Nessuna esimente dello stato d’ira per l’uomo che su Facebook insulta l’ex moglie al termine di una separazione travagliata (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 24 giugno 2022, n. 24614).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SABEONE Gerardo – Presidente –

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere –

Dott. BORRELLI Paola – Consigliere –

Dott. BIFULCO Daniela – Rel. Consigliere –

Dott. CARUSILLO Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), nato a (OMISSIS) il 13/2/19xx;

avverso la sentenza del 17/02/2021 della CORTE APPELLO di CATANIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa DANIELA BIFULCO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa PERLA LORI, che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata, con conferma delle statuizioni civili.

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Catania ha confermato la decisione con cui il Tribunale della medesima città aveva dichiarato, a seguito di rito abbreviato, (OMISSIS) colpevole del reato di diffamazione aggravata, per aver offeso l’onore e la reputazione dell’ex moglie, pubblicando frasi offensive nei confronti di quest’ultima sul socia/ network ‘Facebook’.

Alla condanna inflitta in primo grado (euro 6.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita; a carico di (OMISSIS) (OMISSIS), si aggiungeva la condanna, in sede d’appello, alle ulteriori spese processuali e alla refusione di quelle sostenute dalla parte civile, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, e la revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputato per il tramite del difensore, affidando le proprie censure a tre motivi, col primo dei quali deduce violazione di legge e omessa motivazione, in relazione agli artt. 595 e 599, secondo comma, cod. pen., per non avere la Corte territoriale applicato l’esimente della reazione d’ira provocata da fatto ingiusto altrui.

A tal proposito, la difesa osserva che la reazione dell’imputato, benché non immediata, è nondimeno maturata nel contesto di un logorante conflitto interpersonale e di un clima caratterizzato da costanti minacce e vessazioni da parte dell’ex moglie dell’imputato (che ostacolava, soprattutto, la frequentazione tra quest’ultimo e la prole) e della famiglia della stessa, che avrebbero provocato un persistente stato d’ira nel ricorrente.

Con il secondo motivo di ricorso, eccepisce violazione di legge e omessa motivazione, in relazione all’art. 62-bis cod. pen., dal momento che la Corte d’appello, nel denegare l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, si sarebbe limitata a una motivazione puramente reiterativa degli argomenti già espressi a proposito dell’esimente di cui all’art. 599 cod. pen. La difesa osserva che l’asserita mancanza del ‘fatto ingiusto’ non sarebbe sufficiente a giustificare anche la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche. A sostegno della propria tesi, la difesa invoca il leale comportamento processuale del ricorrente (il quale non ha negato la propria condotta, spiegandone, invece, le ragioni) e ritiene che la Corte territoriale non abbia tenuto nella dovuta considerazione detto profilo.

Con il terzo motivo, eccepisce violazione di legge e omessa motivazione in relazione all’art. 157 cod. pen., chiedendo a questo Collegio di accertare se sia maturato termine di prescrizione del reato, risalendo i fatti all’agosto del 2013. Sulla base di tali motivi di ricorso, la difesa chiede pertanto l’annullamento dell’impugnata sentenza.

3. Si dà atto che la difesa ha depositato memoria difensiva, nella quale si espongono, a sostegno delle censure di cui al primo motivo di ricorso, ulteriori e più recenti arresti giurisprudenziali relativi all’esimente di cui all’art. 599, secondo comma, cod. pen.

4. Il Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa Perla Lori, ha ritenuto assorbente il terzo motivo e ha pertanto concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata, con conferma delle statuizioni civili.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il primo motivo è manifestamente infondato. Inconferenti, rispetto alla specificità del caso in esame, appaiono i rilievi della difesa relativi alle molteplici sfaccettature che può assumere la reazione in stato d’ira, determinata da un fatto ingiusto altrui, rilevante ai fini della riconoscibilità dell’invocata esimente.

La pur copiosa giurisprudenza di legittimità citata dal ricorrente – tanto nel ricorso in oggetto quanto nella memoria difensiva – in cui viene ribadito come l’immediatezza della reazione debba essere intesa in senso relativo ed elastico (non traducendosi necessariamente, quell’immediatezza, in contemporaneità della reazione stessa), non si attaglia all’argomento principale sviluppato nella motivazione dell’impugnata sentenza, vale a dire il mancato riscontro di un comportamento ingiusto della persona offesa, saldamente ancorato alle risultanze processuali.

Per la Corte d’Appello, «un mero stato di contrasti e/o rancore tra le parti non integra una situazione per la quale possa ritenersi che il “fatto ingiusto” asseritamente patito dall’agente, determini improvvisamente il c.d. ‘stato d’ira’».

Nel rilevare la mancata prova del nesso di causalità tra la «reazione» dell’imputato e l’asserito «fatto ingiusto», i giudici d’Appello hanno fatto buon uso dell’orientamento di questa Corte, secondo cui nel delitto di diffamazione, ai fini della configurabilità dell’esimente di cui all’art. 599 cod. pen., ancorché non rilevi la proporzione fra la reazione ed il fatto ingiusto altrui, occorre, tuttavia, che sussista un nesso di causalità determinante tra il fatto provocante ed il fatto provocato, non essendo all’uopo sufficiente un legame di mera occasionalità (Sez. 5, n. 39508 del 11/05/2012, Grassi, Rv. 253732-01).

Il punto di leva della motivazione dalla Corte territoriale non è, quindi, se la reazione dell’imputato sia stata o meno intempestiva; rispetto a tale profilo, la Corte ha ritenuto, in ogni caso, che la prova fornita a supporto della immediatezza della reazione («puramente labiale») non fosse stata sufficiente ad accogliere la tesi difensiva della esimente di cui all’art. 599, secondo comma, cod. pen.

Il profilo essenziale del caso di specie è stato giustamente individuato dalla Corte territoriale altrove. E, cioè, nella «volontà cosciente e libera di adoperare espressioni offensive con la consapevolezza della loro attitudine a ledere la reputazione altrui».

Tale volontà, così caratterizzata, è sufficiente per integrare il dolo generico, richiesto ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione.

Correttamente la Corte territoriale ha dunque ritenuto che «qualora tale volontà esista nessuna rilevanza può attribuirsi ai fini e ai moventi dell’agente che possono al limite assumere rilievo soltanto per giustificare l’eventuale concessione di attenuanti o riduzione della pena».

Attenuanti o riduzione della pena che la Corte ha ritenuto di escludere proprio in vista di quell’animus diffamandi che ha così chiaramente connotato la condotta dell’imputato.

La motivazione dell’impugnata sentenza ha, dunque, coerentemente applicato il consolidato principio secondo il quale «in tema di diffamazione, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo, non si richiede che sussista l”animus iniurandi vel diffamandi“, essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente (Sez 5, n. 21133, del 09/03/2018, Iachetta, Rv. 273131 – 01, con riferimento a: Sez. 5, n. 4364 del 12/12/2012, dep. 2013, Arcadi, Rv. 254390; Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, dep. 2014, Verratti, Rv. 258943).

Gioverà infine ricordare che il problema più generale, riproposto dalla fattispecie in esame, è quello della individuazione del bene giuridico protetto dai primi due commi dell’articolo 595 cod. pen., che tutelano non soltanto la dignità «individuale ed esistenziale ma anche e soprattutto quella sociale, connotandosi la lesione [ …] alla reputazione come violazione del rapporto di riconoscimento dell’uomo, realtà che vive nella società e non al di fuori di essa: oggetto della tutela è cioè la proiezione della persona nella vita di relazione» Sez. 5, n. 37383, del 16/06/2011, Benetton, Rv. 251517 – 01).

Nella condotta in contestazione, i giudici d’Appello hanno giustamente individuato un tipo di narrazione – peraltro espressa via Facebook, con evidenti conseguenze in termini di diffusività e rapidità della comunicazione, proprie dei socia/media – indubbiamente dotata di idoneità lesiva, al contempo, dell’onore e della reputazione.

Concetti, questi ultimi, liminari, non facilmente distinguibili, ma di cui può dirsi – in estrema sintesi e seguendo, sul punto, autorevoli contributi dottrinali e giurisprudenziali – che l’uno pertiene al sentimento che ciascuno ha della propria dignità, l’altro alla considerazione di cui un individuo gode nel contesto sociale.

2.1. Date tali premesse, legittimamente la Corte d’appello ha ritenuto di escludere sia la sussistenza dell’esimente della provocazione, sia l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, profilo, quest’ultimo, posto a oggetto del secondo motivo di ricorso, giudicato da questo Collegio del pari inammissibile.

A tal proposito, si osserva che la Corte territoriale ha compiutamente giustificato la mancata concessione delle circostanze di cui all’articolo 62-bis cod. pen., considerati anche i «precedenti penali riportati dal (OMISSIS) e l’assenza di qualsivoglia «elemento positivo, neppure evidenziato dalla difesa, dal quale poter ricavare che lo stesso [meritasse] un trattamento sanzionatorio più mite».

L’argomento proposto dalla difesa del «leale comportamento processuale» del ricorrente, che la Corte territoriale non avrebbe tenuto nella giusta considerazione, è stato evidentemente giudicato da quest’ultima come elemento non significativo e, comunque, recessivo a fronte della condotta penalmente rilevante dell’imputato.

In tal modo, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è stata giustificata, nella sentenza impugnata, con motivazione esente da manifesta illogicità, che si sottrae, pertanto, al sindacato di questa Corte (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419), giusta il principio, espressione della consolidata espressione della giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244).

2.2. Vista l’inammissibilità dei primi due motivi di ricorso, ed essendo la prescrizione maturata successivamente alla sentenza di appello, il terzo motivo è parimenti inammissibile (cfr. S. U., n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818 – 01).

3. Alla declaratoria di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende; in caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 del d.lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 del d.lgs. 196/03, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2022.

SENTENZA – originale -.