Il ricorrente ha ottenuto la fornitura di gas da riscaldamento sebbene la firma sul contratto risulta contraffatta. Tale erogazione dovrà pagarla risultando un indebito arricchimento (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 28 novembre 2023, n. 33049).

REPUBBLICA ITALIANA

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

DANILO SESTINI             Presidente

PASQUALE GIANNITI     Consigliere

MARILENA GORGONI    Consigliere – Rel.

STEFANIA TASSONE       Consigliere

GIUSEPPE CRICENTI      Consigliere

Ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1397/2023 R.G. proposto da:

(omissis) di (omissis) (omissis) SAS, in persona del rappresentante legale p.t., (omissis) (omissis), rappresentato e difeso dall’avvocato (omissis) (omissis), pec: _________________________________________;

-ricorrente-

contro

ENI PLENITUDE S.P.A. SOCIETÀ BENEFIT, in persona del rappresentante legale p.t., (omissis) (omissis), rappresentata e difesa dall’avvocato (omissis) (omissis), pec: _________________________________________;

-controricorrente-

avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino n. 585/2022 depositata il 30/05/2022.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 07/11/2023 dal Consigliere MARILENA GORGONI.

Rilevato che:

nel mese di giugno del 2013 la società (omissis) riceveva dall’Eni alcune comunicazioni di adesione ad altrettante proposte contrattuali che, non essendo mai state sottoscritte dal suo legale rappresentante, venivano rifiutate;

Eni, nonostante promettesse di attivarsi per consentire il ritorno della (omissis) al precedente fornitore, continuava per un significativo periodo di tempo a rendere alla (omissis) le non desiderate prestazioni, chiedendone il pagamento;

ne erano seguiti due giudizi: quello iscritto al n. R.G. 35653/2014, conclusosi con la sentenza n. 6101/2016 del Tribunale di Torino (passata in giudicato) che dichiarava l’inesistenza di un valido titolo contrattuale e respingeva la domanda di pagamento della fornitura avanzata dall’Eni; quello iscritto al n. R.G. 15969/2017, promosso da Eni che chiedeva, ex art. 2041 cod.civ., la condanna della (omissis) a corrisponderle un indennizzo di € 6.061,96, calcolato secondo criteri della delibera dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (AEEG) n. 153/2012;

nel corso di detto giudizio, la (omissis), costituitasi, avanzava domanda riconvenzionale per la restituzione di € 933,97 che risultavano pagati, pur in assenza di titolo, a causa di un errore;

detto giudizio si concludeva, in primo grado, con la sentenza n. 3693/2019 che rigettava la domanda dell’Eni, ritenendo non provati gli elementi costitutivi dell’arricchimento senza causa sia perché rimanevano indimostrati gli effettivi consumi dell’utente, sia perché non era stata raggiunta la prova dell’impoverimento della somministrante;

accoglieva la domanda riconvenzionale della (omissis), essendo stata accertata la natura indebita dei pagamenti erroneamente effettuati;

la Corte d’appello di Torino, investita del gravame da Eni, accertata «l’effettuazione di somministrazioni non richieste di gas e di energia elettrica» e tuttavia la sussistenza dei presupposti per l’utile esperimento dell’azione di arricchimento senza causa, condannava la (omissis) al pagamento all’Eni dell’indennizzo di € 6.054,83, oltre agli interessi legali dalle singole scadenze sino al saldo, rigettava la domanda riconvenzionale della (omissis) e la condannava al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio;

la (omissis) S.a.s. ricorre per la cassazione di detta sentenza, formulando tre motivi;

resiste con controricorso Eni;

la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 bis 1 cod.proc.civ.;

il Pubblico Ministero non ha formulato conclusioni;

la società ricorrente ha depositato memoria.

Considerato che:

1) con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione di norme di diritto: sull’interpretazione del requisito della sussidiarietà ai fini dell’ammissibilità dell’azione ex art. 2041 cod.civ.;

la Corte territoriale avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di difetto della sussidiarietà ai fini dell’ammissibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento, posto che la società somministrante avrebbe potuto agire, anziché contro la (omissis), nei confronti dell’agente che, falsificando le firme sui contratti, le procacciava i somministrandi;

segnatamente, la ricorrente, evocando Cass. n. 843 del 17 gennaio 2020,:

i) innanzitutto, ribadisce che «il carattere sussidiario dell’azione di indebito arricchimento comporta che essa non possa essere esperita non soltanto quando sussista un’altra azione tipica utilizzabile dall’impoverito nei confronti dell’arricchito, ma anche quando vi sia originariamente un’azione sperimentabile contro soggetti diversi dall’arricchito che siano obbligati per legge o per contratto», con il corollario che l’azione di ingiustificato arricchimento è ammessa, nonostante la proponibilità di un’azione contro soggetti diversi dall’arricchito, quando (e solo) «quando l’azione teoricamente spettante all’impoverito sia prevista da clausole generali, come quella extracontrattuale ex art. 2043 cod.civ.»;

ii) sostiene che, ritenendo che Eni avesse a disposizione l’azione generale di responsabilità per fatto illecito e non, invece, una specifica azione di responsabilità contrattale con cui far valere l’inadempimento delle obbligazioni derivanti da un preciso contratto, il giudice a quo si sarebbe posto in contrasto con la giurisprudenza di legittimità secondo cui «il carattere sussidiario dell’azione di indebito arricchimento comporta che essa non possa essere esperita, non soltanto quando sussista un’altra azione tipica esperibile dal danneggiato nei confronti dell’arricchito, ma anche quando vi sia originariamente un’azione sperimentabile contro persone diverse dall’arricchito che siano obbligate per legge o per contratto»; non avrebbe, infatti, considerato che Eni avrebbe potuto agire per inadempimento del contratto di agenzia nei confronti del suo agente ACD Energy, essendo stato accertato con efficacia di giudicato che la ACD Energy aveva contraffatto la sottoscrizione delle proposte di contratto sulla cui base Eni aveva attivato la fornitura;

premesso che la sussistenza del carattere della sussidiarietà nei termini prospettati dal ricorso è basata su profili diversi da quelli rimessi dall’ordinanza n. 5222 del 20/02/2023 alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e che, dunque, non v’è da disporre il rinvio della trattazione della controversia in attesa che eventualmente si pronuncino le Sezioni Unite, si deve rilevare che anche se la società ricorrente evoca correttamente la giurisprudenza di questa Corte che ravvisa l’assenza dei presupposti per esperire l’azione di arricchimento ingiustificato anche quando sia possibile agire nei confronti del terzo, tale argomento non risulta di alcuna utilità nel caso di specie, perché:

i) la Corte territoriale non ha mai messo in dubbio la possibilità che il soggetto asseritamente impoverito possa agire nei confronti del terzo; è sufficiente osservare che la Corte d’appello ha evocato la massima della pronuncia su cui si incentra lo sforzo confutativo della ricorrente e che ha sostenuto che «L’eventuale responsabilità risarcitoria contrattuale o extracontrattuale dell’agente» non costituiva un ostacolo all’esperimento dell’azione ex art. 2041 cod.civ. nei confronti dell’arricchito;

ii) la sentenza impugnata, ritenendo che la (omissis) non avrebbe potuto agire che nei confronti del cliente finale, non ha inteso escludere la possibilità che Eni agisse a titolo contrattuale, ma ha negato che potesse agire nei confronti del suo agente per ottenere l’indennizzo di quanto solo la (omissis) aveva beneficiato; è questa la ratio decidendi – giusta o sbagliata che sia – che ha indotto la Corte territoriale a ritenere Eni legittimata ad agire ai sensi dell’art. 2041 cod.civ.;

in altri termini, tutto l’apparto argomentativo della società ricorrente risulta eccentrico rispetto a detta ratio decidendi che, non essendo stata neppure lambita dallo sforzo confutativo dell’odierna ricorrente resiste al medesimo;

2) con il secondo motivo alla Corte d’appello si imputa «la violazione o falsa applicazione di norme di diritto: sull’interpretazione del requisito dell’arricchimento imposto ai fini dell’ammissibilità dell’azione ex art. 2041 cod.civ.»;

il motivo va rigettato;

oggetto di censura è la statuizione con cui la Corte territoriale ha considerato non pertinente, rispetto al caso sub iudice, la giurisprudenza di legittimità richiamata dalla società (omissis) S.a.S. a sostegno della tesi dell’inammissibilità dell’azione ex art. 2041 cod.civ. in caso di “arricchimento imposto”;

la tesi della ricorrente è che la Corte d’Appello si sia posta in contrasto con le sezioni unite n. 10798 del 26/05/2015 secondo cui l’azione ex art. 2041 cod.civ. deve considerarsi inammissibile quando ricorra un caso di «arricchimento imposto», perché, a differenza di quanto sostenuto in sentenza, la pronuncia n. 10798/2015 non farebbe differenza circa il se arricchito contro la sua volontà sia la pubblica amministrazione o un soggetto privato;

infatti, per un verso, il principio nemo invitus locupletari potest costituisce espressione del principio della libertà di autodeterminazione dei privati e implica che nessuno possa produrre una modificazione, tanto in peius quanto in senso accrescitivo, nella sfera giuridica altrui, se non voluta, per altro, quello di cui all’art. 2041 cod.civ. è un rimedio rispetto ad un atto lecito dannoso e tale non può considerarsi quello di chi arricchisca altri contro la sua volontà, come affermato da Cass. 24/04/2019, n. 11209, secondo cui «l’arricchimento imposto, proprio per la sua natura di imposizione, non comporta indennizzo alcuno a chi l’imposizione ha effettuato, secondo i principi generali contrari alla coazione/costrizione nei rapporti tra i soggetti, anche se si tratta di rapporti economici/commerciali (…). Diversamente, lo strumento indennitario dell’articolo 2041 cod.civ., anziché ripianare una situazione che ha perduto un corretto equilibrio economico, servirebbe per abusare delle capacità patrimoniali del soggetto cui l’indennizzo viene richiesto»;

aggiunge la ricorrente che è irrilevante l’estraneità al caso di specie, ricordata dal giudice d’appello, dell’art. 66-quinquies del Codice del consumo e/o dell’art. 57 del medesimo codice (nel testo prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 21 del 2014) e della correlata giurisprudenza, secondo cui il cliente è esonerato dall’obbligo di corrispondere alcunché al fornitore in caso di somministrazione non richiesta;

né rileva l’esistenza della delibera n. 153/2012 dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas, adottata (prima che, nel 2015, intervenisse la sentenza n. 10798 delle Sezioni Unite) «proprio per disciplinare le misure ripristinatorie in caso di attivazione di forniture di energia elettrica e/o gas naturale non richieste dal cliente finale» anche in considerazione del fatto che un atto amministrativo, quale per l’appunto una delibera dell’AEEG, deve essere disapplicato se in contrasto con la legge;

ulteriore errore della Corte d’appello consisterebbe nell’aver negato rilievo ai principi di buona fede e correttezza a cui dovrebbe essere improntato lo svolgimento dei rapporti giuridici, non avendo considerato che si era subito opposta all’erogazione della fornitura da parte dell’Eni, la quale, avendo continuato ad erogare la fornitura non voluta e avendo mala gestito i rapporti con la sua rete di agenti, non avrebbe potuto legittimamente dolersi di aver subito un impoverimento;

va premesso che la Corte d’appello ha accolto l’azione esercitata da Eni sulla scorta di un’argomentazione complessa, fondata: sulla ricorrenza di un arricchimento a favore della odierna ricorrente e di un impoverimento a carico di Eni;

sulla non necessità che l’arricchimento sia indebito e quindi non voluto;

sull’irrilevanza della buona fede del soggetto arricchito;

sulla non applicabilità della disciplina consumeristica che prevede che il consumatore non sia tenuto nei confronti del somministrante per la prestazione non voluta;

sulla irrilevanza del danno morale subito dalla somministrata, non avendo quest’ultima chiesto il risarcimento del danno e sull’irrilevanza della condanna di Eni per pratiche commerciali scorrette;

la questione del se la necessità dell’arricchimento imposto valga solo se l’arricchito sia la PA, in verità, prescinde da come la Corte d’appello abbia inteso il perimetro applicativo dell’art. 2041 cod.civ.: la pronuncia delle Sezioni Unite del 2015 si è occupata della «necessità o meno di un requisito ulteriore – quello del riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione – rispetto a quelli standards fissati dagli artt. 2041 e 2042 cod.civ. , allorché l’azione venga proposta nei confronti della P.A.»;

quindi, è vero che la sentenza ha riguardato le azioni di arricchimento ingiustificato nei confronti della P.A. –pertanto, sotto tale aspetto la sentenza non è in errore –ma lo è altrettanto che il giudice a quo ha dimostrato indirettamente di avere considerato erroneamente l’arricchimento imposto «come presupposto sostitutivo (nel senso di sufficiente) rispetto al riconoscimento della utilità da parte dell’arricchito: l’esatto contrario dell’insegnamento nomofilattico, poiché l’arricchimento imposto, proprio per la sua natura di imposizione, non comporta indennizzo alcuno a chi l’imposizione ha effettuato, secondo i principi generali contrari alla coazione/costrizione nei rapporti tra i soggetti, anche se si tratta di rapporti economici/commerciali, qualora non sia stato inadempiuto alcun obbligo da parte del soggetto che verrebbe ad essere coartato. Diversamente, lo strumento indennitario dell’art. 2041 cod.civ., anziché ripianare una situazione che ha perduto un corretto equilibrio economico, servirebbe per abusare delle capacità patrimoniali del soggetto cui l’indennizzo viene richiesto» (in termini cfr. Cass. 24/04/2019, n. 11209, seguita da Cass. 05/11/2020, n. 24642;Cass. 16/11/2020);

ha ragione la ricorrente ad invocare l’applicazione del principio nemo locu pletari potest alterius iactura a prescindere dalla natura pubblica o privata del soggetto impoverito, essendo l’operatività del rimedio dell’arricchimento senza causa concepito quale principio dell’ordinamento;

l’errore in cui è incorsa la Corte territoriale non porta, nondimeno, all’accoglimento del motivo, per le seguenti ragioni: l’arricchimento, nella vicenda per cui è causa, non è conseguenza del comportamento del soggetto che si è arricchito – la ricorrente – ma piuttosto del soggetto che ha subito la perdita patrimoniale – Eni – avendo l’arricchito beneficiato di una prestazione;

si tratta dunque, a differenza delle ipotesi di arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto (utilizzazione sine titulo di diritti o beni altrui) di un arricchimento consistente in una prestazione altrui indebita o sine causa (arricchimento imposto o mediato), in cui ad essere violata non è la regola di appartenenza ma quella di circolazione, la quale esige che gli spostamenti patrimoniali siano giustificati (giusta causa);

qui l’obbligazione restitutoria, quoad effectum, è un rimedio volto a ristabilire un equilibrio tra la prestazione sine causa , nel senso anzidetto, e le ripercussioni di essa nella sfera patrimoniale dell’arricchito;

in sostanza, si deve tener conto del fatto, sottolineato dalla dottrina e fatto proprio anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che, al fine di stabilire se l’arricchito fosse tenuto a corrispondere l’equivalente monetario di quanto ottenuto senza causa, non bastava che l’arricchimento non fosse stato voluto, sussistendo un’acceptio della somministrazione indirettamente emergente dal fatto di avere beneficiato della prestazione, tenuto conto della ricorrenza di circostanze tali da far presumere che l’impoverita – la somministrante – avesse intenzione di essere retribuita per la prestazione (e non volesse erogare quest’ultima gratuitamente), sì da far apparire il beneficio ricevuto incontrovertibile: incontrovertibile perché il beneficiato/arricchito avrebbe dovuto procurarsi la stessa prestazione tramite un altro contratto di scambio (è stato provato che la odierna ricorrente non aveva corrisposto alcunché per il medesimo titolo ad (omissis), il suo originario fornitore) e perché l’indennizzo richiesto non ha comportato una sostanziale modificazione della sua composizione patrimoniale (anzi, avendo corrisposto per la prestazione ricevuta l’indennizzo così come quantificato in applicazione della delibera dell’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (AEEG) n. 153/2012, ha beneficiato persino di un risparmio di spesa);

3) con il terzo motivo è denunciata «Nullità della sentenza o del procedimento: sull’applicazione del principio della compensazione delle spese di lite cui all’art. 92 c.p.c. nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti o comunque per altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni»;

la critica mossa alla sentenza impugnata è quella di aver applicato rigidamente il principio di soccombenza in ordine alla liquidazione delle spese, senza tenere conto di quanto disposto dall’art. 92 cod.proc.civ. che consente la compensazione delle stesse «nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» ovvero, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza 19 aprile 2018, n. 77, «anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni»;

il giudice di appello avrebbe omesso di considerare che ci si trovava, per l’appunto, di fronte ad una questione nuova, posto che il tema dell’arricchimento imposto ad un soggetto privato non risulta essere stato sinora affrontato dalla giurisprudenza di legittimità;

il motivo è infondato;

la valutazione sulla concessione o meno della compensazione delle spese rientra nel potere discrezionale del giudice di merito ed esula dalla valutazione di questa Corte, la quale può solo accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa;

rientra, invece, nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass. n. 19/06/2013, n. 15317 e successiva giurisprudenza conforme);

4) per le ragioni esposte il ricorso va rigettato;

5) le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;

6) si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico della ricorrente l’obbligo del pagamento del doppio contributo unificato, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso nella Camera di Consiglio del 07/11/2023 dalla Terza Sezione civile della Corte di Cassazione.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.