La tentata truffa è una valida causa di licenziamento anche senza l’affissione del codice disciplinare (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, Sentenza 15 aprile 2022, n. 12321).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Patrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24798-2019 proposto da:

(OMISSIS) MARIA PIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (OMISSIS) (OMISSIS) n. 1/E, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO (OMISSIS), che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA (OMISSIS) (OMISSIS) n. 8, presso lo studio dell’avvocato MARCO (OMISSIS), che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2606/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/06/2019 R.G.N. 1045/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/02/2022 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. STEFANO VISONA’, visto l’art. 23, comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020 n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17 giugno 2019, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto il reclamo proposto da Maria Pia (OMISSIS) nei confronti di Poste Italiane Spa avverso la decisione di primo grado che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento intimato a seguito della contestazione del 31 maggio 2017, in cui veniva richiamata una sentenza di condanna penale del Tribunale di Roma, intervenuta il 31 marzo 2017 per fatti risalenti al luglio 2012, dalla quale risultava accertata la responsabilità della (OMISSIS) per una “tentata truffa perché, con artifici e raggiri consistiti nel presentarsi come persona disponibile a curare gli interessi della parte offesa, sola ed anziana, ed a seguire alcune pratiche presso l’ufficio postale per conto di questa, la induceva in errore facendosi consegnare documenti, buoni fruttiferi, libretto postale nominativo e polizza vita e procedeva, con varie operazioni, all’apertura di un libretto postale cointestato a sé e alla persona offesa su cui versava somme provenienti da altro libretto intestato alla p.o. e a una sua parente ed otteneva inoltre in riferimento al primo libretto una carta “postepay” a sé esclusivamente intestata”.

2. La Corte ha, innanzitutto, respinto il primo motivo di gravame della reclamante, con cui si censurava la sentenza impugnata per non aver ritenuto violato il principio del ne bis in idem con riferimento ad una precedente sanzione conservativa del 23 aprile 2013; il Collegio ha condiviso la valutazione del Tribunale secondo cui non era affatto vero che la seconda contestazione si limitasse a valutare gli stessi fatti, essendo invece stati contestati fatti nuovi prodromici alle operazioni postali, consistenti in artifici e raggiri, nonché il fatto relativo alla detenzione di polizze assicurative e buoni fruttiferi e all’emissione della carta “postepay”.

3. La Corte ha, poi, confermato l’assunto del primo giudice circa la sussistenza dell’addebito contestato, sulla scorta della sentenza di penale di condanna acquisita agli atti:

– ha condiviso la motivazione del giudice dell’opposizione, secondo cui la tentata truffa in danno di una cliente lede irrimediabilmente il rapporto fiduciario, indipendentemente dalla previsione contrattuale, che non vincola il giudice in considerazione della nozione legale di giusta causa;

– ha ritenuto, poi, che non risultasse violato il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, richiamando il principio di legittimità secondo cui detto criterio temporale non è violato qualora il datore abbia scelto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale per giungere a contestare l’addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiono ragionevolmente sussistenti;

– ha argomentato, quindi, che “la tentata truffa, di natura dolosa e non colposa, approfittando delle mansioni svolte, costituisce comportamento di tale gravità da giustificare il licenziamento senza preavviso, indipendentemente dai precedenti disciplinari”;

– ha disatteso anche l’ultimo motivo di reclamo, relativo alla mancata affissione del codice disciplinare, ritenuto irrilevante se sono contestate – come nella fattispecie – ipotesi previste non solo dal contratto collettivo ma anche direttamente dalla legge, per la violazione di doveri fondamentali o condotte di rilievo penale.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con 8 motivi;

ha resistito con controricorso la società.

5. In prossimità dell’udienza pubblica del 2 febbraio 2022 il P.G. ha comunicato, ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, d.l. n. 137 del 2020, inserito nella l. di conv. n. 176 del 2020, le sue conclusioni di rigetto del ricorso.

Entrambe le parti hanno comunicato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del principio del ne bis in idem ricavabile dal disposto dell’art. 90 c.p. e dell’art. 39 c.p.c., nonché dell’art. 1 D.M. 14 agosto 1943 sul “Riconoscimento della qualifica di ufficiale di P.G. agli ispettori dell’Amministrazione PPTT”, per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto la diversità delle condotte contestate dalla datrice di lavoro prima con lettera del 20.3.2013, cui aveva fatto seguito la sanzione della sospensione dal lavoro, e poi con la nota del 31.5.2017, prodromica al licenziamento.

La censura è inammissibile.

L’applicazione del principio di consunzione (in cui si compendia, appunto, la massima del «ne bis in idem» ricavabile dal testuale disposto degli artt. 90 cod. pen. e 39 c.p.c.) al procedimento disciplinare privatistico ha portato al consolidato orientamento di questa Corte (per tutte v. Cass. n. 34368 del 2019 con la giurisprudenza ivi citata) secondo cui il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva.

In particolare, è stato sempre confermato il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per uno stesso fatto, sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica.

La Corte romana non ha affatto ignorato tale principio, specificando che la seconda contestazione non si era limitata a valutare diversamente gli stessi fatti, ma che il licenziamento era stato irrogato per “fatti nuovi prodromici alle operazioni postali” oltre che per “il fatto relativo alla detenzione di polizze assicurative e buoni fruttiferi e all’emissione della carta postepay”.

Orbene, il verificare se un secondo procedimento disciplinare a carico di un lavoratore abbia ad oggetto gli stessi fatti di un precedente procedimento disciplinare, ovvero fatti diversi, implica nella specie apprezzamenti di merito, concernenti l’interpretazione degli atti del procedimento disciplinare e la valutazione degli accadimenti in essi riportati, che non sono suscettibili di riesame in questa sede di legittimità, tanto più in una ipotesi in cui sia la sentenza di primo grado che quella di appello sono giunti al medesimo convincimento, per cui vige anche la preclusione imposta dall’ultimo comma dell’art. 348 ter c.p.c.

2. Col secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5, l. n. 604 del 1966 in materia di onere della prova, dell’art. 101 c.p.c. sul rispetto del principio del contraddittorio sui mezzi di prova, del principio di autonomia del processo civile rispetto a quello penale, del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, degli artt. 2697, 2729 e 2730 c.c., nonché degli artt. 112, 115, 116, 230 e 246 c.p.c. in materia di onere e di valutazione delle prove ai fini dell’accertamento della sussistenza delle condotte contestate; la stessa parte ricorrente sintetizza la doglianza lamentando che “la Corte territoriale ha ritenuto provate le condotte contestate sulla scorta della sola analisi della sentenza penale di condanna di primo grado, senza alcuna valutazione diretta dei mezzi di prova assunti nel processo penale, mai trasfusi nel processo civile”.

L’articolato motivo è inammissibile sia laddove contiene promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, senza alcuna adeguata indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 c.p.c., così non consentendo una chiara identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016; tra le più recenti v. Cass. SS.UU. n. 16990 del 2017; Cass. n. 3141 del 2019, Cass. n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019; Cass. n. 18560 del 2019; da ultimo: Cass. n. 36881 del 2021), sia nelle parti in cui, pur invocando formalmente errores in iudicando, nella sostanza finisce per criticare la sentenza impugnata per avere ritenuto sussistente il fatto addebitato alla (OMISSIS), pretendendo un sindacato estraneo ai poteri del giudice di legittimità.

In punto di diritto la sentenza impugnata è conforme al principio per il quale il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico e, a tal fine, non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza (Cass. n. 22200 del 2010; Cass. n. 15826 del 2010; Cass. n. 2968 del 1982; più di recente, Cass. n. 15353 del 2012); anzi, anche laddove la sentenza penale irrevocabile sia priva di efficacia extrapenale, il giudice civile deve tenere conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale (Cass. SS.UU. n. 1768 del 2011; cfr. Cass. SS.UU. n. 18923 del 2021) e la sentenza penale non irrevocabile, ancorché non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale, ed attribuendo perciò al giudice civile il potere-dovere di accertarli e valutarli in via autonoma, costituisce in ogni caso una fonte di prova che il predetto giudice è tenuto ad esaminare e dalla quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge (cfr. Cass. n. 3626 del 2004; Cass. n. 23612 del 2004; Cass. n. 4493 del 2010).

3. La giurisprudenza appena richiamata è sufficiente ad affermare l’infondatezza del sesto motivo di gravame, da esaminarsi per ragioni di immediata connessione, con cui si lamenta la violazione dell’art. 27, co. 2, Cost., sostenendo – senza ragione, per quanto appena ricordato – che il provvedimento di licenziamento non poteva essere adottato sulla base di una sentenza penale che era stata impugnata.

4. Con il terzo mezzo si denuncia la nullità della sentenza ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per erronea valutazione ex art. 115 c.p.c. delle difese di parte ricorrente quanto al presunto rifiuto della restituzione dei libretti alla titolare, nonché violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) quanto alle domande formulate da Poste in relazione alla contestazione disciplinare del 31 maggio 2017; si sostiene che la motivazione impugnata sarebbe affetta da error in procedendo “per aver ritenuto non contestate circostanze ritenute decisive ai fini della configurazione della condotta fraudolenta oggetto di sanzione e per aver considerato la condotta contestata fondata su elementi di fatto e di diritto in realtà mai prospettati da Poste”.

La prima censura non può trovare accoglimento perché la denunciata violazione dell’art. 115 c.p.c. non è dedotta in conformità all’insegnamento nomofilattico che, a proposito di detta disposizione, indica che la violazione “può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre” (v. Cass. n. 11892 del 2016; cfr. pure Cass. n. 20382 del 2016; Cass. n. 4699 del 2018; Cass. SS.UU. n.16598 del 2016; più di recente, Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020).

Inoltre, nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ab onere probandi, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 3126 del 2019) e il principio di non contestazione ha per oggetto i fatti storici sottesi a domande ed eccezioni, ma non le conclusioni ermeneutiche da trarre, in ordine al valore probatorio ed all’interpretazione di documenti (cfr. Cass. n. 6172 del 2020; Cass. n. 30744 del 2017; Cass. n. 12748 del 2016).

Quanto poi all’art. 112 c.p.c. si rammenta che la violazione del canone della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e, in particolare, il vizio di ultra ed extra petizione, ricorre solo quando il giudice pronunzia oltre i limiti delle domande e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell’esercizio della sua potestas decidendi, resta libero di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronunzia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all’uopo prospettate, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta osservanza della legge, che il giudice deve conoscere e applicare (art. 113 c.p.c.).

Avuto specifico riguardo alle circostanze di fatto che possono essere poste a fondamento di una domanda o di una eccezione, affinché la modifica o la sostituzione di tali fatti possa concretare la violazione dell’art. 112 c.p.c. è necessario che i medesimi abbiano natura costitutiva della fattispecie integrante la domanda o l’eccezione; solo introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione si altera l’oggetto sostanziale dell’azione o dell’eccezione ed i termini della controversia, mentre – nella specie – l’oggetto del processo era rappresentato dall’impugnativa di licenziamento, nell’ambito della quale ha operato l’accertamento dei giudici del merito circa la sussistenza della giusta causa ed il rispetto delle forme del procedimento disciplinare, con una indagine che investe il merito della vicenda e non certo il canone processuale della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

5. Il quarto motivo denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare di cui all’art. 7 l. n. 300 del 1970, dell’art. 1 D.M. 14 agosto 1943 nonché dell’art. 18, comma 4, o – in subordine – comma 5, l. n. 300 del 1970; si critica la Corte territoriale per avere “ritenuto tempestiva la contestazione di Poste, intervenuta a distanza di oltre quattro anni dai fatti di causa – autonomamente sanzionati – che risalgono al 2012”.

La censura è inammissibile.

Per condiviso orientamento di questa Corte la valutazione della tempestività della contestazione disciplinare costituisce giudizio di merito (tra le innumerevoli v. Cass. n. 989 del 2017; Cass. n. 1247 del 2015; Cass. n. 5546 del 2010; Cass. n. 29480 del 2008; Cass. n. 14113 del 2006), con la conseguenza che il sindacato relativo a tale giudizio, riguardante la ricostruzione dei fatti e la loro valutazione, essendo tipicamente sussumibile nel paradigma dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., piuttosto che nell’involucro solo formale ad esso attribuito dalla ricorrente, per i giudizi di appello instaurati -come nel caso che ci occupa- successivamente al trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge n. 134 del 2012, di conversione del d.l. n. 83 del 2012, non può essere denunciato con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di prime cure, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.).

Ossia il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme” (v. Cass. n. 23021 del 2014; proprio in materia di tardività della contestazione disciplinare v. Cass. n. 22415 del 2015).

Inoltre la Corte territoriale ha coerentemente richiamato l’insegnamento secondo il quale, quando il fatto che dà luogo a sanzione disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio della immediatezza della contestazione, non pregiudicato dall’intervallo di tempo necessario all’accertamento della condotta del lavoratore ed alle adeguate valutazioni di questa, non può considerarsi violato dal datore di lavoro il quale, avendo scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, contesti l’addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti (Cass. n. 27069 del 2018; conf. a Cass. n. 5057 del 2016).

6. Con il quinto motivo si deduce la violazione e/o la falsa applicazione del principio di immodificabilità della contestazione disciplinare di cui all’art. 7 della l. n. 300 del 1970, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe esteso la sua indagine a condotte poste al di fuori dell’ambito lavorativo non oggetto di specifica contestazione, ragguagliando altresì la valutazione della giusta causa di recesso ad elementi normativi – quale l’art. 2119 c.c. – non tassativamente indicati nella nota di addebito.

La doglianza non merita accoglimento.

Essa, innanzitutto, è priva della necessaria specificità, atteso che non individua il passaggio della sentenza impugnata in cui la Corte territoriale si sarebbe pronunciata in modo difforme rispetto al principio che si assume violato, né indica adeguatamente, nel corpo del motivo, in che modo la questione sia stata introdotta nel giudizio, come sia stata risolta dal giudice di primo grado, con quali censure la stessa sia stata eventualmente devoluta in secondo grado.

Inoltre, l’interpretazione dell’atto di licenziamento ai fini della determinazione della contestazione mossa al lavoratore, alla stregua di ogni altro atto espressivo di una volontà (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), integra un accertamento di fatto riservato al giudice del merito (cfr. Cass. n. 3522 del 1984, più di recente Cass. n. 18744 del 2018), mentre il principio di immodificabilità della contestazione disciplinare riguarda l’immutabilità dei fatti storici oggetto di addebito, ma non certo la loro qualificazione giuridica.

7. Col settimo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 54, lettere d), k), j) e n) del CCNL per il personale non dirigente delle Poste Italiane, sostenendo che le condotte contestate erano suscettibili di essere punite con una sanzione meramente conservativa.

La censura è infondata.

La Corte territoriale ha esaurientemente condiviso l’assunto del primo giudice secondo cui “la tentata truffa a danno di una cliente lede irrimediabilmente il rapporto fiduciario, indipendentemente dalla previsione contrattuale, che non vincola il giudice in considerazione della nozione legale di giusta causa”.

Invero, dalla natura legale della nozione deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018; Cass. n. 13412 del 2020).

Di recente si è ribadito che “il giudice non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione” (Cass. n. 3283 del 2020).

8. Con l’ultimo motivo parte ricorrente denuncia la violazione dell’art. 7, l. n. 300 del 1970 e della disciplina della contrattazione collettiva applicabile per avere la Corte territoriale “ritenuto superflua l’affissione del codice disciplinare presso la sede lavorativa della ricorrente, malgrado le ipotesi disciplinari contestate siano di origine contrattuale collettiva”.

La censura è infondata.

La sentenza impugnata è conforme al radicato orientamento di legittimità per il quale, ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione – ravvisabile nella specie – di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (Cass. n. 6893 del 2018; Cass. n. 22626 del 2013; Cass. n. 20270 del 2009; Cass. n. 16291 del 2004).

9. Conclusivamente il ricorso va respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, spese generali al 15% e accessori secondo legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 2 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.