In caso di fallimento del datore di lavoro, l’insinuazione al passivo per le quote di Tfr non versate al fondo di previdenza complementare spetta al lavoratore (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 28 giugno 2023, n. 18477).

R E P U B B L I C A  I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L A  C O R T E  S U P R E M A  D I  C A S S A Z I O N E

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. UMBERTO BERRINO                      – Presidente –

Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI  – Rel. Consigliere –

Dott. DANIELA CALAFIORE                     – Consigliere –

Dott. LUIGI CAVALLARO                          – Consigliere –

Dott. ANGELO CERULO                           – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 6521-2018 proposto da:

(omissis) (omissis) elettivamente domiciliato in (omissis);

– ricorrente –

contro

(omissis) (omissis) (omissis) S.R.L.;

intimato

avverso il decreto del TRIBUNALE di VICENZA, depositata il 22/01/2018 R.G.N. 3479/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/05/2023 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Dott. STEFANO VISONA’ visto l’art. 23, comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020 n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTO

1. Con decreto 22 gennaio 2018, il Tribunale di Vicenza ha rigettato l’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 98 l. fall. da (omissis) (omissis) allo stato passivo del Fallimento (omissis) (omissis) (omissis) s.r.l., da cui, per quanto interessa, era stato escluso il suo credito di € 5.138,86, a titolo di T.f.r. conferito al Fondo di Previdenza Complementare ( (omissis) insinuato in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751bis n. 1 c.c.

2. Esso ha ritenuto la mancanza di prova, nell’onere del lavoratore, della sua legittimazione all’insinuazione allo stato passivo del fallimento della società datrice, in difetto di produzione dell’atto costitutivo del Fondo (o di altra documentazione idonea), per accertare il titolo del conferimento del T.f.r., attraverso la contribuzione ad esso destinata, se a titolo di mandato ovvero di cessione del credito: nel primo caso, avendo egli legittimazione, per lo scioglimento del mandato all’apertura della procedura concorsuale; non avendola nel secondo, per effetto del trasferimento del credito nel patrimonio del Fondo, titolare della legittimazione all’insinuazione.

3. Con atto notificato il 21 febbraio 2018, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 p.c.; il Fallimento intimato non ha svolto attività difensiva.

4. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da l. conv. 176/20, nel senso dell’accoglimento del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Nel rispetto dell’ordine logico – giuridico delle questioni poste, con il secondo motivo, il ricorrente deduce nullità del decreto per inosservanza degli 112, 115 c.p.c., 2697 c.c., per non avere ammesso, il giudice delegato, prima e il Tribunale, poi, il lavoratore allo stato passivo per il credito insinuato, nonostante la proposta del curatore della sua ammissione nel progetto di stato passivo e  la mancata costituzione nel giudizio di opposizione.

2. Esso è infondato.

3. Ed infatti, ai fini della decisione del giudice delegato in sede di progetto di stato passivo, la proposta del curatore è irrilevante, posto che, in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta affatto l’automatica ammissione del credito allo stato passivo solo  perché  non  sia  stato  contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove (Cass. 8 agosto 2017, 19734; Cass. 24 maggio 2018, n. 12973).

3.1. Né la contumacia della parte produce alcun effetto di non contestazione della pretesa di controparte, essendo fatto processuale che determina specifici effetti, espressamente previsti e determinati dalla legge, senza introdurre deroghe al principio dell’onere della prova, non consentendo pertanto di ritenere come incontroversi o pacifici i fatti dedotti ma non provati dall’attore (Cass. 11 luglio 2003, n. 10947; Cass. 13 giugno 2013, n. 14860, Cass. 13 marzo 2023, n. 7281).

4. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli 2120 c.c. e 8 d.lgs. 252/2005, per la mancata corretta distinzione, nel decreto del Tribunale impugnato, tra contribuzione, in parte a carico datoriale e in parte del lavoratore, e conferimento del T.f.r., esclusivo oggetto dell’insinuazione allo stato passivo del Fallimento.

5. Con il terzo motivo, il medesimo deduce violazione e falsa applicazione degli 8, 12 d.lgs. 252/2005, 1 legge n. 243/2004, 1188 c.c. o, in alternativa, 1269 c.c., per erronea assunzione – previa la distinzione delle forme di finanziamento dei fondi pensionistici complementari mediante il “versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o committente” o il “conferimento del T.f.r. maturando” – di un’ipotesi di cessione del credito per T.f.r. alternativa a quella di mandato o di delegazione di pagamento, secondo la lettura delle norme regolanti la materia denunciata, alla luce dei principi fissati dalla legge delega n. 243/2004, in speciale riferimento alla locuzione “contitolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro e la legittimazione dei fondi stessi a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi . :  avendo egli comunque indicato l’adesione al (omissis) (omissis) per la destinazione delle quote di T.f.r. accantonate dal datore di lavoro, “ai sensi dell’art. 1188 c.c., quale destinatario di quote della propria retribuzione” (come risultante dalla sua domanda di insinuazione allo stato passivo e dalle conclusioni del ricorso in opposizione allo stato passivo, nella trascrizione all’ultimo capoverso di pg. 2 e al penultimo di pg. 4 del ricorso).

6. Essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono fondati.

7. Premessa la scelta del lavoratore (non già della contribuzione, ma) del conferimento delle quote di t.f.r., a norma dell’art. 8, settimo e decimo comma d.lgs. 252/2005, l’odierna controversia pone la delicata e complessa questione dell’individuazione del soggetto titolare della pretesa concorsuale nei confronti del datore di lavoro insolvente, e pertanto dichiarato fallito, se il lavoratore ovvero il (omissis) (d’ora in avanti (omissis)

Secondariamente si pongono, in quanto strettamente connesse, per una ricostruzione sistematica della natura della previdenza complementare nei suoi riflessi concorsuali, le due questioni relative: b) alla natura, se retributiva ovvero contributiva, del credito del lavoratore (insinuato e) ammesso allo stato passivo; c) all’identità o meno di tale credito a quello del medesimo alla prestazione dovutagli dal (omissis)

8. Per affrontare la questione sub a), immediatamente implicata nella soluzione dell’odierna controversia alla luce della devoluzione operata dai motivi sopra esposti, appare opportuna una ricostruzione essenziale, ai fini strettamente necessari, del quadro normativo, muovendo dall’organica riforma della disciplina delle forme pensionistiche complementari realizzata – nella prospettiva (rispetto alla previgente contenuta nel d.lgs. 124/1993, in attuazione della legge delega n. 421/1992) di un’armonizzazione e razionalizzazione complessiva del settore – dal d.lgs. 252/2005, sulla base della legge delega n. 243/2004, sorretta dall’obiettivo dichiarato di “incrementare l’entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari” (art. 1, lett. e).

In particolare, l’art. 1, primo comma, d.lgs. 252/2005 afferma la finalità di integrare, appunto in via complementare, i trattamenti erogati dal sistema obbligatorio pubblico, in modo da “assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”; in realtà, esso confermNala finalità già prevista dall’art. 3, lett. v) legge n. 421/1992, rimasta invariata nella formulazione e valorizzata dalla Corte costituzionale, che ha sottolineato come detta finalità renda evidente la scelta legislativa di istituzione di un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e complementare, collocando questa “nel sistema dell’art. 38 Cost.” (Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, in adesione alla cd. teoria della “funzionalizzazione della previdenza complementare”, già affermata da Corte cost. 8 settembre 1995, n. 421, sulla base della natura, oltre che della funzione, prettamente previdenziale dei fondi pensione).

8.1. Come già evidenziato da questa Corte, “caratteristica peculiare della previdenza complementare, ancorché funzionalizzata, è l’autonomia. Ciò si trae principalmente dalle previsioni, secondo cui: “L’adesione alle forme pensionistiche complementari … è libera e volontaria” (art. 1, secondo comma d.lgs. cit.) e “Le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari”, nella varia modulazione negoziale collettiva e regolamentare stabilita dall’art. 3, primo comma d.lgs. cit., “stabiliscono le modalità di partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale (art. 3, terzo comma). In estrema sintesi ed esclusivamente ai fini qui d’interesse,

Nella disciplina delle forme pensionistiche complementari ne stabilisce un finanziamento attuabile mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente e attraverso il conferimento del T.f.r. maturando (art. 8, primo comma). Esse costituiscono risorse che i fondi di pensione gestiscono secondo le modalità previste dall’art. 6 e provvista per le prestazioni erogate a norma dell’art. 11.

A temperamento della rigidità degli effetti conseguenti alla scelta di adesione al fondo previsti dall’art. 11 (che vincola la partecipazione individuale fino alla maturazione, a norma del secondo comma, dei requisiti per la riscossione delle prestazioni pensionistiche, salva la previsione statutaria o regolamentare del fondo della possibilità di riscatto della posizione individuale ai sensi dell’art. 14, co. 1; con facoltà di ottenere anticipazioni della posizione individuale maturata, a norma del settimo comma dell’art. 11) e in funzione incentivante la partecipazione dei lavoratori, l’art. 14, co. 6 prevede la “portabilità” dell’intera posizione individuale, ossia la facoltà del suo trasferimento ad un’altra forma, così potendo essi scegliere le più convenienti opportunità di impiego nel risparmio previdenziale.

La questione più delicata, è indubbiamente quella del conferimento del T.f.r., che comporta l’adesione alle forme pensionistiche complementari, nella duplice modalità espressa o tacita (art. 8, settimo comma, lett. a), b). Ed infatti, nell’ipotesi di insolvenza del datore di lavoro che abbia provveduto ad accantonare il T.f.r. conferito al fondo di previdenza complementare, senza tuttavia versarlo, si pone il problema di individuare, nell’ambito del rapporto associativo tra lavoratore e fondo, intermediato dal datore di lavoro quale debitore delle quote tempo per tempo maturate, il soggetto che abbia diritto ad insinuare allo stato passivo la pretesa creditoria tenuto anche conto della previsione di intervento del Fondo di Garanzia dell’Inps, a norma dell’art. 5, secondo comma d. lgs. 80/1992, nel caso di omissione contributiva del datore di lavoro soggetto a procedura concorsuale” (Cass. 15 febbraio 2019, n. 4626, in motivazione sub p.ti 3.2, 3.3).

8.2. Una successiva pronuncia di questa Corte, in tema di fondi pensione complementari, ha ritenuto che le regole civilistiche dettate in tema di delegazione di pagamento e di sua revoca sarebbero incompatibili con la disciplina speciale stabilita dal d.lgs. 252/2005, essendo demandata agli statuti dei fondi, a norma dell’art. 14 d.lgs. cit., l’individuazione delle modalità di trasferimento ad altre forme pensionistiche, nonché di riscatto totale e parziale.

E ciò, sulla base dei richiamati principi enunciati da un autorevole arresto di legittimità (Cass. S.U. 9 marzo 2015, n. 4684), per cui, con riferimento al periodo precedente la riforma introdotta dal d.lgs. 124/1993, i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare hanno – a prescindere dalla natura del soggetto destinatario della contribuzione – natura previdenziale e non retributiva; sicché, non sussistono i presupposti per l’inserimento dei suddetti versamenti nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro.

E con la conseguenza che, prestata l’adesione al fondo, non ne sarebbe consentita la revoca, ma solo la cessazione per il venir meno dei presupposti ed il trasferimento ad altra previdenza complementare; salvo, in ogni caso, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte i contributi, qualora detto inadempimento si riverberi sulla prestazione da godere, ovvero, in caso di insolvenza del datore di lavoro, salva la possibilità di sollecitare l’intervento del Fondo di garanzia ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 80/1992 (Cass. 27 gennaio 2022, n. 2406, in motivazione sub p.ti da 6.1 a 6.9; conf.: Cass. 24 marzo 2023, n. 8515).

8.3. Anche sottolineata, l’affermazione recente, secondo cui “portabilità” e “riscatto” integrano un «principio generale del sistema previdenziale complementare» e rappresentano un “diritto” applicabile «a tutti i fondi complementari preesistenti all’entrata in vigore della legge 421/1992, indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, essendo comunque ravvisabile una posizione individuale di valore determinabile, la cui consistenza va parametrata ai contributi versati al Fondo, compresi quelli datoriali ed ai rendimenti provenienti dal loro impiego produttivo» (Cass. s.u. 14 aprile 2022, n. 12209), una recentissima sentenza di questa Corte, diffusamente ed approfonditamente argomentata – previamente riconosciuta la sintonia del diritto alla portabilità e al riscatto con l’assetto dato dal legislatore delegato al sistema previdenziale integrativo, mediante i decreti legislativi n. 124 del 1993 e n. 252 del 2005, con l’obiettivo di “«favorire la reale liberalizzazione dei diversi veicoli pensionistici complementari e l’affermazione piena di una reale consapevolezza del risparmiatore nella scelta dello strumento ritenuto più idoneo alla realizzazione della copertura previdenziale», in una cornice normativa volta ad ampliare le libertà di scelta dei lavoratori iscritti alle forme pensionistiche complementari, coerentemente con l’estensione dei margini di libera circolazione nel sistema della previdenza complementare e in una logica di sviluppo, in senso compiutamente europeo, della disciplina nazionale»” (Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in motivazione sub p.to 3.4, ancora per citazione di Cass. s.u. 14 aprile 2022, n. 12209, in motivazione, sub p.to 48) – ha ritenuto “inidonee” le argomentazioni del precedente di questa Corte n. 2406 del 2022, peraltro riguardanti “solo incidentalmente il tema dell’accantonamento del t.f.r.,. a superare il pregresso orientamento” (illustrato al superiore punto 8.1), cui ha pertanto inteso dare continuità (Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in motivazione sub p.to 7).

8.3.1. In particolare, essa non ha condiviso:

a) l’affermata incompatibilità tra l’istituto generale della delegazione di pagamento e gli istituti speciali della portabilità e del riscatto, contemplati dal d.lgs. n. 252 del 2005, di fronte a risorse in tesi non ancora entrate nel patrimonio del Fondo di previdenza complementare, ma indebitamente trattenute dal datore di lavoro; piuttosto aderendo alla diversa impostazione, già sostenuta dalla stessa sezione lavoro (Cass. 15 febbraio 2019, n. 4626), per cui occorra verificare se il “conferimento” del T.f.r. si sia concretamente tradotto in una vera e propria cessione, ovvero in una delegazione di pagamento ai sensi dell’art. 1270 c.c., poiché, in caso di fallimento, il contratto di mandato – quale è la delegazione di pagamento – si scioglie (art. 78, secondo comma l. fall.), anche considerata la sottrazione del sistema previdenziale complementare al principio di automaticità delle prestazioni, invece proprio della previdenza pubblica, nel cui ambito il nesso tra contribuzione e prestazione risulta “allentato” in funzione del principio di solidarietà (Cass. s.u. 9 giugno 2021, n. 16084);

b) l’interpretazione, soprattutto, dell’art. 5 lgs. 80/1992 – che riconosce al lavoratore la facoltà (non l’obbligo), per integrare i contributi risultati omessi, di chiedere l’intervento del Fondo di garanzia, in tal caso “surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi” (e poi in tal guisa versati) – comportante la coerente spettanza della titolarità del diritto, “in prima battuta” al lavoratore medesimo nei confronti del datore di lavoro e – in caso di suo fallimento, qualora il lavoratore attivi il Fondo di garanzia – della surrogazione di questo secondo al primo nell’ammissione al passivo per i contributi omessi; “diversamente, la legittimazione all’insinuazione al passivo restando al lavoratore, il cui rapporto con il Fondo di previdenza complementare resta disciplinato dalle specifiche regole associative”. E tale interpretazione è stata avvalorata dalla circolare Inps n. 23 del 22 febbraio 2008, in base alla quale “ai fini dell’intervento del Fondo di Garanzia il lavoratore deve ottenere l’accertamento dell’esistenza di uno specifico credito relativo alle omissioni contributive per le quali si chiede l’intervento del Fondo, e ciò mediante l’ammissione del credito nello stato passivo della procedura” (Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in motivazione sub p.ti da 7.1. a 7.4).

8.3.2. Pertanto, essa ha ritenuto “la necessità di ricostruire la volontà delle parti, accertando, in particolare, se il conferimento del t.f.r. sottenda una delegazione di pagamento (art. 1268 cod. civ.) ovvero la cessione di un credito futuro (art. 1260 cod. civ.)”, trattandosi “di una qualificazione incidente sulla titolarità del diritto e sulla conseguente legittimazione a dedurlo in causa” – così ribadita l’affermazione di una recente sentenza della Corte costituzionale di una tale esigenza per “la mancata attuazione delle previsioni della legge delega in ordine alla contitolarità, in capo ai fondi pensione e agli iscritti, del diritto alla contribuzione e del diritto al TFR (art. 1, comma 2, lettera e, numero 8, della legge n. 243 del 2004)” (Corte cost. 15 luglio 2021, n. 154, sub p.to 2.1. del Considerato in diritto) – ed ha accolto il ricorso del soggetto escluso dallo stato passivo, enunciando il seguente principio di diritto: “In tema di previdenza complementare, il generico riferimento, “conferimento” del T.f.r. maturando alle forme pensionistiche complementari, lascia aperta la possibilità che le parti, nell’esplicazione dell’autonomia negoziale loro riconosciuta dall’ordinamento, pongano in essere non già una delegazione di pagamento (art. 1268 cod. civ.) bensì una cessione di credito futuro (art. 1260 cod. civ.).

In caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di T.f.r. maturate e accantonate ma non versate al Fondo di previdenza complementare spetta, di regola, al lavoratore, stante lo scioglimento del rapporto di mandato in cui si estrinseca la delegazione di pagamento al datore di lavoro, salvo che dall’istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo predetto, cui in quel caso spetta la legittimazione attiva ai sensi dell’art. 93 legge fall.” (Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, in motivazione sub p.ti 8.1, 8.2 e 9).

9. Così illustrato il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, nel solco in particolare della recentissima sentenza di questa Corte criticamente disaminata, di cui il collegio condivide le argomentazioni svolte e i principi affermati, occorre allora risolvere la questione sub a).

9.1. Come anticipato appena sopra, tale sentenza ha accolto il ricorso dell’opponente allo stato passivo, dal quale era stato escluso dapprima dal giudice delegato e poi dal Tribunale, che aveva appunto rigettato la sua opposizione ai sensi dell’art. 98 fall., con la quale il predetto si era doluto dell’erronea affermazione secondo cui, con l’adesione al Fondo di previdenza complementare, il lavoratore avrebbe <operato una cessione del proprio credito per il TFR maturando in favore del Fondo», poiché in realtà <lo strumento giuridico prescelto dal lavoratore per il conferimento del Fondo era da intendersi, secondo la prospettazione del ricorrente, quale delegazione di pagamento».

9.2. Ebbene, un’ipotesi del tutto analoga si pone nell’odierna controversia, avendo il lavoratore ricorrente dedotto, tanto nella domanda di insinuazione, tanto nell’opposizione allo stato passivo – come indicato nell’illustrazione del terzo motivo di ricorso (al superiore punto 5) – di avere aderito (omissis) (omissis) destinandovi le quote di T.f.r. accantonate dal datore di lavoro, “ai sensi dell’art. 1188 c.c., quale destinatario di quote della propria retribuzione”.

Sicché, il Fondo è stato designato quale creditore destinatario dell’adempimento della prestazione del lavoratore, quale suo debitore in base al contratto associativo tra loro stipulato, consistente nel conferimento delle quote di T.f.r., accantonate presso il suo datore di lavoro, tenuto al loro versamento al Fondo, per il rapporto di delegazione, ai sensi dell’art. 1269 c.c., tra questi istituito, per effetto dell’incarico al compimento di tali atti giuridici (idest: mandato) assegnato dal primo al secondo.

Appare allora evidente come questa sia la natura del rapporto trilaterale tra le parti. Non già di cessione del credito futuro (della parte di retribuzione ovvero, come nel presente caso, di quota di T.f.r. maturando), vantato dal lavoratore (cedente), nei confronti del datore (debitore ceduto), al Fondo di previdenza complementare (cessionario).

9.3. Il riflesso concorsuale della qualificazione operata comporta che, nel caso del fallimento del datore di lavoro, quale mandatario del lavoratore, il contratto di mandato si sciolga, a norma dell’art. 78, secondo comma fall., nel testo ratione temporis vigente di applicazione del d.lgs. 5/2006  (Cass.  22 ottobre  2013,  n. 23894;  Cass.  1N7gennaio 2017, n. 973, in più specifico riferimento ad ipotesi di fallimento della società capogruppo, costituita mandataria dell’altra, ai sensi dell’art. 23, ottavo comma d.lgs. 416/1991, in tema di appalto di opere pubbliche stipulato da imprese riunite in associazione temporanea).

E ciò sul presupposto di una varietà di ragioni (le principali delle quali: il venir meno del rapporto fiduciario tra mandatario e mandante, alla base della designazione, non adeguatamente tutelato nel fallimento, in caso di responsabilità del mandatario; l’incompatibilità tra esecuzione del mandato e vincoli imposti dalla procedura nell’amministrazione e nella liquidazione del suo patrimonio; la perdita di disponibilità del patrimonio da parte del fallito; l’infungibilità soggettiva della prestazione, tipica del mandato, preclusiva del subentro del curatore), tutte convergenti nell’obiettiva improseguibilità del rapporto.

Sicché, lo scioglimento del contratto di mandato implica il ripristino della titolarità piena delle risorse, con esso affidate in gestione vincolata nella destinazione, in capo al lavoratore mandante, così legittimato ad insinuarsi allo stato passivo del fallimento del mandatario, suo datore di lavoro, fallito.

In particolare, per effetto dello scioglimento del contrattNoum di mandato, il lavoratore viene legittimato a far valere non il diritto al T.f.r. in sé considerato (che non è parcellizzabile prima della sua maturazione, alla cessazione del rapporto di lavoro), ma il diritto al versamento della quota accantonata, insito nella normativa applicata, che, per quanto oltre diffusamente spiegato, mantiene natura retributiva. Diversamente, non si spiegherebbe perché al lavoratore, che ha aderito al fondo si finisca per applicare una disciplina diversa da quella generale di cui all’art. 2120 c.c.

10. Ciò affermato, giova ora, come anticipato al superiore punto 7, completare una tale statuizione con una riflessione più approfondita sul versante previdenziale, direttamente implicato in quanto essenzialmente fondativo, sostanziando l’approdo concorsuale raggiunto – in esito allo scrutinio della questione sub a) – a più esplicito chiarimento: b) della natura, retributiva ovvero previdenziale, del credito (insinuato e) ammesso allo stato passivo; c) della sua identità, o meno, rispetto a quella del credito del lavoratore alla prestazione dovutagli dal (omissis).

11. In merito alla questione sub b), occorre allora distinguere il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore da quello tra quest’ultimo e il (omissis)

Indubbiamente, si tratta di due rapporti diversi ed autonomi, ancorché connessi per effetto di una facoltà liberamente  esercitata dal lavoratore, posto che, come hanno chiaramente illustrato le Sezioni Unite di questa Corte, “l’obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti” (ai fondi di previdenza integrativa) “nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria . che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore; esso tuttavia non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporti di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto. In sostanza, il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire” (Cass. S.U. 9 marzo 2015, n. 4684, in motivazione, sub p.to 26).

11.1. Se questo è, il passaggio ulteriore da fare, per risolvere la questione in esame, implica coerentemente una distinzione:

a) da una parte, del versamento di contributi o del conferimento del T.f.r. maturando, da parte del lavoratore per l’accantonamento del proprio datore, in funzione, di predisposizione delle risorse economiche e finanziarie da destinare all’erogazione delle prestazioni” (Cass. S.U. 9 giugno 2021, n. 16084, in motivazione sub p.to 78), che esse assicurano;

b) dall’altra, del “trattamento integrativo, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità, secondo le condizioni previste dal relativo statuto” (ancora Cass. S.U. 9 marzo 2015, n. 4684, in motivazione, sub p.to 26), ossia la prestazione previdenziale da parte del F.C.P., in virtù del rapporto associativo tra detto Fondo e il medesimo lavoratore, di natura contrattuale.

11.1.1. Alla prima distinzione consegue la seconda, di ulteriore chiarificazione, in merito: al rapporto di lavoro, che integra, ai fini qui d’interesse, il “rapporto di provvista”, da cui il lavoratore trae appunto le risorse finanziarie, in virtù di un incarico (che ad esso sicuramente accede ma da cui altrettanto certamente esorbita), al proprio datore di lavoro, giuridicamente qualificabile (e qui già qualificato) come di delegazione o più propriamente di mandato; al rapporto contrattuale (“di valuta”), finalizzato al “conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria. che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore”, che “non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporti di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto” e che neppure “è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire” (ancora Cass. S.U. 9 marzo 2015, n. 4684, in motivazione, sub p.to 26);

12. Dalla distinzione operata si ricava allora la giustificazione:

a) della natura retributiva, tanto della contribuzione, quanto del conferimento della quota di t.f.r. maturando, in quanto semplicemente “accantonati” presso il datore di lavoro – sia pure con un vincolo di destinazione, a che tali risorse finanziarie siano effettivamente versate al F.C.P. (in termini di “patrimonio vincolato alle finalità previdenziali del fondo, id est. «patrimonio di destinazione» (v. art. 2117 cod. civ.) a precisazione del fondo nella posizione individuale”; e così pure di “patrimonio di destinazione, vincolato alle finalità previdenziali del fondo pensione” si esprime: Cass. s.u. 14 aprile 2022, n. 12209, in motivazione, sub p.ti 91, 92 e 93) – sulla base del mandato ad esso conferito dal lavoratore. E ciò in quanto parte di retribuzione accantonata, con la finalità detta, da realizzare;

b) della natura previdenziale, invece, del trattamento pensionistico integrativo, o della diversa prestazione previdenziale integrativa, negoziati dal lavoratore con il F.C.P., secondo la previsione dello statuto dell’ente.

12.1. Né una tale affermazione si pone in contrasto con i precedenti delle Sezioni Unite di questa Corte, che anzi confermano il ragionamento argomentativo svolto, per avere sempre affermato la natura previdenziale, non già, come nel caso di specie, della contribuzione o del conferimento della quota di T.F.R. maturando del cui accantonamento il lavoratore ha incaricato il datore di lavoro, bensì piuttosto dei “versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza, non corrisposti ai dipendenti ma. erogati direttamente al fondo” dal datore di lavoro (così: Cass. S.U. 9 marzo 2015, n. 4684, in motivazione, sub p.to 22, ad illustrazione del secondo orientamento giurisprudenziale, poi preferito, nel contrasto oggetto della questione scrutinata, enunciata al p.to 14 della motivazione: “se, per il periodo precedente la riforma introdotta dal d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124, le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare chiunque sia il soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti abbiano natura e funzione retributiva oppure previdenziale e, quindi, si computino, o meno, nell’indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982) e nel trattamento di fine rapporto (maturato successivamente)”).

Nel solco di tale arresto, ribadendo la natura previdenziale dei versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare, si sono poste altre due pronunce delle Sezioni Unite, che hanno affrontato la diversa questione della possibilità di cumulo, in merito ad essi, della rivalutazione monetaria e degli interessi, vietato dall’art. 16, sesto comma legge n. 412/1991, ritenendolo escluso per essere la prestazione previdenziale complementare corrisposta non da un ente gestore di forme di previdenza obbligatoria, ma da un datore di lavoro privato (Cass. S.U. 20 marzo 2018, n. 6928, in fattispecie di ammissione allo stato passivo di una liquidazione coatta amministrativa del credito vantato da una dipendente, a titolo di riscatto dell’intera propria posizione contributiva affluita al Fondo Integrativo Pensioni cui era iscritta; Cass. S.U. 9 giugno 2021, n. 16084).

E infine, la più volte citata ultima sentenza delle Sezioni Unite in materia ha richiamato il precedente, anche qui appena ricordato (Cass. S.U. 9 marzo 2015, n. 4684), per ribadirlo, in riferimento alla “natura previdenziale, e non retributiva” de“i versamenti del datore di lavoro al fondo, indipendentemente dall’essere il fondo medesimo dotato di personalità giuridica autonoma o con gestione separata, escludendoli dalla base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro” (Cass. s.u. 14 aprile 2022, n. 12209, in motivazione, sub p.to 37).

13. L’individuazione della netta distinzione illustrata ai superiori punti 11 e 1 diviene anche più plastica – così affrontando la questione indicata al punto 10 sub lettera (identità di natura, o meno, del credito del lavoratore insinuato allo stato passivo del fallimento del suo datore rispetto, a quella del suo credito alla prestazione dovutagli dal (omissis) – nell’ipotesi di insolvenza del datore di lavoro, laddove assume un colore di maggiore evidenza la diversità di natura dei due crediti del lavoratore:

a) nei confronti del datore di lavoro fallito (o comunque soggetto a procedura concorsuale liquidatoria), per la contribuzione o il conferimento di quota di T.F.R. maturando accantonati dal medesimo, per effetto del mandato ricevuto dal lavoratore, ma non versati al F.C.P.;

b) nei confronti del Fondo alla prestazione previdenziale integrativa, alimentata dalle risorse del lavoratore, accantonate e versate.

Viene qui in chiara evidenza il momento nel quale il credito di natura retributiva del lavoratore, accantonato presso il datore di lavoro con la finalità di destinazione illustrata al superiore punto 12 sub lett. a), assuma la natura previdenziale ivi indicata, sub lett. b).

Ebbene, tale momento è quello di attuazione del vincolo di destinazione (al versamento al F.C.P. delle risorse finanziarie del lavoratore – sub specie di contribuzione o di conferimento di quote di T.f.r. – accantonate dal datore di lavoro, su mandato del lavoratore medesimo), per effetto del suo adempimento con il loro versamento al F.C.P.

Qualora invece, come nel caso in esame, il datore di lavoro insolvente non provveda al versamento, per inadempimento all’obbligazione assunta verso il lavoratore con il mandato ricevuto, il vincolo di destinazione impresso alle risorse (parte della retribuzione attuale o attesa con la maturazione delle quote di T.f.r.) non si attua, ma si ripristina la disponibilità piena del lavoratore di tali risorse, di natura retributiva.

13.1. La distinzione assume una definizione ancora più nitida, per effetto del meccanismo di operatività dell’apposito Fondo di garanzia (istituito presso l’Inps contro il rischio derivante dall’omesso o insufficiente versamento, da parte del datore di lavoro insolvente, dei contributi alle forme di previdenza complementare), introdotto dal d.lgs. 80/1992.

Infatti, il suo articolo 5 prevede che, nel caso in cui, “a seguito dell’omesso o parziale versamento dei contributi dovuti per forme di previdenza complementare” (di cui all’art. 9bis d.l. 103/1991, conv. con mod. in legge n. 166/1991) “ad opera del datore di lavoro“, non possa essere corrisposta la prestazione alla quale avrebbe avuto diritto, “il lavoratore”, ove il suo credito sia rimasto in tutto o in parte insoddisfatto in esito ad una delle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero di amministrazione straordinaria, possa “richiedere al fondo di garanzia di integrare presso la gestione di previdenza complementare interessata i contributi risultanti omessi” (secondo comma); in tali casi, “il Fondo è surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi, versati a norma del comma 2″ (terzo comma).

Tali disposizioni normative sono la conferma di diritto positivo della titolarità del diritto di credito, indicato al punto 11.1 sub lett. a), del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e – in caso di suo fallimento, qualora il lavoratore attivi il Fondo di garanzia – della surrogazione di quest’ultimo al primo nell’ammissione al passivo per i contributi omessi; diversamente, restando la legittimazione all’insinuazione al passivo in capo al lavoratore, cui compete la valutazione in ordine all’autonomo versamento al fondo di previdenza complementare, ai fini del conseguimento delle prestazioni previdenziali, al ricorrere di tutti i presupposti (tale interpretazione è stata pure avvalorata dalla circolare Inps n. 23 del 22 febbraio 2008, pure citata da Cass. 7 giugno 2023, n. 16116, come richiamata al superiore punto 8.3.1 sub lettera b).

14. La correttezza dell’interpretazione patrocinata trova indiretta conferma altresì nel principio e criterio direttivo formulato dalla legge delega 243 del 2004, cui avrebbe dovuto conformarsi  il  d.lgs.  252/2005,  di previsione dell‘attribuzione ai fondi pensione della contitolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro” e del“la legittimazione dei fondi stessi, rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi nonché l’eventuale danno derivante dal mancato conseguimento dei relativi rendimenti” (art. 1, lett. e), n. 8 legge cit.).

14.1. Infine, essa risponde ad un criterio di giustizia, in quanto rispettosa del principio di uguaglianza (art. 3 ).

Una diversa interpretazione – che non riconoscesse la titolarità del diritto di credito al lavoratore o che, pur riconoscendola, ne escludesse nel concorso dei creditori la qualità privilegiata (e di correlativa attribuzione di quella chirografaria) per la natura previdenziale, e non retributiva, tanto ai sensi dell’art. 2751bis n. 1 c.c., tanto ai sensi degli artt. 2753 e 2754 c.c., in quanto entrambi relativi a crediti previdenziali obbligatori (rispettivamente: per I.V.S. e per forme di tutela diverse, pur sempre obbligatorie), per la natura previdenziale contrattuale e non legale (Cass. S.U. 9 giugno 2021, n. 16084, in motivazione sub p.ti da 59 a 65) – non renderebbe, infatti, ragione di un diverso trattamento di situazioni assolutamente paritetiche dei lavoratori in ordine alle disponibilità retributive acquisite, soltanto diversamente allocate (quanto meno, in parte), nell’esercizio di una facoltà liberamente esercitata.

E facoltà pure favorita e sostenuta dal legislatore (art. 1, primo comma, lett. c) legge n. 243/2004), che subirebbe un’evidente inibizione, per i riflessi disincentivanti sullo sviluppo delle forme pensionistiche complementari da esso prefigurato.

Per giunta, un siffatto ingiustificato trattamento disparitario si realizzerebbe nel momento di massima urgenza di tutela del lavoratore, quale l’insolvenza del suo datore di lavoro: rispetto al quale, peraltro, il legislatore ha predisposto l’intervento di un apposito Fondo di garanzia istituito presso l’Inps (contro il rischio derivante dall’omesso o insufficiente versamento, da parte del datore di lavoro insolvente, dei contributi alle forme di previdenza complementare), diverso da quello previsto dalla legge n. 297/1982 (per il T.F.R.) e dall’art. 5 d.lgs. 80/1992 (per le ultime tre mensilità), non finanziato dalla solidarietà generale, ma dai datori di lavoro dei prestatori aderenti alla previdenza complementare.

15. Pertanto, in esito alle superiori argomentazioni, il secondo motivo di ricorso deve essere rigettato, il primo e il terzo accolti, con la cassazione del decreto impugnato e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Vicenza in diversa composizione, pure ribadito il principio di diritto enunciato da Cass. 7 giugno 2023, n. 16116 (trascritto al superiore punto 8.3.2) e sulla base dei seguenti ulteriori principi di diritto:

1. “Premessa la distinzione dei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro da cui il primo trae, con una parte della propria retribuzione, le risorse per la contribuzione o il conferimento delle quote di F.R. maturando e tra lavoratore e Fondo di Previdenza Complementare di natura contrattuale per il conseguimento, da parte del lavoratore medesimo, attraverso l’investimento da parte del Fondo, di una prestazione previdenziale integrativa il datore di lavoro assume l’obbligo, sulla base di un mandato ricevuto dal lavoratore e salvo che non risulti dallo statuto del Fondo una cessione del credito, di accantonare e versare ad esso la contribuzione o il T.F.R. maturando conferito.”

2. “Fino al compimento del versamento da parte del datore di lavoro, la contribuzione o le quote di F.R. maturando conferite, accantonate presso il datore di lavoro medesimo, hanno natura retributiva, mentre ha natura previdenziale la prestazione previdenziale integrativa erogata al lavoratore dal (omissis).

3. “Il mancato versamento, da parte del datore di lavoro insolvente, della contribuzione o delle quote di T.F.R. maturando conferite, accantonate su mandato del lavoratore con il vincolo di destinazione del loro versamento al (omissis) comporta, per la risoluzione per inadempimento del mandato, il ripristino della disponibilità piena in capo al lavoratore delle risorse accantonate, di natura retributiva: posto che esse assumono natura previdenziale, soltanto all’attuazione del vincolo di destinazione, per effetto del suo adempimento.”

4. “Il fallimento del datore di lavoro, quale mandatario del lavoratore, comporta lo scioglimento del contratto di mandato, ai sensi dell’art. 78, secondo comma fall. e il ripristino della titolarità, spettante di regola al lavoratore, così legittimato ad insinuarsi allo stato passivo, salvo che dall’istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del (omissis) cui in tal caso spetta la legittimazione attiva ai sensi dell’art. 93 l. fall.”

P.Q.M.

La Corte

accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, rigettato il secondo; cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Vicenza in diversa composizione.

Così deciso in Roma il 24 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.