis) la pena di un anno e otto mesi di reclusione ed € 1.000,00 di multa per il reato di ricettazione.
In base al capo d’imputazione, tale reato era stato contestato al (omissis) «per avere, al fine di procurarsi un profitto, essendo detenuto nel carcere di Nuoro “Badu e Carros”, indebitamente ricevuto un apparecchio telefonico, cosa provento del delitto di cui all’art. 391 ter c.p.» (Accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti).
Il G.i.p. del Tribunale di Nuoro riteneva corretta la qualificazione giuridica del fatto come ricettazione, sull’assunto che «la stabile detenzione del bene è condizione necessaria e sufficiente perché si possa configurare la condotta come riconducibile alla ricettazione e non al semplice reato di cui all’art. 391 ter. Non si è mai trattato di una conversazione ma l’uso del telefono è di una certa stabilità come ben precisato fin dalla CNR».
2. Avverso tale sentenza del 13/12/2023 del G.i.p. del Tribunale di Nuoro, ha proposto ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., per il tramite del proprio difensore avv. (omissis) (omissis), (omissis) (omissis), con il quale deduce l’erronea qualificazione giuridica del fato come ricettazione anziché come accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti di cui all’art. 391-ter, terzo comma, cod. pen., il quale punisce con la stessa pena che è prevista dal primo comma dello stesso articolo (la reclusione da uno a quattro anni) il «detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni».
Con riguardo alla motivazione contenuta nella sentenza impugnata a sostegno della qualificazione del fatto come ricettazione, il ricorrente deduce che la configurazione del reato di cui all’art. 391-ter cod. pen. «non dipende certo dalla stabilità e dal numero di volte con cui il detenuto ha avuto a disposizione il cellulare ma è determinata dalla semplice detenzione o dal semplice utilizzo dell’apparecchio telefonico a prescindere dal tempo impiegato, inteso come durata stabile dell’utilizzo».
Il ricorrente rappresenta che l’errore di qualificazione giuridica che sarebbe stato commesso dal G.i.p. del Tribunale di Nuoro emergerebbe «dalla stessa lettura del capo d’imputazione» e che il rilievo dello stesso errore non richiederebbe alcun accertamento in fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. L’unico motivo non è fondato.
2. Si deve preliminarmente rammentare che la Corte di cassazione afferma costantemente che, in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo, ai sensi dell’art. 448, comma 2- bis, cod. proc. pen., l’erronea qualificazione giuridica del fatto contenuto in sentenza è limitata ai soli casi di errore manifesto – ossia ai casi in cui sussiste l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati -, il quale è configurabile quando detta qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza e senza margini di opinabilità, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo d’imputazione (Sez. 4, n. 13749 del 23/03/2022, Gamal Eid Sayed, Rv. 283023- 01; Sez. 2, n. 14377 del 31/03/2021, Paolino, Rv. 281116-01), dovendosi escludere l’ammissibilità dell’impugnazione che richiami, quale necessario passaggio logico del motivo di ricorso, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza dalla contestazione (Sez. 6, n. 3108 del 08/01/2018, Antoci, Rv. 272252-01) o che denunci errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dalla stessa contestazione e dal testo del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 33145 del 08/10/2020, Cari, Rv. 279842-01; Sez. 6, n. 25617 del 25/06/2020, Annas Kaddche, Rv. 279573-01; Sez. 3, n. 23150 del 17/04/2019, El Zitouni, Rv. 275971-02).
3. Ciò posto, va detto che l’art. 391-ter cod. pen. è stato inserito nel codice penale dall’art. 9, comma 1, del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 (il cosiddetto “Decreto sicurezza bis”), conv. con modif. dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173, a chiusura del Capo II, dedicato ai “Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie”, del Titolo III, che contiene i “Delitti contro l’amministrazione della giustizia”.
Esso, in vigore dal 22/10/2020 (art. 16 del d.l. n. 130 del 2020), stabilisce che: «Fuori dei casi previsti dall’articolo 391-bis, chiunque indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni o comunque consente a costui l’uso indebito dei predetti strumenti o introduce in un istituto penitenziario uno dei predetti strumenti al fine di renderlo disponibile a una persona detenuta è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni [primo comma]. Si applica la pena della reclusione da due a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense [secondo comma]. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la pena prevista dal primo comma si applica anche al detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni [terzo comma]».
Il bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice appare essere l’effettività della pena detentiva e della custodia cautelare in carcere, le cui finalità possono risultare frustrate dall’indebito accesso, da parte dei detenuti, a dispositivi idonei alla comunicazione dei quali gli stessi detenuti si potrebbero servire non solo per coltivare il proprio diritto all’affettività, comunicando con i propri cari, ma anche per continuare a gestire i propri affari illeciti.
Sulla base di quanto emerge dai lavori preparatori, l’introduzione della nuova fattispecie delittuosa rispondeva all’esigenza di contrastare il fenomeno, che era divenuto ormai endemico, dell’introduzione in carcere di apparecchi cellulari, che l’Amministrazione penitenziaria non era in condizioni di contrastare efficacemente, essendo risultata non praticabile, dal punto di vista sia tecnico sia economico, la soluzione alternativa e, in vero, dirimente, della cosiddetta “schermatura” degli istituti penitenziari.
Passando alla descrizione della nuova fattispecie, si deve osservare che l’art. 391-ter cod. pen. contiene due reati, uno previsto dal primo comma e l’altro previsto dal terzo comma, i quali sono puniti con la stessa pena della reclusione da uno a quattro anni.
Quanto al primo comma, esso prevede un reato comune («chiunque») che presenta la tipica struttura della norma a più fattispecie, atteso che vi si contemplano tre condotte tra loro alternative, precisamente, quelle di chi:
1) procura indebitamente a un detenuto un apparecchio telefonico o un altro dispositivo idoneo a effettuare comunicazioni;
2) consente a un detenuto l’uso indebito di tali strumenti;
3) introduce in un istituto penitenziario uno dei menzionati strumenti al fine di renderlo disponibile a una persona detenuta.
Mentre le prime due fattispecie sono a dolo generico, atteso che lo scopo dell’agente risulta indifferente ai fini dell’integrazione del reato, in quanto estraneo alla tipicità del fatto, la terza fattispecie sembrerebbe esigere il dolo specifico («al fine di renderlo disponibile a una persona detenuta»). Requisito, questo, che in dottrina è stato ritenuto bilanciare l’anticipazione dell’offesa che discende dal fatto che la fattispecie non appare richiedere che il detenuto entri nell’effettiva disponibilità del dispositivo, essendo sufficiente che l’autore del reato lo introduca nell’istituto penitenziario.
Il primo comma dell’art. 391-ter cod. pen. prevede la clausola di riserva «[f]uori dei casi previsti dall’art. 391 bis» cod. pen., il quale punisce l’«Agevolazione delle comunicazioni dei detenuti sottoposti alle restrizioni di cui all’articolo 41 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. Comunicazioni in elusione delle prescrizioni».
La clausola comporta la sussidiarietà del reato di cui al primo comma dell’art. 391-ter cod. pen. rispetto al reato di cui all’art. 391-bis cod. pen., al quale il legislatore ha assegnato, perciò, la prevalenza.
Il secondo comma dell’art. 391-ter cod. pen. prevede un’aggravante speciale del reato di cui al primo comma dello stesso articolo, la quale, in quanto caratterizzata dalla qualifica soggettiva dell’agente (pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio, esercente la professione forense), comporta che lo stesso reato diventi proprio.
Passando al terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen., esso prevede un reato proprio, il cui soggetto attivo qualificato è il «detenuto», e presenta anch’esso la struttura della norma a più fattispecie, atteso che vi si contemplano due condotte tra loro alternative, precisamente, quelle del detenuto che indebitamente «riceve» o «utilizza» un apparecchio telefonico o un altro dispositivo idoneo a effettuare comunicazioni.
L’utilizzo della congiunzione disgiuntiva «o» implica che, affinché il reato sia integrato, non è necessario che il detenuto utilizzi il dispositivo per la funzione di esso di effettuare comunicazioni ma è sufficiente che l’agente qualificato ne sia in possesso per averlo ricevuto.
La Corte di cassazione ha chiarito che il delitto di ricezione di dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti di cui al terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen. è punito a titolo di dolo generico, come è reso evidente dalla formulazione testuale della norma, la quale non contiene alcun riferimento a particolari finalità che devono animare l’agente, con la conseguenza che, a integrare il dolo del reato, è sufficiente la coscienza e volontà della ricezione dell’apparecchio telefonico o di altro dispositivo idoneo a effettuare comunicazioni (Sez. 6, n. 34282 del 10/07/2024, A., non massimata).
Anche il terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen. si apre con una clausola di riserva, che ne delimita il perimetro applicativo, cioè la clausola «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato», la quale comporta la sussidiarietà del reato di cui al terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen. rispetto all’intera categoria dei reati più gravi, ai quali il legislatore ha assegnato, perciò, la prevalenza. Il presupposto di entrambi i reati di cui al primo e al terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen. è che l’accesso a dispositivi idonei alla comunicazione sia indebito.
Clausola, questa, di antigiuridicità espressa speciale con la quale il legislatore appare fare riferimento a un accesso a dispositivi di comunicazione non autorizzato dall’Amministrazione penitenziaria sulla base delle leggi e dei regolamenti.
Con riguardo all’oggetto dei due reati, la Corte di cassazione ha escluso che esso possa essere costituito da una scheda SIM (Sez. 6, n. 42941 del 11/09/2024, Collalunga, Rv. in corso di attribuzione).
4. Tornando al motivo di ricorso, alla luce di quanto si è esposto al punto 3 che precede, si deve ritenere che, nel caso in cui il detenuto riceva l’apparecchio telefonico o un altro dispositivo idoneo alla comunicazione da parte di chi lo abbia abusivamente introdotto nell’istituto penitenziario senza un previo accordo con lo stesso detenuto, tale condotta di ricezione del dispositivo appare integrare il reato di ricettazione, per avere il detenuto ricevuto una cosa (il dispositivo) proveniente dal delitto di cui all’art. 391-ter, primo comma, cod. pen.
Tale reato di ricettazione, ove ritenuto in concreto più grave, per effetto della clausola di riserva «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato» con cui si apre il terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen. – clausola che il ricorrente mostra di non avere considerato – “prevale” su quello di cui al terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen.
Da quanto si è appena esposto discende perciò come la qualificazione giuridica del fatto attribuito al ricorrente come ricettazione non si possa ritenere palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo d’imputazione, nel quale è stato contestato all’imputato di avere ricevuto un apparecchio telefonico provento del delitto di cui all’art. 391-ter cod. pen.
5. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 14/01/2025.
Il Consigliere estensore Il Presidente
Giuseppe Nicastro Andrea Pellegrino
Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2025.
Il Funzionario Giudiziario
Dr.ssa Claudia Pianelli