REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRICCHETTI Renato Giuseppe – Presidente –
Dott. BIANCHI Michele – Consigliere –
Dott. MAGI Raffaello – Consigliere –
Dott. ALIFFI Francesco – Consigliere –
Dott. CAPPUCCIO Daniele – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
DAVID OSADEBAMWEN nato a BENIN CITY (NIGERIA) il 23/03/19xx;
KADARA OSMAN nato il 11/08/19xx;
UWAGUE KATE nato il 12/03/19xx;
avverso la sentenza del 27/05/2020 della CORTE ASSISE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. DANIELE CAPPUCCIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa FRANCA ZACCO, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 27 maggio 2020 la Corte di assise di appello di Milano, in parziale riforma di quella emessa il 18 giugno 2019 dal Giudice per le indagini preliminari della stessa città nei confronti di Osadebamwen David, Osman Kadara e Kate Uwague, ha rideterminato le pene inflitte ai primi due, rispettivamente, in sette anni e quattro mesi di reclusione ed un anno e sei mesi di reclusione, e ha confermato, nel resto, la decisione di primo grado, con la quale Kate Uwague era stata condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di un atto ed otto mesi di reclusione.
2. Osadebamwen David risponde, nell’ambito del presente procedimento, del delitto di riduzione in schiavitù di due ragazze, sue connazionali in quanto provenienti dalla Nigeria, che, nel 2016, entrarono illegalmente in Italia ove, su impulso di tale Mama Iwanosa, si misero in contatto con lei e furono da subito avviate alla prostituzione.
La rilevanza criminale della condotta dell’imputata si riconnette alla sottoposizione delle vittime, in territorio nigeriano, a riti voodoo, per effetto dei quali le stesse – secondo quanto appurato anche mediante approfondimenti di natura antropologica e psicologica – si vennero a trovare in una condizione di stringente ed ineludibile soggezione nei suoi confronti, della quale ella approfittò per imporre loro il meretricio allo scopo di procurarsi le risorse finanziarie occorrenti per ripagare il debito contratto all’atto di intraprendere il viaggio alla volta dell’Europa.
La prova dei fatti è rimessa alle dichiarazioni delle persone offese, che i giudici di merito hanno ritenuto altamente attendibili e corroborate da riscontri investigativi, di assoluta eloquenza, acquisiti anche attraverso attività di intercettazione telefonica ed ambientale.
I due residui imputati, rispettivamente marito e figlia della David, sono stati, invece, condannati per il solo favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione delle due giovani, avendo costoro prestato ausilio alla congiunta, risoltosi, per l’uno, nel prelevarle presso i centri di accoglienza ove le ragazze, raggiunto il suolo italiano, erano state ricoverate, nel portarle in Legnano, ospitandole nella propria abitazione familiare, e nell’accompagnarle sui luoghi del meretricio, e, per l’altra, nel riscuotere, all’occorrenza, i versamenti delle ragazze, nel controllare il regolare svolgimento dell’attività e nel prestare loro assistenza di varia natura (fornitura di profilattici, accompagnamento sul posto di lavoro, ecc.).
3. Gli imputati propongono, con unico atto sottoscritto dall’avv. Fabrizio (OMISSIS), ricorsi per cassazione affidati, nel complesso, a tre motivi, tutti afferenti a violazione di legge e vizio di motivazione.
Con il primo, la David lamenta che i giudici di merito abbiano ritenuto che le vittime versassero in uno stato di schiavitù mentale conseguente alla sottoposizione al rito juju (termine utilizzato, nella fattispecie, quale sinonimo di voodoo), conclusione smentita, nella realtà, dall’essersi entrambe sottratte all’impegno assunto rivolgendosi, l’una, ai Carabinieri, ed allontanandosi, l’altra, per andare a vivere con il proprio compagno.
Con il secondo motivo, la David osserva che l’impegno assunto con il juju concerneva l’impegno a restituire una somma di denaro, cioè ad effettuare una prestazione specifica, restando ad esso estranee le modalità attraverso le quali la vittima si sarebbe procurata tale importo, fungibili e non necessariamente legate all’attività di prostituzione; segnala, pertanto, l’illegittimità della contestazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 602-ter, primo comma, lett. b), cod. pen.
Con il terzo ed ultimo motivo, il marito e la figlia della David obiettano che la loro responsabilità è stata ritenuta sulla base di una motivazione manifestamente illogica e contraddittoria e trascurando, specificamente, che l’uomo ha posto in essere condotte penalmente neutre e che la ragazza è raggiunta da accuse intrinsecamente inattendibili e, per di più, contraddette da ulteriori risultanze istruttorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili per la manifesta infondatezza dei motivi.
2. L’oggetto del primo motivo di ricorso, afferente alla qualificazione dei fatti ai sensi dell’art. 600 cod. pen., consiglia una sintetica ricognizione dei tratti essenziali della fattispecie incriminatrice di «Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù».
Il primo comma della disposizione punisce con la reclusione da otto a venti anni «Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi».
La fattispecie criminosa può quindi essere integrata, alternativamente, dall’esercizio su di una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, ovvero dalla riduzione o dal mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento.
Si tratta, quindi, di un reato a fattispecie plurima, integrato sia dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario, che, implicando la «reificazione» della vittima, ne comporta ex se lo sfruttamento, sia da quella di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, in relazione alla quale, invece, è richiesta la prova dell’ulteriore elemento costituito dalla imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (in questo senso, nella giurisprudenza di legittimità, cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 10426 del 9/01/2015, 0., Rv. 262632; Sez. 3, n. 24269 del 27/05/2010, K., Rv. 247704; Sez. 5, n. 4012 del 15/12/2005, dep. 2006, Lazri, Rv. 233600).
Il secondo comma dell’art. 600 cod. pen. precisa, poi, che la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
La prospettazione accusatoria accolta, nella fattispecie che qui viene in rilievo, dalla Corte territoriale attiene alla realizzazione della seconda ipotesi alternativa della fattispecie plurima, ossia alla riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento, esercitata fra i vari strumenti tipici costituenti modalità della condotta, elencati nel comma secondo dell’art. 600 cod.pen., mediante minaccia e approfittamento dello stato di necessità, intesa come situazione di debolezza e mancanza materiale o morale atta a condizionare la volontà della vittima.
Ne deriva che, perché sussista la costrizione a prestazioni — in presenza dello stato di necessità, che è un presupposto della condotta approfittatrice dell’agente e deve essere inteso come situazione di debolezza o mancanza materiale o morale atta a condizionare la volontà della persona — è sufficiente l’approfittamento di tale situazione da parte dell’autore; mentre la costrizione alla prestazione deve essere esercitata con violenza o minaccia, inganno o abuso di autorità nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità (Sez. 5, n. 4012 del 15/12/2005, dep. 2006, Lazri, Rv. 233600).
Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità dello stato di soggezione, rilevante per l’integrazione del reato di riduzione in schiavitù, è necessaria una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, anche indipendentemente da una totale privazione della libertà personale (Sez. 5, n. 15662 del 17/2/2020, U., n. 279156; Sez. 5, n. 49594 del 14/10/2014, Enache, Rv. 261345; Sez. 5, n. 44385 del 24/9/2013, Rv. 257564).
Resta, per contro, irrilevante la circostanza che, al cospetto delle condizioni sopra indicate, la persona offesa mantenga limitati spazi di autodeterminazione, dovendosi rapportare lo stato di soggezione continuativa, richiesto dall’art. 600 cod. pen., all’intensità del vulnus arrecato all’altrui libertà di autodeterminazione, nel senso che esso non può essere escluso qualora si verifichi una qualche limitata autonomia della vittima, tale da non intaccare il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato (Sez. 5, n. 25408 del 5/11/2013, dep. 2014, Mazzotti, Rv. 260230).
Consegue alle superiori considerazioni, tra l’altro, che «risponde del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù colui che sfrutta la prostituzione della persona offesa eccedendo il normale rapporto di meretricio» (Sez. 5, n. 12574 del 29/1/2013, K. Rv. 255378), dovendosi valorizzare, quali elementi sintomatici del prescritto quid pluris: la mancanza di libertà di movimento della persona assoggettata; la sua impossibilità di comunicare con terzi; la sottrazione del passaporto; la privazione dei mezzi di sussistenza.
Infine, la situazione di necessità della vittima deve essere intesa come situazione di debolezza idonea a condizionarne la volontà personale, analoga a quella considerata dall’art. 644, quinto comma, n. 3, cod. pen. o allo stato di bisogno rilevante ai fini della rescissione del contratto (art. 1418 cod. civ.) e sostanzialmente coincidente con il concetto normativo di «posizione di vulnerabilità», indicata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, attuata dalla legge 11 agosto 2003, n. 228 (Sez. 3, n. 2841 del 26/10/2006, dep. 2007, Djordjevic, Rv. 236022), nozione distinta da quella che integra la scriminante dello stato di necessità, prevista all’art. 54 cod. pen. (Sez. 3, n. 21630 del 6/5/2010, E. e altro, Rv. 247641).
3. Nel caso in esame, i giudici di merito — le cui decisioni possono essere, a questi fini, sinergicamente considerate, versandosi in ipotesi di c.d. «doppia conforme» ed avendo la Corte di appello operato ampi riferimenti alla sentenza di primo grado, le cui motivazioni ha mostrato di condividere e far proprie (in questo senso cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 37295 del 12/6/2019, E., Rv. 277218;Sez. 3, n. 44418 del 16/7/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerlo, Rv. 252615) — hanno tratto argomento, in primo luogo, dalla sottoposizione delle vittime, prima della partenza dal Paese di origine, a riti juju.
A fronte dell’obiezione difensiva, secondo cui l’intervento dello sciamano avrebbe prodotto un mero vincolo di natura contrattuale, che obbligava il soggetto al rispetto dell’obbligo di restituire una determinata somma di denaro ed al divieto di rivolgersi alle forze dell’ordine e di intrattenere rapporti sessuali con il marito della madame, la Corte di appello ha ribadito che il rito ha, invece, generato un vero e proprio rapporto di dominio fisico e psichico tra la David e le ragazze che, sotto il suo impulso, hanno intrapreso la prostituzione.
Premesso che già l’incontro con lo sciamano era stato da loro accettato sulla falsa rappresentazione della finalità sanitaria e curativa con esso perseguita, il giudice di appello ha, in particolare, rilevato come la narrazione di Hope Idoreyin Daniel («Mi hanno dato da bere dell’alcool con dentro del sangue. Mi hanno tagliato un po’ di capelli. Mi hanno fatto dei taglietti sotto le clavicole, mani e piedi e dietro la schiena con le lamette») debba essere interpretata alla luce di quanto esposto dal consulente tecnico del pubblico ministero, dott.ssa Milena (OMISSIS), e dal perito, dott.ssa Alessandra (OMISSIS).
La prima ha, invero, riferito: «Il prelievo di materiale organico delle ragazze con il quale viene fatto un feticcio durante il rituale conferisce alla madame una posizione di dominio che viene percepita come minacciosa dalle ragazze in due modi: nella sfera fisica e in quella spirituale.
La pratica di rimuovere parti del corpo e, nel caso di Hope, applicare dei tagli sulle spalle, braccia e schiena crea una paura emotiva nelle ragazze, le quali percepiscono la minaccia di dolore fisico come reale.
Inoltre, il fatto che la madame ed il native doctor possiedano parti del corpo delle ragazze gli conferisce il potere di controllo e ricatto spirituale tramite meccanismi metonimici», ovvero in forza del principio secondo cui «avere il controllo su una parte della persona conferisce controllo sulla persona stessa».
La medesima chiave di lettura ispira l’apporto della dott.ssa (OMISSIS), la quale ha spiegato che il rituale unge da «meccanismo coercitivo, da dispositivo di controllo a distanza […] che viene imposto a donne in posizione di forte vulnerabilità» per cui, nonostante l’apparente libertà di movimento, lo strumento induce uno stato di «schiavitù mentale».
Gli espletati accertamenti di tipo antropologico hanno consentito, poi, di verificare, secondo quanto dettagliatamente riportato dal giudice di primo grado, che l’efficacia vincolante del rituale è accresciuta dalla peculiare situazione sociale della Nigeria, in cui al distacco da un sistema istituzionale e politico percepito dalla popolazione come parassitario e corrotto fa pendant l’assunzione di centralità delle organizzazioni religiose tradizionali, che attribuiscono primaria importanza a riti tribali del tipo di quello somministrato alle odierne persone offese, comprendente un giuramento dal quale è scaturito un vincolo al quale le giovani hanno ritenuto di essere strette, a pena di incorrere in eventi letali o, comunque, gravissimi, sino al formale annullamento da parte di autorità, l’Oba di Benin City, gerarchicamente sovraordinato allo sciamano (il «Native doctor») al cui cospetto elle erano state condotte.
Resta così confermato, nella ricostruzione avallata dai giudici di merito, che le vittime si sono venute a trovare in una condizione di estrema vulnerabilità, in cui l’incombente minaccia delle ritorsioni conseguenti alla sottrazione all’impegno assunto si è accompagnata ad una tangibile precarietà esistenziale, connessa all’assenza di risorse economiche, oltre che di documenti e riferimenti affettivi e familiari, ed all’estraneità all’ambiente nel quale si sono venute a trovare una volta sbarcate in Italia.
Del tutto plausibile è che, in questo contesto, le giovani nigeriane abbiano patito una condizione di continuativa ed ineludibile soggezione nei confronti della David, la quale ha profittato dalla loro spiccata vulnerabilità coartandole a dedicarsi alla prostituzione.
Tanto, in ragione della significativa compromissione della loro capacità di autodeterminazione, sebbene non tradottasi in totale privazione della libertà personale e coesistente con il mantenimento di circoscritti ambiti di libertà che, a dispetto di quanto obiettato dalla ricorrente, non escludono la configurabilità del reato.
Ineccepibile si palesa, sotto questo profilo, la notazione della Corte di appello, secondo cui l’impostazione accusatoria non è contraddetta dal fatto che Evelyn abbia ricevuto, successivamente all’allontanamento di Hope, il permesso di trasferirsi a Torino, elargito con la promessa che ella avrebbe continuato a versare le somme necessarie ad estinguere il debito contratto.
Lo spostamento della ragazza nel capoluogo piemontese, osservano, ancora, i giudici di merito, è intervenuto in un momento in cui la David era ormai sicura di avere il controllo su di lei, come dimostrato dalle condotte poste in essere sino al novembre del 2016, da sole idonee, comunque, ad integrare gli elementi costitutivi del reato in contestazione.
In ordine a tale, invero decisivo, aspetto, la Corte di appello ricorda che «le persone offese, come riferito dalle stesse (v. in particolare il verbale di denuncia di Daniel Hope Idoreyin del 18 settembre 2017), sono state costrette a svolgere l’attività di meretricio quotidianamente, dalle ore 10:00 alle 17:00 e dalle ore 21:00 alle 5:00 del giorno seguente» e che «dalle concordi dichiarazioni delle stesse emerge che la libertà di cui erano dotate era strettamente circoscritta agli spostamenti legati allo svolgimento dell’attività di prostituzione», atteso, vieppiù, che «una volta rientrate a casa, queste ultime, erano soggette a invadenti ispezioni, operate da parte della madama, finanche nelle parti intime, per verificare se vi nascondessero parte del denaro incassato».
Tanto autorizza la conclusione che gli spazi di autonomia lasciati alle ragazze fossero connaturati alle attività loro imposte sul territorio, non dovendosi, peraltro, dimenticare come la David, al fine di costringere le vittime a sottostare ai suoi diktat, non esitava a percuoterle, anche servendosi, all’uopo, di oggetti contundenti.
Resta, in tal modo, accertata la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso, con cui si è posto l’accento su emergenze fattuali — quali l’allontanamento di Hope, che si è rivolta alle forze dell’ordine, ed il trasferimento in Torino di Evelyn — in ordine alle quali i giudici di merito hanno offerto una spiegazione non manifestamente illogica né contraddittoria, avuto ulteriormente riguardo, quanto all’una, al fatto che il coraggio dimostrato nel sottrarsi alla condizione di soggezione alla David non esclude in alcun modo che ella, sino al compimento del provvidenziale atto di ribellione, è stata totalmente soggiogata dagli effetti dell’illecita attività posta in essere con il decisivo concorso dell’imputata, e, quanto all’altra, che il mutamento di domicilio non costituì l’espressione di una franca e stabile affrancazione dal vessatorio dominio di Osadebamwen David.
4. Le precedenti considerazioni conducono a sancire, del pari, la manifesta inammissibilità del secondo motivo di ricorso, con il quale la David si duole dell’applicazione, da parte dei giudici di merito, della circostanza aggravante prevista dall’art. 602-ter, primo comma, lett. b), cod. pen. che sancisce l’aumento della pena, da un terzo alla metà, nell’ipotesi, tra le altre, in cui i reati di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù siano «diretti allo sfruttamento della prostituzione».
L’obiezione difensiva — secondo cui l’obbligazione assunta dalle vittime aveva ad oggetto, in termini generali, la corresponsione di una somma di denaro, restando indifferenti, per l’imputata, le modalità attraverso le quali le giovani si sarebbero procurata la provvista occorrente per l’adempimento — ha, invero, trovato conveniente risposta nella sentenza impugnata, ove è stato chiarito (cfr., in particolare, le pagg. 17-18) che il compendio istruttorio è nitido nell’ascrivere alla David un contegno precipuamente inteso a costringere le vittime all’esercizio del meretricio quale ineluttabile, necessitata conseguenza della terribile condizione di privazione e svantaggio in cui le donne sono precipitate.
Il convincimento di essere destinatarie del sortilegio scaturito dal juju, ha, infatti, concorso con la totale carenza delle risorse morali, materiali e logistiche imprescindibili per intraprendere, in libertà, una nuova fase della loro esistenza sul suolo europeo e con le stringenti pressioni della David — la quale, oltre a sovrintendere, con l’apporto di marito e figlia, alla conduzione dell’attività di prostituzione ed a fornire, a tale scopo, ogni ausilio, non mancava di operare asfissianti controlli sulle persone offese — nel cagionare la forzata dedizione al meretricio che, per Evelyn, non è venuta meno dopo il trasferimento a Torino, essendosi ella affrancata solo nel momento in cui l’Oba di Benin City ha, finalmente, annullato il vincolo scaturito dal juju e rimesso il connesso debito.
La ricostruzione, in fatto, degli accadimenti di interesse processuale supporta, allora, ad onta di quanto affermato dalla ricorrente, l’assunto che vuole l’illecita restrizione degli spazi di autodeterminazione funzionale alla percezione di ingenti profitti dall’attività di prostituzione.
5. Manifestamente infondato è, altresì, il terzo ed ultimo motivo di ricorso, che attiene alla legittimità della motivazione addotta dalla Corte di appello per disattendere i motivi di impugnazione relativi alla responsabilità concorsuale di Osman e Kate Uwague nello sfruttamento della prostituzione.
I giudici di merito hanno, in proposito, ritenuto che l’uomo abbia consapevolmente fornito un contributo eziologicamente rilevante portando le vittima dai centri di accoglienza nei quali erano ospitate all’abitazione di Legnano, nonché ivi cooperando all’organizzazione del meretricio, tra l’altro accompagnandole, all’occorrenza, sul luogo di esercizio dell’attività, mentre la Uwague si è incaricata, nella contingente assenza della madre, di compiti di istruzione, vigilanza e riscossione dei compensi corrisposte alle ragazze dai clienti.
A fronte di un iter argomentativo lineare, coerente e fedele alle emergenze istruttorie, i ricorrenti introducono doglianze di tangibile aspecificità.
L’uno, in particolare, lamenta di non avere mai condotto le ragazze sul luogo di «lavoro», circostanza che, è bene ribadire, è invece affermata a pag. 20 della motivazione della sentenza impugnata, in quanto riferita da Hope Daniel nelle sommarie informazioni rese il 4 dicembre 2017, e non smentita aliunde.
L’altra segnala che, quando la David era ubriaca, le persone offese, per loro stessa ammissione, si sottraevano alla costrizione a prostituirsi, ciò che sarebbe logicamente incompatibile con l’assunzione, da parte sua, di un ruolo vicario di quello della genitrice; asserzione, questa, che, non essendo supportata dal prescritto corredo documentale — id est, dal verbale contenente tali dichiarazioni — pecca di mancanza di autosufficienza (in questo senso, cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 20677 del 11/4/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, dep. 2015, Savasta, Rv. 263601) e che, comunque, non giova alla causa della ricorrente, alla quale sono addebitati distinti comportamenti, perfettamente compatibili con gli episodi che le vittime avrebbero ricordato.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono i ricorsi devono essere, pertanto, dichiarati inammissibili.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale, rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3000,00 euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spesse processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 14/09/2021.
Depositato in Cancelleria, addì 3 febbraio 2022.