REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SESTA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. Giorgio Fidelbo – Presidente –
Dott. Angelo Capozzi – Consigliere –
Dott. Emilia Anna Giordano – Consigliere –
Dott. Giuseppina A. Rosaria Pacilli – Consigliere –
Dott. Pietro Silvestri – Relatore –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis), nato a (omissis) l’xx/xx/19xx;
avverso la sentenza emessa il 05/12/2023 dalla Corte di appello di Napoli;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Pietro Silvestri;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott.ssa Elisabetta Ceniccola, che ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza con cui (omissis) (omissis) è stato condannato per il reato di peculato, perché, nella qualità di impiegato di Poste Italiane, con mansioni di responsabile del centro primario di distribuzione di (omissis) (omissis), si sarebbe appropriato della somma di 570 euro corrispondente agli importi incassati a fronte di spedizioni con contrassegno e da rimborsare ai mittenti, ai quali, tuttavia, non sarebbe stato restituito alcunché.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato articolando tre motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge per essere la motivazione della Corte di appello meramente apparente, essendosi i Giudici limitati a richiamare la sentenza di primo grado.
2.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione di legge quanto al giudizio di responsabilità.
(omissis) sarebbe stato addetto alla regolarizzazione, mediante affrancatura, dei bollettini dei pacchi da restituire al mittente e, dunque, non sarebbe stato né un pubblico ufficiale e neppure un incaricato di pubblico servizio: egli avrebbe ricoperto funzioni meramente esecutive. La condotta dovrebbe essere, dunque, ricondotta al reato di appropriazione indebita, estinto per prescrizione.
2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge.
Il tema attiene al mancato riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
2. La questione attiene ad un duplice profilo. Il primo attiene a se il servizio postale “in contrassegno” sia un servizio pubblico. Il secondo è se, posto che al primo quesito debba darsi risposta positiva, il ricorrente avesse in concreto la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
3. Quanto primo tema, non è in contestazione che il servizio postale “in contrassegno” – in cui il destinatario paga al momento della consegna del pacco al corriere una somma che poi deve essere trasferita al mittente – non sia un servizio svolto da Posta italiane in esclusiva: si tratta di un servizio svolto da diversi e numerosi corrieri in regime di concorrenza sul mercato.
Dunque, un’attività che non porta l’effige della matrice pubblicistica di origine (dirigistica, organizzativa), che non rivela l’esistenza di un soggetto erogatore che non risulta in concreto sul mercato nella medesima posizione egli altri; un’attività rispetto alla quale non si coglie nessuna forma di condizionamento pubblicistico non solo – soprattutto – nel regime regolatorio, ma anche di organizzazione e di operatività del modello gestorio. Un’attività che si svolge liberamente sul mercato, da più soggetti, in regime di concorrenza. Dunque, nella specie, non si tratta della erogazione di un servizio pubblico.
4. E tuttavia, pur volendo ragionare diversamente e ritenere in astratto che il servizio di consegna di posta “in contrassegno” costituisca un servizio pubblico, nondimeno nella specie non è configurabile la qualifica di incaricato di pubblico servizio nei riguardi dell’imputato.
Con la riformulazione degli artt. 357 e 358 cod. pen. ad opera della legge 26 aprile 1990, n. 86, è stato definitivamente positivizzato il superamento della concezione soggettiva delle nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, che privilegiava il rapporto di dipendenza dallo Stato o da altro ente pubblico, con l’adozione di una prospettiva funzionale-oggettiva, secondo il criterio della disciplina pubblicistica dell’attività svolta e del suo contenuto.
Ciò che è necessario accertare, ai fini dell’assunzione della qualifica di pubblico ufficiale, è l’esercizio di una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
Tale ultima funzione è stata specificamente definita al secondo comma dell’art. 357 cod. pen., introdotto dalla legge 7 febbraio 1992, n. 181, attraverso specifici indici di carattere oggettivo che consentono di delimitare la funzione pubblica, verso l’esterno, da quella privata e, verso l’interno, dalla nozione di pubblico servizio.
Si definisce, infatti, pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, definisce tali quelle attinenti all’organizzazione generale dello Stato) e da atti autoritativi e caratterizzata, nell’oggetto, dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o, nelle modalità di esercizio, dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu).
Come emerge dall’impiego nel testo della norma della disgiuntiva “o”, in luogo della congiunzione “e”, i suddetti criteri normativi di identificazione della pubblica funzione non sono tra loro cumulativi, ma alternativi.
E’ stato, inoltre, precisato che nel concetto di poteri “autoritativi” rientrano non soltanto i poteri coercitivi, ma tutte quelle attività che sono esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto che viene a trovarsi così su un piano non paritetico — di diritto privato — rispetto all’autorità che tale potere esercita; rientrano, invece, nel concetto di “poteri certificativi” tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado (Sez. U, Delogu).
La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, attribuito rilevanza anche all’esercizio di fatto della pubblica funzione, purché questo non sia usurpato, ma accompagnato dall’acquiescenza, dalla tolleranza o dal consenso, anche tacito, dell’amministrazione (Sez. 6, n. 19217 del 13/01/2017, Como, Rv. 270151).
Non occorre, dunque, un’investitura formale se vi è, comunque, la prova che al soggetto sono state affidate effettivamente delle pubbliche funzioni (In senso conforme, si veda anche Sez. 6, n. 34086 del 26/07/2013, Bessone, Rv. 257035 con riferimento all’assunzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio del soggetto che, di fatto, svolge delle attività diverse da quelle inerenti alle mansioni istituzionalmente affidategli).
L’attività dell’incaricato di pubblico servizio, secondo la definizione contenuta al successivo art. 358 cod. pen., è ugualmente disciplinata da norme di diritto pubblico, ma presenta due requisiti negativi in quanto manca dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è in rapporto di accessorietà e complementarietà, e non ricomprende le attività che si risolvono nello svolgimento di mansioni di ordine o in prestazioni d’opera meramente materiale.
Si tratta, dunque, di un un’attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dallo svolgimento di compiti di rango intermedio tra le pubbliche funzioni e le mansioni di ordine o materiale.
Quale diretta conseguenza del criterio oggettivo-funzionale adottato dal legislatore, la qualifica pubblicistica dell’attività prescinde dalla natura dell’ente in cui è inserito il soggetto e dalla natura pubblica dell’impiego.
La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, da tempo affermato che anche i soggetti inseriti nella struttura organizzativa di una società per azioni possono essere qualificati come pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, quando l’attività della società sia disciplinata da norme di diritto pubblico e persegua delle finalità pubbliche sia pure con strumenti privatistici (cfr., Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo, Rv. 273781).
Rileva l’attività dell’ente e, posto che questa abbia caratteri pubblicistici, quale sia in concreto l’attività compiuta dal soggetto.
5. In tale contesto, mentre la sussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio è stata riconosciuta nei riguardi di quei soggetti che, operando tanto nell’ambito di enti pubblici quanto di enti di diritto privato, siano risultati titolari di funzioni di rilevanza pubblicistica caratterizzate dall’esercizio del potere di adottare in autonomia provvedimenti conformativi dei comportamenti dei destinatari del servizio, con i quali l’agente instaura una relazione diretta (così, tra le molte, Sez. 6, n. 3932 del 14/12/2021, dep. 2022, Signorile, Rv. 282755; Sez. 3, n. 26427 del 25/02/2016, B., Rv. 267298; Sez. 6, n. 6749 del 19/11/2013, dep. 2014, Gariti, Rv. 258995), quella qualifica è stata invece negata in relazione alla posizione, come nel caso di specie, di quei soggetti che, privi di mansioni propriamente intellettive, siano chiamate a compiere, nel contesto di quelle strutture, generiche attività materiali in esecuzione di ordini di servizio ovvero di prescrizioni impartire dai superiori gerarchici.
6. In tale contesto, secondo la Corte di appello, la qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio sarebbe nella specie sussistente in quanto:
a) l’imputato era incaricato di ricevere le somme incassate dai portalettere;
b) detto passaggio di denaro era annotato su un registro;
c) sul registro era apposta per ricezione la sottoscrizione dell’impiegato incaricato a ricevere la somma.
7. Si tratta di un ragionamento viziato e di una errata applicazione della legge penale.
Nel caso di specie, l’attività di documentazione compiuta dal ricorrente – relativa alla annotazione delle somme ricevute – valorizzata dalla Corte di appello al fine di ritenere sussistente la qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio, non attiene al “servizio”, non riguarda l’attività propriamente amministrativa, non ha ad oggetto un’attività intellettiva, ma riguarda la verifica interna della regolare esecuzione dell’ordine di servizio e delle prescrizioni impartire dai superiori gerarchici: una documentazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro e che non riguarda manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla Pubblica amministrazione (cfr., Sez. U, n. 15983 del 11/04/2006, Sepe, Rv. 233423).
Ne consegue, anche sotto tale profilo, che, esclusa la configurabilità del reato di peculato, i fatti devono essere riqualificati e ricondotti al delitto di appropriazione indebita, che, tuttavia, in ragione del tempo di commissione del reato (28.5.2015) deve essere considerato estinto per prescrizione.
La sentenza deve dunque essere annullata senza rinvio.
P. Q. M.
Riqualificato il fatto nel delitto di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.), annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato é estinto per intervenuta prescrizione.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2024.
Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2024.