I giudici tributari non possono procedere alla compensazione delle spese quando il Fisco abbia proceduto a uno sgravio in autotutela per aver preteso un’imposta dal contribuente sbagliato (Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, Sentenza 28 giugno 2023, n. 18459).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Federico SORRENTINO – Presidente –

Dott. Giacomo Maria STALLA – Consigliere –

Dott. Milena BALSAMO – Consigliere –

Dott. Andrea PENTA – Rel. Consigliere –

Dott. Francesca PICARDI – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 938/2022 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS)                                                                                    (OMISSIS) (OMISSIS)

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate (OMISSIS) in persona del Direttore Generale, pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale  dello Stato (C.F (OMISSIS) e presso la stessa domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1791/2021 emessa dalla CTR Calabria in data 20/05/2021 e non notificata;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. Andrea Penta;

Rilevato che

1. (omissis) (omissis) (omissis) proponeva ricorso davanti alla CTP di Catanzaro avverso una cartella esattoriale emessa dall’Agenzia delle Entrate per il recupero dell’imposta di registro relativa ad una sentenza, sostenendo che quest’ultima, per la quale era stato chiesto il pagamento dell’imposta di registro, era riferibile ad altra persona.

2. L’adita CTP dichiarava “non luogo a deliberare essendo cessata la materia del contendere” e compensava tra le parti le spese del giudizio.

3. Sull’impugnazione del contribuente, la CTR Calabria rigettava il gravame, evidenziando che, a fronte dell’errore commesso dall’Agenzia nell’individuazione del soggetto obbligato, riparato in sede di autotutela, sì da determinare la cessazione della materia del contendere, la CTP correttamente aveva considerato la condotta tenuta dal ricorrente, che aveva intrapreso una controversia davanti all’autorità giudiziaria nella consapevolezza della sua superfluità, essendo a conoscenza dell’intervenuto sgravio prima della notificazione del ricorso introduttivo del giudizio.

4. Avverso la sentenza d’appello proponeva ricorso per cassazione (omissis) (omissis) (omissis) sulla base di un unico motivo.

L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Considerato che

1. Con l’unico motivo il ricorrente deduce la “violazione degli 15, 17- bis e 46 d.lgs. n. 546/1992 e 92 c.p.c.”, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., e, in subordine, la “nullità della sentenza per violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4), d.lgs. n. 546/1992, 132 cod. proc. civ. e 111 Cost.”, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., per aver la CTR, con una motivazione meramente apparente, erroneamente, a suo dire, ipotizzato che la CTP avesse disposto la compensazione delle spese per la sussistenza di “altri giusti motivi” e per non aver statuito sulla eccepita mancanza di motivazione della sentenza di primo grado.

2. Preliminarmente, destituita di fondamento è l’eccezione di inammissibilità, per violazione del principio di autosufficienza, del ricorso sollevata dalla resistente, atteso che l’atto contiene l’esposizione sommaria dei fatti di causa e fornisce gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della

In particolare, nel ricorso parte ricorrente, dopo avere indicato la norma di riferimento ed avere riportato i passaggi logici degli atti richiamati, nonché le parti delle sentenze censurate, ha indicato in modo adeguato il “luogo” in cui le varie censure erano state tempestivamente formulate (cfr. Cass. nn. 16979/1013, 22726/2011 e 2015/23575).

3. Nel merito, il motivo è fondato per quanto di ragione.

E’ ormai noto come le Sezioni Unite (sentenza n. 8053 del 2014) abbiano fornito una chiave di lettura della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, nel senso di una riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione, con conseguente denunciabilità in cassazione della sola “anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione.

E’ stato altresì precisato che (in termini, Cass. n. 2876 del 2017) che il vizio motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111, sesto comma, Cost.), e cioè dell’art. 132, sesto comma, n. 4, cod. proc. civ. (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo art. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata (cfr. Cass. nn. 2876/2017 e 1461/2018).

Orbene, nel caso di specie, la sentenza impugnata non può reputarsi al di sotto del minimo costituzionale, atteso che la CTR, dopo aver evidenziato che i giudici di primo grado avevano proceduto alla compensazione delle spese di lite “in esito ad una valutazione complessiva della situazione determinatasi” (“perché a fronte dell’errore commesso dall’Agenzia delle Entrate nell’individuazione del contribuente, riparato in sede di autotutela, sì da determinare la cessazione della materia del contendere, ha considerato la condotta tenuta dal ricorrente che ha intrapreso una controversia davanti all’Autorità Giudiziaria pur nella consapevolezza della sua superfluità, essendo a conoscenza dell’intervenuto sgravio prima della notificazione del ricorso introduttivo del giudizio”), ha richiamato il principio generale in tema di contenzioso tributario secondo cui la commissione tributaria può dichiarare compensate le spese processuali, in tutto o in parte (ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.), quando concorrono “altri giusti motivi”.

3.1. Avuto riguardo alla denunciata violazione di legge, va preliminarmente evidenziato che la CTR è incorsa in un errore nella ricostruzione dell’evoluzione cronologica, dal punto di vista processuale, degli eventi, sostenendo che il contribuente avrebbe notificato il ricorso introduttivo del giudizio dopo essere venuto a conoscenza dell’intervenuto sgravio, laddove, in realtà, è il deposito del detto ricorso che è avvenuto dopo l’accoglimento, da parte dell’Agenzia, dell’istanza di reclamo/mediazione (mentre quest’ultimo ricorso era già stato notificato in precedenza).

Né, d’altra parte, può imputarsi al contribuente la circostanza di aver dato seguito all’iniziativa giudiziaria dopo aver appreso dello sgravio in via di autotutela, atteso che, da un lato, la stessa si rendeva necessaria al fine di non incorrere in decadenza (vieppiù se si considera che l’annullamento in sede di autotutela è avvenuto circa quattro mesi di tempo dopo la notifica del ricorso) e, dall’altro lato, era legittima la richiesta di rimborso delle spese sostenute per instaurare il giudizio.

Inoltre, nel processo tributario, alla cessazione della materia del contendere per annullamento dell’atto in sede di autotutela non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, solo qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione (come nel caso di specie, in cui si è verificato un vero e proprio errore di persona), stante, invece, l’obiettiva complessità della materia chiarita da apposita norma interpretativa, costituendo in tal caso detto annullamento un comportamento processuale conforme al principio di lealtà, ai sensi dell’art. 88 cod. proc. civ., che può essere premiato con la compensazione delle spese (Sez. 5, Ordinanza n. 22231 del 26/10/2011).

Pertanto, in tema di contenzioso tributario, alla cessazione della materia del contendere, a seguito di annullamento dell’atto impugnato, in sede di autotutela, dopo la definizione del giudizio di merito, non può meccanicamente correlarsi la compensazione delle spese, non essendo improntata una siffatta soluzione esegetica, che riserva alla parte pubblica un trattamento privilegiato privo di obbiettiva giustificazione, ad un’ottica rispettosa dei principi costituzionali di ragionevolezza, di parità delle parti e del “giusto processo”.

In quest’ottica, in una prospettiva di equiparazione del processo tributario a quello civile ordinario, deve farsi ricorso alla regola, propria del secondo, della “soccombenza virtuale”, la cui applicazione nel primo è stata in passato esclusa proprio per essere stata ritenuta, in modo non convincente, di ostacolo all’esercizio dell’autotutela, cui possa seguire la condanna dell’amministrazione alle spese (Sez. 5, Sentenza n. 1230 del 19/01/2007).

4. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso merita accoglimento e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa, considerato il valore della controversia, nel senso di riconoscere all’odierno ricorrente l’importo di euro 250,00 per il primo grado di giudizio ed analogo importo per il giudizio d’appello, il tutto oltre accesso come per legge.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, liquida in favore del ricorrente la somma di euro 250,00 per il primo grado di giudizio e quella di euro 250,00 per il giudizio d’appello, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, Iva e Cap;

condanna la resistente al rimborso delle spese del presente giudizio, che si liquidano in € 400,00 per compensi ed € 200,00 per spese, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, Iva e Cap.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio tenutasi da remoto in data 20.6.2023.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.