Caso Cucchi: la Cassazione ne scrive l’ennesimo capitolo, fu omicidio preterintenzionale (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 9 maggio 2022, n. 18396).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SABEONE Gerardo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere –

Dott. PISTORELLI Luca – Rel. Consigliere –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

Di Bernardo Alessio, nato a Venafro, il 7/8/19xx;

D’Alessandro Raffaele, nato a Villaricca, il 23/3/19xx;

Mandolini Roberto, nato a Roma, il 25/2/19xx;

Tedesco Francesco, nato a Brindisi, il 6/7/19xx;

avverso la sentenza del 7/5/2021 della Corte d’Assise d’appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Tomaso Epidendio, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi del D’Alessandro, del Di Bernardo e del Mandolini, nonché, con riguardo al Tedesco, per l’annullamento con rinvio della sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio e per il rigetto nel resto anche del suo ricorso;

uditi per le parti civili gli avv.ti Fabio Anselmo, Stefano Maccioni, Enrico Maggiore, Massimo Amoroso, Diego Perugini e Massimo Mauro che hanno concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;

uditi per gli imputati gli avv.ti Eugenio Pini, Lara Capitanio, Piero Frattarelli e Giosuè Bruno Naso, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi proposti nell’interesse dei rispettivi assistiti.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Assise d’appello di Roma ha confermato la condanna di Di Bernardo Alessio e D’Alessandro Raffaele per il reato di omicidio preterintenzionale pluriaggravato, nonché di Tedesco Francesco e Mandolini Roberto per il reato di falso ideologico pluriaggravato.

In parziale riforma della pronunzia di primo grado ed accogliendo l’appello del pubblico ministero, la Corte territoriale ha altresì escluso le attenuanti generiche in precedenza riconosciute nei confronti del Mandolini, del Di Bernardo e del D’Alessandro ed ha riconosciuto nei confronti degli ultimi due l’ulteriore aggravante dei futili motivi, originariamente contestata ai medesimi ed invece esclusa dal giudice di prime cure, provvedendo altresì alla conseguente rimodulazione delle pene irrogate ai menzionati imputati.

La vicenda, per come ricostruita dalla sentenza impugnata, riguarda la morte di Stefano Cucchi, il quale dopo essere stato arrestato il 16 ottobre 2009 per la cessione di sostanze stupefacenti, veniva accompagnato presso la stazione dei carabinieri di Roma Casilina per l’espletamento dei routinari rilievi fotosegnaletici e dattiloscopici.

Qui, a seguito di un diverbio insorto con uno dei militari a causa del suo rifiuto di sottoporsi ai suddetti accertamenti, l’arrestato veniva violentemente percosso dal Di Bernardo e dal D’Alessandro alla presenza del Tedesco.

A causa delle lesioni riportate nell’occasione e dell’aggravarsi delle sue condizioni, successivamente alla convalida del suo arresto, veniva disposto il trasferimento del Cucchi presso l’ospedale Pertini di Roma, dove decedeva a sei giorni di distanza dai fatti del 16 ottobre.

Quanto al collegamento causale tra la condotta contestata ai menzionati Di Bernardo e D’Alessandro e l’evento letale, la sentenza impugnata ha recepito l’impostazione accusatoria per cui le lesioni provocate alla vittima – ed in particolare la frattura scomposta di una delle vertebre sacrali con l’interessamento delle radici posteriori del nervo sacrale – hanno determinato l’insorgenza di una vescica neurogenica atonica ed anuria, con conseguente iperdistensione vescicale per l’elevata ritenzione urinaria, non risolta nel corso della degenza ospedaliera del Cucchi per l’insufficienza del drenaggio applicatogli.

Ne è conseguita una stimolazione vagale che ha accentuato la bradicardia giunzionale della vittima, fino a provocare l’aritmia individuata come causa ultima dell’exitus.

Con riguardo all’imputazione contestata al Mandolini ed al Tedesco, la Corte ha invece ritenuto provato che i suddetti imputati, nel redigere il verbale relativo all’arresto del Cucchi, abbiano attestato falsamente la rinunzia da parte del Cucchi alla nomina di un difensore di fiducia, omettendo invece di menzionare quanto realmente accaduto durante il tentativo fallito di effettuare i rilievi fotosegnaletici, nonché, soprattutto, la partecipazione del Di Bernardo e del D’Alessandro alle operazioni di arresto.

In particolare per i giudici del merito il Mandolini è stato l’autore materiale della condotta, mentre il Tedesco, nella consapevolezza del contenuto mendace del verbale, lo ha fatto proprio accettando di sottoscrivere l’atto come richiestogli dal suo superiore.

2. Avverso la sentenza ricorrono autonomamente tutti gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori.

2.1 Il ricorso proposto nell’interesse del Di Bernardo articola sette motivi.

2.1.1 Con il primo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito all’audizione disposta ai sensi dell’art. 507 c.p.p. nel dibattimento di primo grado dei periti che avevano proceduto nell’incidente probatorio a determinare le cause del decesso del Cucchi ed alla valutazione delle confliggenti conclusioni raggiunte dagli stessi nelle due differenti sedi.

In tal senso il ricorrente lamenta che la Corte d’Assise, invece di disporre una nuova perizia ed affidarla a soggetti diversi, ha irritualmente acquisito una nuova valutazione dai medesimi periti che avevano svolto gli accertamenti nella fase delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 392 c.p.p., peraltro non nelle forme della perizia, bensì limitandosi a raccogliere le loro inedite considerazioni in sede di esame dibattimentale.

Così facendo i giudici del merito avrebbero sostanzialmente sostituito la prova legittimamente assunta nell’incidente probatorio con una prova “nuova” e per l’appunto irritualmente assunta, senza tenere conto delle risultanze del precedente accertamento peritale, nel quale era stata esclusa qualunque collegamento causale tra i fatti accaduti dopo l’arresto del Cucchi e la sua morte.

2.1.2 Con il secondo motivo il ricorrente eccepisce la mancata assunzione di una prova decisiva in relazione al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale al fine di disporre una nuova perizia medico-legale sulle cause della morte del Cucchi.

In proposito si evidenzia come la Corte territoriale abbia giustificato il rigetto dell’istanza difensiva in ragione della superfluità di un nuovo accertamento, in quanto i periti, a distanza di anni, non potrebbero che richiamare le risultanze processuali già acquisite, argomentazione che sarebbe però smentita dallo stesso ribaltamento delle conclusioni operato dai periti nominati in precedenza nel presente procedimento.

E proprio il contrasto tra le valutazioni compiute da questi ultimi, rispettivamente, nell’incidente probatorio ed in dibattimento, avrebbe dovuto rendere evidente ai giudici del merito la necessità di acquisire un nuovo parere scientifico in relazione ad un punto assolutamente decisivo ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’imputato.

2.1.3 Con il terzo motivo vengono dedotti violazione di legge e vizi di motivazione in merito alla valutazione del compendio probatorio di riferimento, di cui viene altresì eccepito il parziale travisamento.

Anzitutto il ricorrente evidenzia come la ricostruzione del fatto svolta dalla Corte territoriale sia fondata soprattutto sulle dichiarazioni rese da Tedesco Francesco a quasi dieci anni di distanza. Dichiarazioni il cui contenuto non sarebbe stato correttamente valutato dai giudici del merito.

Infatti, il coimputato nel corso della sua deposizione dibattimentale ha riferito che, mentre si trovava con i propri colleghi presso la stazione carabinieri di Roma Casilina per svolgere le procedure di fotosegnalazione e di rilevamento delle impronte digitali di Stefano Cucchi, a seguito del rifiuto di quest’ultimo di sottoporsi a tali accertamenti era insorto un diverbio tra lo stesso e il Di Bernardo, con scambio reciproco di insulti seguito dal tentativo del primo di colpire con uno schiaffo il secondo.

Conseguentemente il D’Alessandro avrebbe telefonato al Mandolini per informarlo dell’accaduto e quest’ultimo avrebbe suggerito di soprassedere ai suddetti accertamenti, trattandosi di un cittadino italiano comunque identificato, e di rientrare.

Secondo il racconto del Tedesco, la discussione tra il Cucchi ed il Di Bernardo sarebbe però proseguita fino a che quest’ultimo avrebbe reagito alle offese del primo dandogli uno schiaffo ed una spinta, che faceva barcollare la vittima, mentre l’imputato veniva immediatamente bloccato dallo stesso Tedesco.

E’ a questo punto che, sempre per quanto narrato da quest’ultimo, sarebbe intervenuto il D’Alessandro, che avrebbe colpito la vittima assestandogli un calcio in zona sacrale e facendolo cadere a terra, da dove lo stesso Tedesco lo avrebbe aiutato a rialzarsi, venendo rassicurato sulle proprie condizioni dallo stesso Cucchi, il quale gli diceva di essere un “pugile” e di non preoccuparsi.

Di quanto accaduto sarebbe infine stato nuovamente informato telefonicamente il Mandolini, che avrebbe intimato per la seconda volta ai suoi sottoposti di rientrare alla stazione di appartenenza.

Dunque, dalle stesse dichiarazioni poste dalla Corte a fondamento della decisione impugnata, risulterebbe che la condotta dell’imputato avrebbe al più determinato una momentanea perdita di equilibrio del Cucchi, ma non la sua caduta al suolo, che sarebbe invece stata conseguenza dell’autonoma ed imprevedibile azione del D’Alessandro, della quale il Di Bernardo non potrebbe dunque essere chiamato a rispondere.

Ma sul punto la sentenza avrebbe altresì travisato le dichiarazioni del Tedesco, laddove si è spinta erroneamente ad affermare che questi avrebbe attribuito proprio al Di Bernardo anche la paternità di un calcio ricevuto dal Cucchi mentre si trovava già a terra e che invece il dichiarante ha riferito essere stato sferrato dal D’Alessandro. In secondo luogo, con riguardo all’attendibilità intrinseca del racconto del coimputato, il ricorso ne evidenzia la contraddittorietà, avendo egli affermato che “tutto” sarebbe accaduto mentre stavano lasciando la caserma di Roma Casilina, per poi precisare che, al momento in cui il Di Bernardo aveva colpito il Cucchi, lui era ancora seduto dietro un “banchetto” ed il D’Alessandro “stava chiudendo il computer”.

Non solo, risultando dalle dichiarazioni del teste Pagliuca la conferma che la permanenza degli imputati e della vittima nei locali della stazione di Roma Casalina non sarebbe durata più di dieci minuti, illogicamente, secondo il ricorrente, la Corte territoriale ha recepito acriticamente la ricostruzione della vicenda effettuata dal Tedesco, atteso che il suo articolato svolgimento, per come descritto da quest’ultimo, sarebbe incompatibile con il ristretto periodo di tempo indicato.

Quanto alla verifica dell’attendibilità estrinseca del medesimo racconto, i giudici del merito avrebbero omesso di considerare come dai tabulati telefonici e dalle dichiarazioni del Mandolini risulterebbe che la sera dei fatti egli ricevette una sola telefonata e non due, come invece riferito dal Tedesco.

Inoltre i giudici del merito avrebbero altrettanto illogicamente riscontrato le sue dichiarazioni attraverso quelle del teste Tarek, il quale ha affermato di aver raccolto le confidenze del Cucchi durante la detenzione di entrambi.

In tal senso questi gli avrebbe riferito di essere stato vittima di un pestaggio ad opera dei carabinieri durato “tutta la notte”, mentre, come detto, il Tedesco ha sostenuto che l’intero accesso alla caserma di Roma Casilina si era svolto in non più di dieci minuti.

Conseguentemente il racconto del coimputato, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, non troverebbe in quelle del succitato testimone alcun riscontro, divergendo le due dichiarazioni su di un punto decisivo.

Sottolinea poi il ricorso come sia solo il Tedesco a collocare il pestaggio all’interno della stazione di Roma Casilina, posto che il citato Tarek non ha fornito indicazione alcuna su chi fossero i carabinieri che avrebbero picchiato il Cucchi.

Illogicamente, dunque, la Corte non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione il fatto che la notte del pestaggio questi è transitato per ben tre caserme dell’Arma.

Infine del tutto illogica è per il ricorrente la valutazione frazionata operata dai giudici di merito delle dichiarazioni del Tedesco, giudicato attendibile quando accusa il Di Bernardo e il D’Alessandro del pestaggio del Cucchi ed assolutamente inattendibile laddove, cercando di discolparsi, nega invece di aver avuto consapevolezza del contenuto del verbale d’arresto sottopostogli per la firma dal Mandolini, tanto più che la Corte in proposito non avrebbe considerato che il dichiarante era stato originariamente imputato come concorrente nel reato di omicidio preterintenzionale e dunque non credibile avrebbe dovuto ritenersi anche la sua affermazione di estraneità all’azione violenta asseritamente perpetrata dai coimputati.

In tal senso la contraffazione del verbale d’arresto e l’omicidio sarebbero strettamente connessi ed impedirebbero dunque la suddetta valutazione frazionata.

2.1.4 Con il quarto motivo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla sussistenza del nesso di causalità tra la condotta addebitata all’imputato e la morte della vittima. In proposito viene anzitutto censurata l’omessa considerazione dell’allenamento di boxe sostenuto dal Cucchi la stessa sera dei fatti per cui si procede quale possibile causa delle lesioni dallo stesso riportate.

In secondo luogo il ricorrente lamenta la valutazione frazionata delle cause sopravvenute compiuta dai giudice del merito al fine di escluderne l’effetto interruttivo del nesso di causalità tra la condotta del Di Bernardo e l’evento morte.

Contravvenendo al significato della previsione dell’art. 41 comma 2 c.p., la sentenza impugnata, pur accogliendo le inedite conclusioni dei periti sul concorso di una pluralità di fattori nella determinazione del decesso della vittima, avrebbe invece considerato partitamente i comportamenti tenuti dagli altri militari successivamente all’azione dell’imputato, le negligenti condotte dei sanitari del nosocomio in cui il Cucchi era stato ricoverato, nonché lo stesso contegno oppositivo tenuto da quest’ultimo nel corso della sua degenza, giungendo alla conclusione che nessuno di questi accadimenti sarebbe stato di per sé solo sufficiente a cagionare l’evento.

La Corte avrebbe invece dovuto procedere ad una valutazione unitaria e congiunta dei fattori sopravvenuti, per stabilire se il loro concorso fosse stato in grado di interrompere il nesso causale per la sua abnormità e, dunque, la prevedibilità da parte del Di Bernardo della morte del Cucchi, altrimenti imputatagli a titolo di mera responsabilità oggettiva.

I giudici del merito avrebbero poi erroneamente applicato gli artt. 40 e 41 comma 2 c.p. anche per aver affermato la sussistenza del nesso di causalità senza però procedere alla comparazione tra lo specifico rischio generato dalla condotta dell’imputato e del D’Alessandro e quello invece attivato dalle condotte colpose accertate in separato giudizio a carico del personale medico che ha avuto successivamente in cura il Cucchi.

Posto che le lesioni originarie non avevano posto la vittima in pericolo di vita e sarebbero guarite in 180 giorni – secondo quanto indicato nello stesso capo d’imputazione – il ricorrente lamenta dunque che la Corte non i avrebbe correttamente valutato come i successivi comportamenti dei sanitari, pur innestandosi sulle conseguenze lesive originarie, abbiano comunque determinato un rischio totalmente nuovo ed autonomo, che ha indirizzato tali conseguenze verso un decorso inedito e letale. In realtà l’errore della Corte sarebbe ancor più rilevante, in quanto il rischio originariamente attivato dagli imputati era stato debellato.

Ed infatti se il decorso causale che ha portato al decesso del Cucchi avesse trovato il suo antecedente, come sostenuto in sentenza, nell’anomalo riempimento della vescica determinato dalla frattura in zona sacrale provocatagli dagli imputati, allora certamente la primigenia seria causale sarebbe stata interrotta dall’avvenuto svuotamento della vescica, non potendosi imputare al Di Bernardo quanto accaduto successivamente a seguito dei comportamenti imprudenti ed imperiti dei sanitari dell’ospedale Pedini.

2.1.5 Analoghi vizi vengono dedotti con il quinto motivo in merito all’affermata responsabilità concorsuale dell’imputato.

In particolare il ricorrente lamenta che in entrambe le sentenze di merito è stato affermato il concorso del Di Bernardo con il D’Alessandro nella consumazione dell’azione lesiva, senza giustificare però l’assunto e finendo per ridurre implicitamente il concorso di persone ad una mera sommatoria di influssi causali nella determinazione dell’evento del reato.

In tal senso viene ribadito come la pur deprecabile condotta dell’imputato sia stata anteriore ed indipendente rispetto a quella realizzata dal collega, nemmeno prevedibile, nonché finalizzata a stigmatizzare il comportamento del Cucchi e dunque diretta non a ledere, quanto piuttosto a rimproverarlo, seppure eccedendo nei mezzi.

La Corte non avrebbe, pertanto, dimostrato la volontà del Di Bernardo di collaborare con altri nella realizzazione del fatto tipico e la sua piena consapevolezza dell’altrui apporto e men che meno un invero inesistente previo concerto tra i due imputati.

2.1.6 Con il sesto motivo il ricorrente contesta, sotto il duplice profilo dell’erronea applicazione della legge penale e dei vizi di motivazione, la qualificazione giuridica attribuita al fatto, anche con riguardo alla configurabilità del concorso di persone nel reato, ribadendo come la condotta effettivamente addebitabile al Di Bernardo sarebbe soltanto quella di aver reagito al comportamento provocatorio della vittima colpendola con uno schiaffo ed allontanandola da sé con una spinta e come tale condotta sia autonoma e distinta da quella attribuita al D’Alessandro, del tutto imprevedibile per l’imputato nel contesto in cui si sono svolti i fatti.

Conseguentemente egli potrebbe essere ritenuto responsabile esclusivamente del reato di percosse o di lesioni, ma non di quello di omicidio preterintenzionale per cui invece è stato condannato.

2.1.7 Con il settimo ed ultimo motivo, infine, il ricorrente deduce ancora erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito al riconoscimento dell’aggravante dei futili motivi, alla commisurazione della pena, nonché al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche e di quella della provocazione.

Quanto al primo punto lamenta come correttamente il giudice di primo grado avesse escluso la contestata aggravante, valutando correttamente i motivi della reazione del Di Bernardo ed il contesto fattuale nel quale egli aveva agito, invece totalmente pretermessi dalla Corte territoriale.

Ed analogamente la riforma della statuizione relativa alle attenuanti generiche non avrebbe tenuto conto né delle circostanze valutate dal primo giudice, né della sua assoluta incensuratezza, né, infine, della diversa entità della condotta effettivamente addebitabile al Di Bernardo rispetto a quella attribuita al D’Alessandro, talchè l’equiparazione tra le due posizioni sarebbe illogica.

Certamente configurabile sarebbe poi l’attenuante della provocazione, integrata dalla condotta ostruzionistica tenuta dalla vittima per opporsi al compimento di atti propri del servizio cui l’imputato era deputato.

Del tutto irragionevole, alla luce di quanto osservato in precedenza, sarebbe poi l’entità della pena irrogata.

2.2 n ricorso proposto nell’interesse di D’Alessandro Raffaele articola cinque motivi.

2.2.1 Con il primo vengono dedotti violazione di legge e vizi di motivazione con riguardo alla ritenuta ammissibilità e fondatezza dell’impugnazione del pubblico ministero in merito al riconoscimento delle attenuanti generiche ed all’esclusione dell’aggravante dei futili motivi.

In proposito il ricorrente anzitutto eccepisce la violazione dell’art. 580 c.p.p., lamentando che la Corte territoriale, nel convertire in appello il ricorso della parte pubblica, non avrebbe proceduto al necessario giudizio di ammissibilità del medesimo secondo i parametri segnati dall’art. 606 c.p.p.

In secondo luogo viene dedotta la violazione dell’art. 593 comma 1 c.p.p., in quanto l’impugnazione doveva considerarsi, comunque, inammissibile atteso che non aveva ad oggetto una sentenza di condanna che aveva modificato il titolo di reato, escluso una aggravante ad effetto speciale ovvero applicato una pena di specie diversa da quella prevista per il reato ritenuto.

A seguito dell’omesso giudizio rescindente la Corte territoriale avrebbe comunque dovuto dichiarare inammissibile l’impugnazione del pubblico ministero in quanto, pur prospettando formalmente il vizio di erronea applicazione della legge penale, le censure effettivamente articolate o erano meramente assertive oppure erano volte a sollecitare la mera rivalutazione dei fatti e delle risultanze processuali poste a fondamento della decisione del giudice di primo grado di escludere la menzionata aggravante e di riconoscere invece le attenuanti generiche.

In ogni caso, viziata è per il ricorrente la motivazione con la quale il giudice dell’appello ha ribaltato tali statuizioni.

Illogicamente infatti la Corte territoriale avrebbe cercato di degradare a mero pretesto della reazione violenta dell’imputato la condotta marcatamente ostruzionistica tenuta dal Cucchi per opporsi all’espletamento da parte del D’Alessandro e dei suoi colleghi di un atto del proprio servizio, correttamente valorizzata dal primo giudice per escludere la menzionata aggravante.

Peraltro il giudice dell’appello avrebbe trascurato che lo stesso pubblico ministero impugnante aveva originariamente contestato agli imputati il reato di cui all’art. 571 c.p., ipotizzando dunque un eccesso nell’uso consentito dei mezzi di correzione o disciplina in aperto contrasto con la prospettazione della futilità dei motivi.

Quanto invece alle attenuanti generiche la sentenza non avrebbe tenuto conto dell’incensuratezza dell’imputato e del suo esemplare percorso professionale, valorizzando in maniera apodittica e distorta le circostanze prospettate dalla parte pubblica nella sua impugnazione.

2.2.2 Con il secondo motivo vengono dedotti violazione di legge e vizi di motivazione in merito al rigetto della richiesta di estromissione della parte civile Comune di Roma.

In proposito si osserva che, come eccepito sin dall’udienza preliminare, il danno determinato dal reato contestato all’imputato sarebbe connesso alla violazione del protocollo d’intesa intervenuto tra l’ente locale ed il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, il quale però è stato stipulato solo nel 2017 e dunque successivamente alla consumazione del reato medesimo.

Ne conseguirebbe il difetto di legittimazione del menzionato Comune a costituirsi parte civile nel presente processo, mentre la proposizione della relativa questione con i motivi d’appello, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dalla sentenza impugnata, doveva ritenersi tempestiva, in quanto riferita alla mancata dimostrazione del danno all’esito dell’istruttoria dibattimentale di primo grado.

2.2.3 Con il terzo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale, vizi di motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva con riguardo alla valutazione delle cause della morte di Stefano Cucchi.

Il ricorso lamenta che la Corte territoriale avrebbe assertivamente identificato nella condotta dell’imputato un ineliminabile antecedente causale dell’evento letale attraverso una arbitraria selezione delle risultanze medico-scientifiche acquisite al processo.

In tal senso i giudici dell’appello avrebbero anzitutto omesso di considerare le conclusioni della perizia assunta nell’incidente probatorio, in forza delle quali deve escludersi che le lesioni riscontrate sulla vittima possano essere considerate causa o concausa diretta o indiretta del decesso, per affidarsi apoditticamente alle incoerenti dichiarazioni rese in seguito dal perito nel dibattimento, peraltro orientate ad una ricostruzione dell’eziologia dell’evento in chiave condizionalistica e non tecnico-scientifica.

In realtà alcun elemento dimostrerebbe che la frattura sacrale riportata dal Cucchi, per la sua effettiva entità destinata a ricomporsi in poche settimane (e non già nei sei mesi indicati nel capo d’imputazione), sia all’origine delle successive difficoltà minzionali della vittima in assenza dell’evidenza di lesioni midollari o delle strutture nervose coinvolte nella minzione, mentre nella letteratura medica non esisterebbe comunque testimonianza alcuna di decessi per riflessi cardioinibitori o coronacostrittori innescati da sovradistensione vescicale, la cui eziogenesi nel caso di specie dovrebbe peraltro essere ricondotta all’ostruzione del catetere applicato al Cucchi nel corso della sua degenza ospedaliera.

Inoltre, nemmeno vi sarebbe prova che vi sia stata, come conseguenza ultima del “globo vescicale”, una ipoperfusione del miocardio, ipotesi che non troverebbe riscontro nell’esperienza clinica e nella letteratura scientifica, ma che, soprattutto, non avrebbe trovato conferma autoptica per la rilevata assenza di ischemia miocardica.

Evidenza quest’ultima che, accanto ad ulteriori indici clinici, condurrebbe a ritenere incoerente la possibilità di un’origine traumatica, ancorché mediata, dell’exitus.

Per converso, come dimostrato nel corso della loro deposizione dai consulenti della difesa, le evidenze cliniche, nonchè il fatto che il Cucchi fosse sottopeso e che nel corso del suo ricovero abbia sofferto di un ulteriore calo ponderale e di una importante disidratazione, sarebbero tutti elementi idonei a giustificare l’insorgenza dell’evento cardiaco aritmico che ha innescato l’insufficienza ventricolare acuta da cui è derivato un edema polmonare e, infine, la morte della vittima.

Tali logiche e documentate conclusioni sarebbero poi confortate dalle conclusioni della perizia eseguita nel giudizio d’appello del parallelo procedimento a carico dei sanitari dell’ospedale Pertini ed acquisita agli atti, che in maniera impropria la Corte territoriale avrebbe invece ritenuto una conferma della tesi della concausalità delle lesioni provocate al Cucchi nel processo eziologico che ha portato alla sua morte.

Il ricorrente sottopone a critica, altresì, la ricostruzione recepita in sentenza per cui le fratture vertebrali subite dalla vittima sarebbero conseguenza del violento calcio asseritamente assestatogli in zona sacrale dal D’Alessandro.

Sul punto la Corte territoriale non avrebbe considerato la deposizione del consulente tecnico dell’accusa, secondo il cui parere la morfologia delle menzionate lesioni sarebbe maggiormente compatibile con una caduta piuttosto che con l’impatto di un calcio.

In definitiva per il ricorrente l’individuazione dell’azione materiale attribuita all’imputato, quale antecedente mediato dell’evento mortale sarebbe frutto non già della rigorosa prova della sua concausalità, definita sulla base dei criteri fissati dalla nota sentenza Franzese delle Sezioni Unite, bensì di un mero giudizio di verosimiglianza, peraltro smentito da specifiche risultanze processuali di cui la Corte immotivatamente non avrebbe tenuto conto e che invece dimostrerebbero come l’evento letale non sia stato conseguenza di una condotta lesiva dolosa.

Ma anche qualora volesse accedersi alla tesi recepita dai giudici del merito, per cui la serie causale avrebbe avuto origine nell’evento lesivo del quale l’imputato sarebbe responsabile, secondo il ricorrente comunque gli stessi avrebbero erroneamente escluso l’interruzione del nesso eziologico in ragione della sopravvenienza di un fattore accidentale di carattere eccezionale, ossia l’ostruzione del catetere applicato ad un paziente ospedalizzato.

E che questo fattore abbia fatto deviare in maniera imprevedibile il decorso causale originario verso l’esito mortale non solo sarebbe dimostrato dalle risultanze medico-scientifiche richiamate in precedenza, ma risulterebbe altresì coerente ai più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di causalità, i quali, superando quelli obsoleti richiamati dalla sentenza impugnata, ricostruiscono l’ambito di operatività dell’art. 41 comma 2 c.p. sulla base della comparazione del rischio determinato dalla condotta primigenia e di quello attivato de fattori sopravvenuti.

Ingiustificate ed in contrasto con varie risultanze processuali sarebbero poi le affermazioni della Corte per cui il Cucchi non aveva sofferto da lungo tempo di crisi epilettiche e aveva condotto fino al giorno dei fatti una vita normale anche sotto il profilo dell’impegno fisico.

2.2.4 Analoghi vizi vengono dedotti con il quarto motivo in merito alla valutazione del compendio probatorio ed al mancato accoglimento delle richieste di rinnovazione istruttoria avanzate dalla difesa.

In tal senso viene anzitutto eccepita la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 178 lett. e) c.p.p., per la mancata escussione del consulente grafologico della difesa richiesta in entrambi i gradi di giudizio e per la mancata acquisizione della relazione del medesimo consulente allegata ad una memoria difensiva depositata nel corso del dibattimento primo grado.

In tal senso si osserva che contraddittoriamente la prova è stata ritenuta dalla Corte territoriale irrilevante perché relativa a fatti asseritamente oggetto di altro procedimento e segnatamente di quello relativo ai c.d. “depistaggi”, mentre è la stessa sentenza ad evocare gli episodi a cui l’accertamento tecnico si riferisce, ossia le dichiarazioni rese dal Tedesco sulla presunta manipolazione di alcune relazioni di servizio e dell’annotazione sul registro del fotosegnalamento.

Il ricorrente lamenta poi l’immotivato rigetto delle doglianze relative al mancato accoglimento nel giudizio di primo grado delle richieste istruttorie proposte, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., al fine di acquisire prove documentali idonee a smentire le dichiarazioni di alcuni testi (Carino, Rendina, Giovanni Cucchi, Casamassima e Rosati), nonché l’altrettanto immotivato rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale tesa all’assunzione delle medesime prove nel giudizio d’appello.

Sotto altro profilo viene poi denunziata l’omessa confutazione da parte della sentenza impugnata delle censure svolte con i motivi d’appello e volte a contestare l’attendibilità della teste Costanzo e l’effettivo significato delle sue dichiarazioni, nonché l’illogica valorizzazione come riscontro a quelle del Tedesco della testimonianza di Levanaj Arianit e di Gentjan Sulaj, i quali, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici del merito, non avrebbero per nulla escluso che il coimputato potesse essere uno dei carabinieri che il Cucchi aveva loro confidato averlo picchiato.

Indebitamente la Corte avrebbe poi tratto riscontro al racconto del Tedesco dalle dichiarazioni di Tarek Alaya e Capponi Pasquale, nonostante la presenza in atti di documentazione idonea a smentire che il primo sia stato ristretto nella medesima cella del Cucchi.

Parimenti con motivazione illogica la sentenza avrebbe fatto affidamento allo stesso fine sulle dichiarazioni del teste Lainà, omettendo di confrontarsi con le obiezioni sollevate dalla difesa in merito alla sua credibilità soggettiva ed alla genuinità del suo racconto.

Quanto alla ritenuta attendibilità del racconto del Tedesco, il ricorrente articola plurimi rilievi.

Anzitutto evidenzia come la Corte non abbia in alcun modo tenuto conto della tempistica delle sue rivelazioni, rilasciate solo a distanza di più di otto anni dai fatti nel corso del dibattimento di primo grado nel quale egli era coimputato per il reato di omicidio preterintenzionale, né dei continui aggiustamenti apportati al suo racconto – comunque confuso e contraddittorio – nel corso delle dichiarazioni rilasciate al pubblico ministero, prima, e nel dibattimento, poi, al fine di renderlo il più possibile aderente alla progressione delle emergenze processuali.

Ma la sentenza impugnata nemmeno avrebbe considerato la curiosa genesi di tali rivelazioni, conseguite alla denuncia, effettuata solo nel 2018 dal Tedesco, della scomparsa di una relazione di servizio che egli avrebbe redatto subito dopo la morte del Cucchi su consiglio di un collega e della cui esistenza non sarebbe stato acquisito alcun riscontro ed anzi sussisterebbero concreti dubbi in senso contrario, invero alimentati dalla deposizione della sorella del dichiarante e del tecnico asseritamente incaricato dallo stesso per recuperarne la bozza nel suo computer, nonché dalla grafia delle annotazioni rilevate nel fascicolo delle relazioni di servizio della caserma di Roma Appia e nel registro dei fotosegnalamenti e dalle reticenze in proposito serbate dallo stesso Tedesco nel corso della sua deposizione.

La sentenza non avrebbe poi considerato la contraddittorietà tra il narrato di quest’ultimo e la testimonianza del carabiniere Pagliuca, ossia il piantone della caserma Roma Casilina, ed avrebbe sostanzialmente travisato quella di Pocherio Rita in merito all’esito degli accertamenti compiuti sul citato registro in merito allo “sbianchettamento” dell’annotazione relativa al mancato fotosegnalamento del Cucchi.

La Corte territoriale avrebbe poi recepito acriticamente le incoerenti spiegazioni offerte dal Tedesco in merito ai motivi della sua tardiva collaborazione, peraltro smentite dagli esiti dell’istruttoria dibattimentale nella parte relativa al presunto atteggiamento minaccioso tenuto nei suoi confronti dal D’Alessandro e dal Di Bernardo.

Apodittica sarebbe, inoltre, l’elezione nel compendio accusatorio degli esiti delle operazioni di intercettazione, posto che per il ricorrente questi evidenziano, semmai, i tentativi del Tedesco di allontanare i sospetti dalla propria persona e di eludere l’attività di captazione e per converso rivelano la reale dinamica dei fatti consumatisi nella sala SPIS, come si evincerebbe dalle conversazioni intercettate tra i due imputati il 27 ed il 29 luglio 2015.

Ancora in maniera incoerente rispetto all’effettivo contenuto delle risultanze processuali sarebbe la valutazione da parte della Corte della deposizione della teste Carino, ex moglie del D’Alessandro, del suo attuale marito e della madre.

In proposito il giudice dell’appello, come eccepito in precedenza, avrebbe immotivatamente respinto le richieste istruttorie tese all’acquisizione di documentazione idonea a dimostrare il risentimento nutrito dalla Carino e dal Rendina nei confronti dell’imputato.

Non di meno la scarsa attendibilità delle loro dichiarazioni circa le presunte confidenze fatte alla prima dall’ex-marito ben emergerebbe comunque da svariate risultanze trascurate dalla Corte e soprattutto dall’intercettazione ambientale del 5 novembre 2015 da cui si è appreso di come la Carino abbia istruito la madre su cosa riferire in occasione della sua audizione da parte del pubblico ministero.

La teste avrebbe poi trovato ripetute smentite al suo tentativo di dipingere il D’Alessandro come soggetto aggressivo e violento, nonché di insinuare il suggestivo dubbio che il trasferimento del medesimo dopo la morte del Cucchi fosse dovuto alla consapevolezza dell’Arma sulle sue responsabilità.

Frutto di un vero e proprio travisamento sarebbe poi il rinvio alla sentenza di primo grado in merito alla valorizzazione delle dichiarazioni dei testi Casamassima e Rosati, le cui dichiarazioni sarebbero comunque inattendibili.

Infine erroneamente la Corte avrebbe affermato la configurabilità del reato di falso ideologico contestato al Tedesco ed al Mandolini in riferimento all’omessa menzione del D’Alessandro e del Di Bernardo nel verbale d’arresto, atteso che essi effettivamente intervenirono a supporto dei colleghi quando questi già avevano fermato il Cucchi.

2.2.5 Con il quinto ed ultimo motivo, infine, vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla qualificazione giuridica dei fatti ed alla configurabilità delle aggravanti di cui all’art. 61 nn. 5 e 9 c.p.

Quanto al primo profilo il ricorrente eccepisce come l’evidenziato difetto della prova di un collegamento causale tra la condotta dell’imputato e l’evento morte avrebbe imposto di qualificare la stessa sotto il titolo delle lesioni volontarie, nemmeno aggravate ai sensi dell’art. 583 c.p., atteso che l’ipotizzata prognosi di 180 giorni apoditticamente formulata dai periti contrasterebbe con quella di soli 25 giorni effettuata dai sanitari del pronto soccorso che ebbero modo di visitare la vittima nell’immediatezza dei fatti.

In realtà difetterebbe il dolo di percosse e lesioni in capo al D’Alessandro, essendo configurabile al più nei suoi confronti il delitto di abuso di mezzi di correzione o disciplina aggravato ai sensi dell’art. 571 comma 2 c.p. ovvero di quello di cui all’art. 586 c.p., in quanto la causazione delle lesioni sarebbe stata la conseguenza non voluta del reato di cui all’art. 608 c.p. originariamente contestato all’imputato e poi dichiarato prescritto già nell’udienza preliminare.

Con riguardo alle menzionate aggravanti, insussistente sarebbe la prima, posto che le buone condizioni fisiche e di salute di cui avrebbe goduto il Cucchi secondo la sentenza avrebbero dovuto portare i giudici del merito ad escludere che egli versasse in una situazione di minorata difesa.

Inconfigurabile sarebbe, invece, la seconda in quanto l’imputato non avrebbe agito ponendosi al di fuori dei compiti del proprio servizio. Infine, del tutto apodittica risulta per il ricorrente la motivazione della sentenza relativa alla commisurazione della pena, che nemmeno avrebbe confutato le richieste subordinate formulate dalla difesa.

2.3 Con il ricorso proposto nell’interesse del Mandolini vengono formulati sei motivi.

2.3.1 Con il primo motivo, parzialmente sovrapponibile a quello che apre il ricorso del D’Alessandro, si eccepiscono erronea applicazione della legge penale, violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta ammissibilità e fondatezza dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero avverso il riconoscimento in favore dell’imputato delle attenuanti generiche.

In proposito il ricorrente anzitutto lamenta che la Corte territoriale, nel convertire in appello il ricorso della parte pubblica, avrebbe sostanzialmente omesso il doveroso giudizio sulla sua ammissibilità, secondo i parametri di cui all’art. 606 c.p.p., ed avrebbe in ogni caso erroneamente ritenuto lo stesso ammissibile, nonostante le censure proposte fossero volte a sollecitare la mera rivalutazione degli elementi posti a fondamento della decisione del giudice di primo grado.

A seguito dell’omesso giudizio rescindente la Corte territoriale avrebbe comunque dovuto rigettare nel merito i motivi dedotti dalla parte pubblica fondati sull’asserita contraddizione tra il riconoscimento delle circostanze ex art. 62-bis c.p., al pari di quanto deciso in favore del Tedesco, e la valutazione del maggior ruolo che il ricorrente ha rivestito nella vicenda rispetto al coimputato.

Contraddizione in realtà insussistente, posto che tale ultimo elemento sarebbe stato comunque valorizzato dalla Corte d’assise per distinguere la posizione dei due imputati sul piano della comminatoria della sanzione ex art. 133 c.p.

2.3.2 Con il secondo, il terzo ed il quarto motivo si deducono erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito alla rilevanza delle asserite omissioni compiute nella redazione del verbale di arresto del Cucchi.

Anzitutto, i giudici dell’appello avrebbero confermato la responsabilità del Mandolini per la mancata menzione della partecipazione del Di Bernardo e del D’Alessandro alle operazioni relative all’arresto del Cucchi senza confrontarsi con lo specifico motivo d’appello sul punto e reiterando le gravi contraddizioni che già inficiavano la sentenza di primo grado.

In tal senso, quanto all’elemento rappresentativo del dolo, la sentenza impugnata in maniera meramente congetturale avrebbe concluso che l’imputato fosse a conoscenza della partecipazione dei due colleghi a tali operazioni.

In particolare, sul punto la Corte avrebbe omesso di considerare plurime e comprovate circostanze idonee a dimostrare il contrario e segnatamente che il Mandolini, la sera dell’arresto, non si era mai allontanato dalla stazione di Roma Appia, che egli era certamente a conoscenza della presenza dei soli Bazzicalupo, Tedesco ed Aristodemo e che i menzionati Di Bernardo e D’Alessandro erano comandati per un servizio da espletare in una diversa zona rispetto al luogo in cui venne intercettato il Cucchi dagli altri tre militari.

Con riguardo alla componente volitiva del dolo, il ricorso denuncia la contraddittorietà tra l’asserita intenzione dell’imputato di omettere nel verbale d’arresto il coinvolgimento del Di Bernardo e del D’Alessandro nella vicenda ed il fatto che gli stessi siano stati invece espressamente menzionati in altri due atti contestualmente redatti dall’imputato, ossia il verbale relativo alla perquisizione effettuata presso l’abitazione dei genitori del Cucchi ed alla presenza di quest’ultimo, nonchè il memoriale di servizio della Stazione Appia.

Atteso che, tanto nel corso dell’arresto, quanto durante la perquisizione, non era stata consumata alcuna violenza nei confronti del Cucchi, mal si comprenderebbe perché l’imputato avrebbe deciso di omettere selettivamente la partecipazione dei due militari solo nel secondo caso, tanto più che sarebbe stato agevole per lo stesso, in quanto redattore di entrambi gli atti, procedere allo stesso modo anche nel primo.

Quanto al memoriale, il valore probatorio dell’atto sarebbe stato erroneamente ridimensionato dalla Corte, che ne ha escluso la natura fidefaciente, con valutazione tuttavia incompatibile con la rilevanza non meramente interna dell’atto, dimostrata dall’utilizzo dello stesso per il calcolo delle ore lavorative dei militari in servizio e per la redazione delle buste paga.

In merito alla ritenuta sussistenza del delitto di falso, il ricorrente contesta poi la rilevanza dell’omessa menzione della resistenza opposta dal Cucchi mentre si trovava nei locali della stazione di Roma Casilina.

Tale accadimento, difatti, essendo avvenuto in un contesto di tempo e di luogo diverso rispetto a quello dell’arresto, sarebbe estraneo al contenuto tipico del verbale di arresto per come definito dall’art. 386 c.p.p.

L’irrilevanza dell’asserita lacuna sarebbe inoltre confermata dal fatto che, tutt’al più, la condotta del Cucchi avrebbe dovuto costituire l’oggetto di una autonoma denuncia da parte dei militari presenti, la cui omissione integrerebbe il diverso reato di cui all’art. 361 c.p.

Obbligo di denuncia comunque gravante, per l’appunto, sui carabinieri operanti e non certo sul Mandolini, che non aveva assistito all’arresto, né tantomeno a quanto successivamente accaduto all’interno della stazione di Roma Casilina.

In ultimo, risulterebbe comunque carente la prova della conoscenza, da parte dell’imputato, della condotta tenuta dal Cucchi all’epoca della redazione del verbale incriminato.

La prova difatti è stata ritenuta sulla base di due elementi:

il primo, consistente nelle intercettazioni tra il D’Alessandro e il Di Bernardo, che essendo coscienti di essere oggetto di intercettazione non possono essere ritenuti attendibili;

il secondo, relativo alla testimonianza del Tedesco nella quale egli dichiara di aver informato il Mandolini di quanto avvenuto nella stazione Roma Casilina, testimonianza tuttavia sul punto non riscontrata da altri elementi probatori e pertanto non valutabile ai fini della condanna.

Con il quarto motivo viene dedotta l’irrilevanza dell’affermazione, contenuta nel predetto verbale, che il Cucchi non avrebbe voluto nominare un difensore di fiducia all’atto dell’arresto, senza invece menzionare che egli in realtà avrebbe indicato il nominativo di un legale, tuttavia non rinvenuto nell’albo professionale. In primo luogo perchè tale circostanza, ritenuta dai giudici sia di primo che di secondo grado, confligge con la tesi accusatoria secondo cui il Cucchi avrebbe validamente nominato un difensore di fiducia.

In secondo luogo, in quanto la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria laddove ha ritenuto che i numerosi errori e refusi riscontrati nel verbale sarebbero imputabili alla stanchezza per le molte ore di servizio del suo redattore, nonchè all’ora avanzata ed alla fretta nella sua redazione e pur tuttavia abbia invece confermato la rilevanza penale dell’erronea rappresentazione della circostanza suindicata relativa alla nomina del difensore.

L’espressione usata dal Mandolini, difatti, oltre ad essere una formula usata normalmente nei verbali di arresto, sarebbe in particolare identica a quella usata nell’ultimo verbale redatto dall’imputato prima di quello relativo all’arresto del Cucchi, ciò a dimostrazione che essa è al più imputabile ad un refuso piuttosto che all’asserito tentativo di impedire che la vittima avesse un contatto con un legale di sua fiducia.

Il ricorrente, inoltre, evidenzia che anche a voler ritenere la astratta rilevanza penale della condotta posta in essere, la stessa integrerebbe un’ipotesi di falso innocuo, pertanto inoffensivo, posto che l’espressione usata, al pari di quella che secondo la tesi accusatoria sarebbe stata più corretta, avrebbero comunque portato allo stesso risultato, ossia alla nomina del difensore d’ufficio.

Non esisterebbe difatti una concreta differenza sul piano degli effetti tra la mancata nomina e la nomina di un difensore il cui nominativo non sia presente nell’albo degli avvocati. Infine, la difesa lamenta l’insussistenza del dolo relativa a tale asserita omissione, oggetto di espresso motivo di appello e con il quale la Corte non si sarebbe in alcun modo confrontata.

2.3.3 Con il quinto motivo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale, mancata assunzione di prova decisiva e vizi della motivazione in merito alla valutazione del compendio probatorio di riferimento e soprattutto delle dichiarazioni di Tedesco Francesco.

In proposito il ricorrente lamenta anzitutto l’assenza di validi riscontri individualizzati volti a corroborare le dichiarazioni accusatorie del Tedesco, sulla base delle quali, in particolare, si è ritenuto che il Mandolini sia stato reso edotto della resistenza posta in essere dal Cucchi nella caserma di Roma Casilina prima della redazione del verbale di arresto.

I giudici avrebbero, in primo luogo, valorizzato in tal senso le asserite pressioni esercitate dal ricorrente per ottenere la rettifica delle relazioni di servizio nelle quali i carabinieri Colicchio e Di Sano avevano descritto le condizioni fisiche del Cucchi, pressioni effettuate tramite una telefonata cui l’imputato avrebbe volutamente fatto assistere il Tedesco per intimorirlo.

Secondo quest’ultimo, il ricorrente avrebbe contattato il Luogotenente Labriola per ottenere la modifica delle summenzionate relazioni, ricevendo poco dopo la versione modificata secondo i suoi voleri.

Tale versione sarebbe stata acriticamente recepita da entrambe le corti di merito, travisando l’effettivo contenuto delle dichiarazioni del Labriola, dalla cui deposizione si evincerebbe invece che il Mandolini lo aveva contattato solo per sollecitarlo a inviare le relazioni di servizio quando le stesse non erano ancora state ultimate e che queste vennero trasmesse solo dopo diverse ore dal contatto telefonico nella loro versione originaria, che venne modificata — e mai trasmessa alla stazione di Roma Appia – solo successivamente e su pressione non già del Mandolini, bensì del Maggiore Soligo e del Colonello Cavallo, che, infatti, sono stati rinviati a giudizio per tale fatto, al contrario dell’imputato, la cui posizione è stata archiviata.

L’ulteriore presunto riscontro valorizzato dalla Corte territoriale sarebbe costituito dall’asserita sparizione della relazione che il Tedesco ha sostenuto di aver redatto successivamente al decesso del Cucchi e nella quale egli avrebbe fedelmente riportato gli avvenimenti del 16 ottobre 2009. Il ricorrente si duole in proposito dell’omessa confutazione delle numerose aporie rilevate nella versione del coimputato con i motivi d’appello, nonché dell’inadeguatezza della motivazione con la quale è stata rigettata la richiesta di acquisizione della consulenza grafologica disposta dalla difesa e volta a ricostruire la paternità dello scritto che avrebbe sostituito tale relazione nella carpetta della stazione Roma Appia destinata a contenerla.

Tale diniego, difatti, sarebbe stato motivato sulla base di assunti erronei, posto che i giudici, al fine di ritener superfluo l’accertamento invocato, hanno sostenuto che tale vicenda sarebbe oggetto del diverso procedimento riguardante i depistaggi (c.d. “Cucchi ter”).

Affermazione questa che tuttavia sarebbe smentita dalla mancata menzione della stessa nelle imputazioni formulate in tale procedimento, mentre l’assunzione del menzionato accertamento grafologico sarebbe stato idoneo ad avvalorare l’inattendibilità del racconto del Tedesco, dimostrando come sia stata proprio la mano di quest’ultimo a vergare la scrittura apposta per giustificare l’assenza della fantomatica relazione, della cui esistenza non sarebbe peraltro stata acquisita evidenza alcuna.

2.3.4 Con il sesto ed ultimo motivo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale, violazione di legge e vizi di motivazione in merito all’omessa confutazione del motivo d’appello relativo alla entità della provvisionale disposta dal giudice di primo grado in favore dei familiari di Stefano Cucchi in violazione del disposto di cui all’art. 539 c.p.p., attesa la mancata acquisizione della prova del quantum del pregiudizio subito dalle parti civili.

2.4 Anche il ricorso proposto nell’interesse del Tedesco articola sei motivi.

2.4.1 Con il primo il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla sussistenza dell’elemento materiale del reato di falso ideologico avente ad oggetto il verbale di arresto, articolando distinte censure in ordine ai differenti profili di falso — rispettivamente, di natura omissiva, commissiva e mista – nei quali secondo la sentenza impugnata si sarebbe articolata la condotta del Tedesco.

In particolare il ricorso sostiene in primo luogo che l’omessa menzione del D’Alessandro e del Di Bernardo nel verbale non possa essere interpretata, come erroneamente ritenuto dalla sentenza impugnata, strumentale all’occultamento del loro coinvolgimento nell’arresto del Cucchi, posto che i nominativi dei due militari risultano indicati nel verbale della perquisizione domiciliare effettuata presso la dimora del Cucchi, nonché nel memoriale di servizio prodotto in giudizio dalla difesa del Mandolini, mentre la partecipazione dei medesimi all’operazione era stata ammessa dallo stesso Tedesco nella sua deposizione nel corso del processo a carico degli agenti di polizia penitenziaria e dal Mandolini nelle sommarie informazioni rilasciate addirittura nell’ottobre del 2009.

Non di meno la Corte non avrebbe considerato che il D’Alessandro e il Di Bernardo non facevano parte della pattuglia che ha proceduto all’arresto, intervenendo in un momento solo successivo, giustificandosi così la loro mancata indicazione nel relativo verbale.

Inoltre, il ricorrente deduce che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto la condotta tenuta dal Cucchi idonea ad integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale e che, come tale, dovesse essere riportata nel verbale, senza invece considerare come la stessa non avesse un effettivo contenuto intimidatorio o violento e fosse invero stata realizzata a distanza di ore dall’arresto ed in luogo diverso da quello in cui questo è stato compiuto, risultando dunque priva di qualsivoglia nesso di implicazione necessaria con l’applicazione della misura precautelare.

Quanto all’omessa menzione della nomina del difensore di fiducia da parte del Cucchi, viene evidenziato che la Corte territoriale non avrebbe accertato ed adeguatamente motivato in ordine all’effettiva esternazione della volontà dell’arrestato di nominare un legale, nonché in merito alla consapevolezza del Tedesco della circostanza.

I giudici dell’appello avrebbero, poi, con motivazione carente e contraddittoria, escluso l’attendibilità dell’imputato, isolando la questione relativa alla ricostruzione dell’episodio relativo alla firma del verbale da tutte le precedenti positive valutazioni espresse in ordine alla sua piena attendibilità.

2.4.2 Col secondo motivo il ricorrente deduce analoghi vizi in merito alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato ed in particolare in merito alla consapevolezza da parte del Tedesco dell’immutazione del vero operata dal Mandolini nella redazione del verbale di arresto.

In tal senso lamenta il travisamento della deposizione dell’imputato, da cui emergerebbe che il Tedesco mai ha dichiarato di o essere stato intimidito dal Mandolini la notte in cui fu redatto il verbale di arresto, ma di aver subito pressioni per conformarsi alla linea stabilita dall’Arma solo in occasione della sua convocazione da parte del pubblico ministero e cioè molto tempo dopo.

Il ricorrente rileva, poi, che non sarebbe stato in nessun modo dimostrato che l’imputato abbia effettivamente letto il verbale di arresto, risultando dunque del tutto apodittica la motivazione della sentenza in merito alla sua presunta consapevolezza della falsità del suo contenuto, che peraltro omette di confutare i rilievi difensivi svolti sul punto con il gravame di merito.

In proposito viene altresì eccepito come la Corte non abbia considerato che il Tedesco venne convocato dal Mandolini per sottoscrivere non solo il verbale relativo all’arresto di Cucchi, ma molti altri verbali e che il primo in realtà conteneva evidenti errori e refusi, alcuni assai eclatanti, la cui mancata rilevazione sarebbe di per sè sintomatica del fatto che non era stato riletto, soprattutto dall’imputato.

Ed in tal senso i giudici del merito avrebbero altresì travisato il significato della reazione dell’imputato all’invito perentorio del Mandolini di firmare il verbale, in maniera apodittica interpretato come il tentativo di rifiutarsi di sottoscrivere un atto falso, quando invece all’evidenza costituirebbe la mera esitazione di aderire alla richiesta di firmare un atto senza averlo prima letto.

Esitazione superata in ragione dell’ordinario affidamento nei confronti del superiore gerarchico, dal quale non aveva ricevuto a quel momento alcun segnale di ostilità, e che costituirebbe il motivo per il quale il Tedesco non avrebbe in buona fede nutrito dubbi sulla fedeltà del verbale.

Ne consegue che erroneamente la Corte ha ritenuto integrato il dolo generico del reato, invece escluso da comportamenti meramente negligenti o dovuti, come nel caso di specie, a semplice leggerezza determinata da prassi consolidate.

2.4.3 Col terzo motivo il ricorrente denuncia erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla ritenuta configurabilità dell’aggravante teleologica.

Nello specifico, si eccepisce che il giudice dell’appello avrebbe dovuto escludere la suddetta aggravante, non potendosi ritenere che il Tedesco abbia agito al fine di procurare a sé, al Di Bernardo e al D’Alessandro l’impunità per i fatti contestati al capo A), tesi che sarebbe in aperta contraddizione con la ricostruzione storica dei fatti operata dall’accusa e recepita in entrambe le sentenze di merito.

Sul punto, sebbene sollecitata con il gravame di merito, la Corte avrebbe poi omesso di motivare la conferma delle conclusioni assunte dal giudice di primo grado.

2.4.4 Col quarto motivo vengono denunciati vizi di motivazione con riguardo alla conferma del giudizio di sola equivalenza tra le contestate aggravanti e le riconosciute attenuanti generiche.

In proposito si osserva che la Corte territoriale, nel valutare in maniera congiunta le impugnazioni di tutti gli imputati, avrebbe travisato l’oggetto di devoluzione arrivando in motivazione addirittura a negare in modo erroneo e contraddittorio le attenuanti già riconosciute dal giudice di primo grado.

Analoga censura viene formulata con riferimento alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena che sarebbe derivata dall’errore percettivo in cui sono caduti i giudici dell’appello con riguardo al giudizio di bilanciamento, omettendo così di considerare il motivo di impugnazione formulato in proposito.

2.4.5 Col quinto motivo si denunciano erronea applicazione della legge penale, violazione di legge e vizi di motivazione in merito alla condanna generica del Tedesco al risarcimento del danno in favore delle parti civili, agenti della polizia penitenziaria, Minichini, Santantonio e Dominici, assumendo che la Corte territoriale avrebbe dovuto escludere che i tre agenti potessero considerarsi persone offese del reato di falso ideologico di cui al Capo C) della sentenza impugnata dal momento che l’atto di cui si assume la falsità non sarebbe stato destinato a cagionare alcuna conseguenza concreta nella sfera giuridica di tali soggetti, essendo gli stessi del tutto estranei alla sfera di efficacia del verbale di arresto.

Nello specifico, il ricorrente rileva che la sentenza gravata, oltre ad avere una carente motivazione sul punto, non avrebbe considerato che i presunti danneggiati avrebbero omesso di dare prova del danno asseritamene subito e del nesso causale con la condotta effettivamente addebitata all’imputato.

2.4.6 Col sesto e ultimo motivo analoghi vizi vengono dedotti in riferimento alla condanna generica al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Calore Rita, Cucchi Giovanni e Cucchi Ilaria.

Anche in questo caso il ricorrente lamenta che in alcun modo sarebbe stato provato nella sua specificità il danno conseguito dal falso imputato al Tedesco, né la sentenza avrebbe fornito idonea motivazione sul punto.

Nello stesso motivo il ricorrente lamenta, altresì, che la condanna al risarcimento ed al pagamento della provvisionale in favore delle summenzionate parti civili, non avendo altrimenti specificato la Corte territoriale, parrebbe da intendersi come solidale e quindi in aperta violazione dell’art. 187 c.p., il quale prescrive la solidarietà passiva solamente nei casi di imputati per lo stesso reato, mentre il D’Alessandro e il Di Bernardo sono stati ritenuti responsabili del diverso reato di cui al capo A) e non già di quello contestato al Tedesco.

2.5 Infine, ai sensi dell’art. 612 c.p.p., il ricorrente formula istanza di sospensione dell’esecuzione della provvisionale stante la particolare entità delle somme liquidate a tale titolo in rapporto alle concrete disponibilità dell’imputato.

3. Il 23 marzo 2022 il Procuratore Generale ha depositato memoria con la quale ha confutato i motivi di ricorso.

In tal senso viene dedotta l’inammissibilità dell’eccezione proposta dalla difesa del D’Alessandro con riguardo alla costituzione di parte civile del Comune di Roma e della denunzia a più riprese da parte dello stesso D’Alessandro e del Di Bernardo del vizio di violazione di legge in merito al governo delle regole di valutazione della prova, nonché in merito alla mancata assunzione di una nuova perizia medico-legale.

La memoria inoltre evidenzia l’infondatezza ed a tratti l’inammissibilità delle critiche avanzate dagli stessi ricorrenti alla motivazione della sentenza in merito alla sussistenza del nesso di causalità tra le lesioni cagionate al Cucchi e il decesso del medesimo, all’attribuzione agli imputati delle condotte lesive, alla valutazione della chiamata in reità del Tedesco e del testimoniale valorizzato a riscontro della stessa.

Parimenti infondate, quando non inammissibili, sono per il PG anche le censure del Mandolini e del Tedesco sulla configurabilità del reato di falso ideologico ad oggetto il verbale di arresto del Cucchi e sulla responsabilità dei due imputati per tale fatto.

Con la memoria viene dunque richiesto il rigetto di tutti i ricorsi, tranne di quello del Tedesco limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

4. Il 21 marzo 2022 i difensori delle parti civili Ilaria Cucchi, Giovanni Cucchi e Rita Calore hanno depositato memoria congiunta.

I suddetti difensori contestano anzitutto l’ammissibilità delle doglianze proposte nell’interesse del Mandolini in merito alla facoltà del pubblico ministero di proporre ricorso avverso il riconoscimento delle attenuanti generiche per vizi di motivazione diversi dalla manifesta illogicità della medesima.

In secondo luogo, con riguardo alla ricostruzione delle cause della morte del Cucchi, eccepiscono la genericità delle censure proposte con il ricorso del D’Alessandro e comunque la loro manifesta infondatezza, evidenziando in proposito come la Corte territoriale non abbia per nulla pretermesso le conclusioni assunte dal collegio peritale nell’incidente probatorio e come tanto i periti, che la sentenza abbiano individuato la causa della lesione sacrale non già nel calcio sferrato dall’imputato, ma proprio nel violento impatto al suolo della vittima, esito finale della perdita di equilibrio e della caduta determinato dal pestaggio cui era stata sottoposta.

Alcun errore di valutazione probatoria sarebbe, poi, rinvenibile nel ragionamento sviluppato dai giudici del merito con riguardo al successivo decorso causale, avendo la sentenza logicamente valutato quanto riferito dai diversi periti e consulenti per escludere che la causa del decesso potesse essere identificata in una crisi epilettica.

Ed in definitiva quella che il ricorrente invocherebbe sul punto altro non sarebbe che una diversa valutazione del merito, peraltro fondata sull’incompleta disamina dei pareri scientifici raccolti nel corso del giudizio e su apodittiche affermazioni del difensore, non riscontrate attraverso la specifica indicazione di obiettive risultanze processuali.

Manifestamente infondate sarebbero inoltre le censure articolate anche con il ricorso del Di Bernardo in merito alla presunta omessa considerazione delle conclusioni formulate nella seconda perizia disposta nel parallelo procedimento a carico dei sanitari dell’ospedale Pedini.

Anzitutto i ricorrenti avrebbero illogicamente posto sullo stesso piano gli accertamenti peritali svolti nei due processi, non avendo tenuto conto della profonda diversità dei quesiti posti nelle diverse occasioni ai collegi peritali.

In secondo luogo anche la menzionata perizia, lungi dall’individuare in una sindrome da inanizione l’unica causa della morte del Cucchi, avrebbe evidenziato, al pari degli altri pareri scientifici assunti nel presente processo, che il decesso era stato cagionato da una molteplicità di fattori e che tra questi il calo ponderale e l’effetto bradicardizzante determinato dalla somministrazione di antidolorifici, certamente, erano da connettersi alle cause della sua ospedalizzazione, ossia le lesioni riportate a seguito delle condotte poste in essere dagli imputati.

Inammissibile sarebbe, altresì, il tentativo dei ricorrenti di individuare una causa unica sopravvenuta della morte del Cucchi, sostenendo che il difetto della prova certa dello shock vagale o i comportamenti negligenti del personale sanitario avrebbero interrotto il legame tra l’evento letale e la condotta lesiva.

Obiezioni che si fonderebbero ora sulla valorizzazione di irrilevanti cause preesistenti, ora sulla scorretta applicazione dei consolidati principi giurisprudenziali in merito alla rilevanza di quelle sopravvenute.

La sentenza, del resto, non avrebbe mai negato la polifattorialità nella causazione del decesso, ma ha al contempo ricostruito, coerentemente alle risultanze processuali, una catena causale che troverebbe indiscutibilmente la sua ineliminabile origine nelle lesioni provocate alla vittima.

Ed in tal senso tanto la presunta ostruzione del catetere, che il calo ponderale del Cucchi, come perfino l’eventualità – invero esclusa – di un improvviso attacco epilettico, correttamente non sono stati considerati fattori eccezionali ed imprevedibili in grado di spezzare il nesso eziologico tra la condotta degli imputati ed il decesso.

Quanto all’attribuzione delle condotte lesive al D’Alessandro ed al Di Bernardo, nonché al giudizio di attendibilità del Tedesco viene anzitutto denunziata l’aspecificità delle censure formulate dai ricorrenti e comunque l’ennesimo tentativo di sollecitare il giudice di legittimità ad una valutazione della mera persuasività della motivazione della sentenza impugnata ovvero di alternative ricostruzioni del significato del compendio probatorio di riferimento.

Ed in tal senso particolarmente inammissibile sarebbe il tentativo del Di Bernardo di isolare la propria condotta rispetto a quella del coimputato per sostenerne la sostanziale innocuità.

Manifestamente infondate o del tutto inidonee a scalfire la tenuta argomentativa della valutazione delle stesse compiuta dalla Corte territoriale sarebbero poi le obiezioni sollevate dai ricorrenti in merito alla credibilità dei testi valorizzati a riscontro del racconto del Tedesco, come anche gli ulteriori rilievi articolati a confutazione dell’attendibilità di quest’ultimo, frutto del travisamento di risultanze processuali o nuovamente di mere valutazioni di merito.

Ininfluente sarebbe poi l’accertamento teso a stabilire chi abbia obliterato l’annotazione sul registro SPIS relativa al mancato fotosegnalamento del Cucchi, circostanza rilevante esclusivamente nella sua oggettività. In maniera generica sarebbe stato inoltre denunziato il difetto di prova nei tabulati della telefonata che il Tedesco avrebbe fatto per avvisare il Mandolini di quanto accaduto, atteso che i ricorrenti non avrebbero precisato a quali tabulati sia riferita l’obiezione.

Analoghe considerazioni vengono riservate anche ai rilievi svolti sull’attendibilità del Tedesco con il ricorso del Mandolini, evidenziandosi in proposito l’irrilevanza nel presente processo dell’accertamento sull’identità di chi abbia eventualmente sottratto la relazione di servizio redatta dal coimputato, nonché la strumentalità delle obiezioni attinenti la telefonata del Mandolini aventi ad oggetto le relazioni di servizio dei carabinieri Colicchio e Di Sano, atteso che il Tedesco mai avrebbe riferito di aver preso cognizione del loro contenuto.

Quanto infine al verbale oggetto dell’imputazione di falso ideologico le censure del Mandolini sarebbero contraddittorie, avendo la sua difesa sostenuto che egli non aveva avuto contezza della partecipazione del Di Bernardo e del D’Alessandro all’arresto, ma ha poi eccepito quanto annotato in senso contrario nel memoriale di servizio al fine di esclude la volontarietà del falso.

Con riguardo all’ulteriore argomento tratto dalla menzione dei due imputati nel verbale di perquisizione, si osserva come la circostanza non sarebbe idonea ad escludere la sussistenza del reato, posto che l’atto investigativo venne posto in essere alla presenza della madre del Cucchi, la quale dunque avrebbe potuto testimoniare sulla presenza dei suddetti militari.

Generiche sarebbero poi le censure relative alla omessa registrazione nel verbale dell’intenzione del Cucchi di nominare un difensore di fiducia, poiché prive del confronto con le numerose risultanze processuali che confermerebbero la circostanza.

Manifestamente infondata sarebbe poi l’obiezione per cui correttamente il verbale d’arresto non riporterebbe quanto accaduto durante le fasi del fotosegnalamento, in quanto adempimenti successivi all’applicazione della misura precautelare, posto che la necessità di descrivere quanto accaduto discendeva proprio dal fatto che è lo stesso verbale a menzionare – peraltro falsamente – che il Cucchi sarebbe stato identificato a seguito dell’esecuzione dei rilievi fotosegnaletici.

Infine, inammissibili sarebbero anche i motivi proposti dagli imputati in merito al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche, alla sussistenza dell’aggravante dei futili motivi ed all’entità della provvisionale al cui pagamento il Mandolini è stato condannato.

5. In data 15 marzo 2022 è stata depositata memoria sottoscritta personalmente dall’imputato Tedesco Francesco e in data 30 marzo 2022 ulteriore memoria a firma dei suoi difensori, con la quale questi ultimi a confutazione della memoria del PG ribadiscono come la mera sottoscrizione del verbale di arresto, in assenza di ulteriori elementi idonei a comprovare la consapevolezza da parte dell’imputato della falsità del suo contenuto, non può integrare da sola la prova del dolo richiesto per la sussistenza del reato contestatogli.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi proposti nell’interesse del Di Bernardo e del D’Alessandro sono nel loro complesso infondati.

2. Pregiudiziale è l’esame del secondo motivo del ricorso del D’Alessandro, che è comunque inammissibile.

2.1 Per il consolidato insegnamento di questa Corte, ai sensi del combinato disposto degli artt. 79, 80, 484 e 491 c.p.p., la richiesta motivata di esclusione della parte civile, nel caso di costituzione avvenuta nella o per l’udienza preliminare, deve essere proposta dal pubblico ministero, dall’imputato o dal responsabile civile, a pena di decadenza, nella fase degli atti introduttivi al dibattimento, subito dopo la verifica della regolare costituzione del rapporto processuale, mentre, se la costituzione della parte civile avviene nel corso degli atti preliminari al dibattimento o introduttivi dello stesso, la richiesta deve essere proposta nella fase delle questioni preliminari (ex multis Sez. 3, Sentenza n. 15768 del 18/02/2020, 0., Rv. 280264).

La richiesta deve essere decisa immediatamente e, qualora venga rigettata, l’ammissione della costituzione di parte civile non può essere in seguito contestata né nel prosieguo del dibattimento, nè in sede di impugnazione (ex multis Sez. 3, Sentenza n. 24677 del 09/07/2014, dep. 2015, Busolin, Rv. 264113).

2.2 Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile la richiesta proposta con i motivi d’appello di estromettere la parte civile Roma Capitale per carenza di legittimazione.

Ed infatti al ricorrente era preclusa l’impugnazione dell’ordinanza di ammissione delle parti civili, come detto di per sé inoppugnabile, mentre egli avrebbe semmai dovuto eventualmente appellare il capo della sentenza di primo grado relativo alla condanna generica dell’imputato al risarcimento del danno in favore della summenzionata parte civile, lamentando il difetto della prova dell’effettiva causazione di tale danno.

Come detto però non era questo il contenuto dell’eccezione proposta con il gravame di merito, con la quale invece e per l’appunto è stata formalmente rinnovata la richiesta ex art. 80 c.p.p.

Per mero desiderio di completezza deve peraltro osservarsi che la suddetta parte civile, nell’atto di costituzione, ha prospettato ulteriori profili di legittimazione rispetto a quello contestato dalla difesa con i motivi d’appello, che, pertanto, sul punto erano comunque inammissibili per difetto di specificità.

3. Inammissibile è anche l’eccezione proposta con il primo motivo del ricorso del Di Bernardo.

3.1 Anzitutto il ricorrente prospetta il vizio di violazione di legge ex art. 606 lett. b) c.p.p., disposizione che consente di dedurre tale vizio con esclusivo riguardo all’erronea interpretazione o applicazione della legge penale sostanziale e non già di quella processuale (ex multis Sez. 3, n. 8962 del 3 luglio 1997, Ruggeri, Rv. 208446; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 268404).

Né l’evocazione, quali terminali della prospettata violazione di legge, degli artt. 392, 507, 603 e 431 comma 1 lett. e) c.p.p. è sufficiente a sanare l’erronea qualificazione del vizio eccepito, posto che l’inosservanza di alcuna delle disposizioni citate è prevista a pena di nullità o inutilizzabilità, quantomeno con riguardo al profilo eccepito, come invece richiesto dall’art. 606 lett. c) c.p.p. per la deduzione del vizio di violazione di legge processuale.

In tal senso deve dunque concludersi che l’eccezione è stata formulata in maniera generica, non precisando quale sarebbe la violazione sanzionata da una specifica disposizione processuale nei termini previsti dalla norma da ultima citata.

Né vale in senso contrario la qualificazione del vizio dedotto operata dal ricorrente come error in iudicando in iure ai sensi della lett. b) dell’art. 606 c.p.p., posto che tale disposizione, per consolidato insegnamento di questa Corte, riguarda solo l’errata applicazione della legge sostanziale, pena, altrimenti, l’aggiramento del limite (posto dalla citata lett. c) dello stesso articolo) della denunciabilità della violazione di norme processuali solo nel caso in cui ciò determini una invalidità (ex multís Sez. 3, n. 8962 del 3 luglio 1997, Ruggeri, Rv. 208446; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 268404).

3.2 L’eccezione è comunque manifestamente infondata.

Disponendo una nuova audizione dei periti i giudici del primo grado non hanno, infatti, provveduto in alcun modo a “sostituire” la prova assunta nell’incidente probatorio, che ha continuato a far parte della piattaforma cognitiva, ma più semplicemente ne hanno approfondito il contenuto, esercitando un potere riconosciutogli dalla legge processuale in funzione della garanzia del controllo sulla completezza del compendio probatorio su cui deve fondarsi la decisione ed, ovviamente, senza poter prevedere l’esito della nuova audizione.

Ed infatti questa è stata disposta non già per esplorare ipotesi diverse da quelle che avevano formato oggetto delle loro originarie conclusioni, bensì proprio al fine di fargli precisare queste ultime per consentire al giudicante di valutarne il significato alla luce dell’assunzione nel dibattimento dell’intero compendio probatorio.

D’altra parte gli unici limiti all’esame dibattimentale dei soggetti uditi nell’incidente probatorio sono quelli segnati dall’art. 190-bis c.p.p., che all’evidenza non ricorrevano nel caso di specie.

Pertanto né il giudice di primo grado, né quello d’appello avevano l’obbligo di disporre una nuova perizia invece di fondare le rispettive decisioni anche sulle dichiarazioni rilasciate dai periti nel dibattimento.

Generica è invece la deduzione degli asseriti vizi di motivazione in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel respingere la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

4. Parimenti inammissibile è il secondo motivo del ricorso del Di Bernardo.

Il ricorrente censura nuovamente la decisone del giudice d’appello di non rinnovare l’istruttoria dibattimentale per disporre una nuova perizia medico-legale, questa volta sotto il profilo della mancata assunzione di una prova decisiva ex art. 606 lett. d) c.p.p.

Va allora ribadito che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi della disposizione da ultima citata, in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice (Sez. U, Sentenza n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936).

Nel giudizio di appello, poi, la rinnovazione di una perizia può essere disposta solo se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, ed il rigetto della relativa richiesta, se logicamente e congruamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità, trattandosi di un giudizio di fatto (ex multis Sez. 1, Sentenza n. 11168 del 18/02/2019, Caratelli, Rv. 274996).

Come già rilevato in precedenza, le censure mosse alla motivazione della sentenza sul punto con il primo motivo risultano generiche, anche perché non si confrontano compiutamente con la stessa.

Infatti, la Corte ha considerato superfluo un nuovo accertamento peritale non solo per le ragioni criticate, ma anche perché ha ritenuto — conformemente a quanto osservato nella sentenza di primo grado – che i periti originariamente nominati non abbiano, come invece asseritamente eccepito, radicalmente “ribaltato” nel dibattimento le loro conclusioni, avendo sempre prospettato l’eventualità di una genesi multifattoriale della morte del Cucchi.

5. Venendo al terzo motivo del ricorso del Di Bernardo, deve anzitutto essere dichiarata inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 606 lett. b) c.p.p. in merito alla gestione delle regole di valutazione della prova poste dall’art. 192 c.p.p.

In proposito va nuovamente ribadito, infatti, che l’inosservanza della suddetta disposizione non è prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come richiesto dall’art. 606 lett. c) c.p.p. ai fini della deducibilità della violazione di legge processuale (ex multis Sez. 3, n. 44901 del 17 ottobre 2012, F., Rv. 253567; Sez. 3, n. 24574 del 12/03/2015, Zonfrilli e altri, Rv. 264174; Sez. 1, n. 42207/17 del 20 ottobre 2016, Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191; Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027).

Né, come già ricordato, il limite posto dalla legge per la deduzione di un vizio di natura processuale può essere aggirato, come invece ha cercato di fare il ricorrente, qualificandolo ai sensi della lett. b) dell’art. 606 c.p.p., posto che tale disposizione, per consolidato insegnamento di questa Corte, riguarda per l’appunto solo l’errata applicazione della legge penale sostanziale.

6. Ciò premesso, le doglianze invece avanzate ai sensi dell’art. 606 lett. e) c.p.p. con il motivo in esame sono infondate o inammissibili.

6.1 Invero inammissibile sotto diversi profili è l’obiezione per cui il Di Bernardo sarebbe stato erroneamente ritenuto responsabile dell’intero catalogo delle percosse e delle lesioni subite dalla vittima, potendo invece egli essere chiamato a rispondere esclusivamente per lo schiaffo e la spinta in cui si è concretizzata la condotta materiale effettivamente addebitatigli, rimanendo la stessa autonoma rispetto a quella, del tutto imprevedibile per l’imputato, posta in essere successivamente dal D’Alessandro.

In primo luogo, in tal modo, il ricorrente prospetta un vizio di motivazione in riferimento ad un punto della decisione di primo grado che non era stato previamente devoluto al giudice dell’appello con il gravame di merito, sollevando indebitamente e in maniera inedita in questa sede la questione della configurabilità del concorso dei due coimputati nella causazione dell’evento.

Sotto un diverso aspetto deve invece osservarsi come la doglianza sia frutto di una interpretazione soggettivamente orientata della descrizione della dinamica dei fatti svolta dal Tedesco, tesa a sollecitare questa Corte ad una altrettanto indebita rivalutazione del compendio probatorio di riferimento, senza però individuare effettivi profili di manifesta illogicità o incoerenza con il narrato del dichiarante nella lettura che la Corte ne ha fornito.

Ancora una volta per mero desiderio di completezza corre poi l’obbligo di evidenziare come la dilatazione e la scansione del tempo in cui si è consumata l’intera azione lesiva conclusasi con il rovinoso impatto con il pavimento del Cucchi proposta dalla difesa non trova un effettivo riscontro nel contributo dichiarativo del Tedesco, per come riportato in sentenza e nello stesso ricorso. Sul punto, peraltro, si tornerà più diffusamente in seguito, trattando del quinto e del sesto motivo di ricorso.

6.2 Fondata è invece l’obiezione per cui la Corte territoriale, travisando le dichiarazioni del Tedesco sul punto, avrebbe erroneamente attribuito al Di Bernardo la paternità del calcio sferrato invece dal D’Alessandro quando il Cucchi era a terra in un passaggio della motivazione della sentenza impugnata.

In effetti a p. 37 della stessa, laddove si tratta dell’impugnazione del pubblico ministero, sussiste l’errore censurato dal ricorrente, che, però, all’evidenza si rivela essere un mero lapsus calami, inidoneo ad integrare il vizio di travisamento della prova denunziato con il ricorso.

Infatti, nell’affrontare il tema della responsabilità dei due imputati, la Corte, non solo ha compiutamente riportato le effettive dichiarazioni del Tedesco, ma ha ricostruito la dinamica dei fatti secondo il loro corretto significante, non essendovi dunque dubbio che per i giudici dell’appello l’autore del calcio sia stato proprio il D’Alessandro e che le conseguenti valutazioni siano state assunte sulla base di tale presupposto.

6.3 Nuovamente inammissibili sono invece le censure relative alla valutazione compiuta dai giudici del merito sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del Tedesco.

Quanto alla genesi delle sue rivelazioni, quelle agitate dal ricorrente sono mere illazioni, che peraltro non si confrontano con la motivazione della sentenza, che al tema ha dedicato articolate considerazioni.

Del tutto apodittiche sono poi quelle relative all’incompatibilità tra la durata della permanenza dei protagonisti della vicenda nella sala SPIS della stazione di Roma Casilina e lo svolgimento dei fatti descritti dal Tedesco nella loro interezza considerati, posto che non viene dimostrato, ma solo affermato, che gli stessi non potrebbero essersi consumati nell’arco dei dieci minuti circa indicati dal teste Pagliuca.

Generica è anche l’obiezione per cui il Tedesco sarebbe stato smentito in ordine alla seconda telefonata effettuata per avvisare il Mandolini di quanto accaduto, posto che il ricorso non precisa a quali tabulati ed a quali dichiarazioni (visto che il coimputato mai ha deposto nel presente processo) la doglianza faccia riferimento.

Manifestamente infondato e generico è l’ulteriore rilievo concernente l’attitudine delle dichiarazioni del Tarek a fornire un riscontro a quelle del Tedesco, posto che logicamente la Corte ne ha apprezzato l’indicazione, proveniente dal Cucchi, per cui questi era stato picchiato dai “carabinieri”.

Che avesse aggiunto di essere stato picchiato per “tutta la notte” – come pure riportato dal teste – non è discrasia idonea ad inficiare la tenuta logica della conclusione cui sono approdati i giudici del merito, ossia che il Cucchi avesse voluto far riferimento proprio all’episodio narrato dal Tedesco, posto che la stessa è stata correttamente raggiunta attraverso una valutazione unitaria delle confidenze riportate da tutti i soggetti arrestati o detenuti con cui egli ha interloquito sia al Palazzo di Giustizia di Roma, sia nel carcere di Regina Coeli, alcune delle quali idonee ad assurgere a veri e propri riscontri individualizzanti, e che invece il ricorso ha sostanzialmente ignorato.

6.4 Non corrisponde al vero, inoltre, che la sentenza non abbia saputo riscontrare l’affermazione del Tedesco per cui il pestaggio sarebbe avvenuto nel frangente in cui il Cucchi era stato accompagnato alla stazione di Roma Casilina.

Infatti, nel ricostruire sulla base dell’intero compendio probatorio di riferimento l’integrale sviluppo di quanto accaduto nella notte del 16 ottobre 2009, la Corte ha sottolineato come al momento della perquisizione domiciliare, alla presenza dei suoi genitori, il Cucchi non presentasse evidenze di essere stato sottoposto a violenze di alcun genere, mentre, per come riferito dal teste Colicchio, al momento del suo ingresso nella caserma di Tor Sapienza, reduce dal passaggio effettuato in quella di Roma Casilina dove era stato condotto al termine della perquisizione, accusava forti dolori, tanto da rendere necessario l’intervento del 118, il cui personale riscontrava segni palesi dei colpi ricevuti dalla vittima al volto.

La sentenza ne ha quindi desunto che il pestaggio non può che essere avvenuto nei locali della stazione di Roma Casilina, esattamente come riferito dal Tedesco.

Conclusione questa che deve ritenersi logica e coerente alle risultanze esposte, ma soprattutto non confutata dal ricorso.

6.5 Infondate infine sono le censure relative alla valutazione sulla frazionabilità delle dichiarazioni del Tedesco.

Per il costante insegnamento di questa Corte di legittimità è del tutto ammissibile la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie, quando le parti del narrato ritenute veritiere, reggano alla verifica giudiziale del riscontro, ove necessario, e non sussista interferenza fattuale e logica – ossia un rapporto di causalità necessaria o di imprescindibile antecedenza logica – con quelle giudicate inattendibili, tale da minare la credibilità complessiva e la plausibilità dell’intero racconto (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 25940 del 30/06/2020, M., Rv. 280103; Sez. 4, Sentenza n. 21886 del 19/04/2018, Cataldo, Rv. 272752).

Non è dunque la connessione giuridica tra i fatti oggetto delle diverse dichiarazioni del dichiarante, come dimostra di credere il ricorrente, a costituire il presupposto che esclude la legittimità della valutazione frazionata delle sue dichiarazioni, bensì l’interferenza fattuale e logica tra queste ultime, che possono avere ad oggetto anche fatti penalmente irrilevanti e comunque non giuridicamente connessi ai sensi della legge processuale.

Ed in tal senso è da escludere che la negazione da parte del Tedesco di aver preso contezza dell’effettivo contenuto del verbale di arresto del Cucchi al momento in cui l’ha sottoscritto sia in rapporto di logica interdipendenza con il suo racconto di quanto avvenuto nei locali della stazione di Roma Casilina.

Si tratta, infatti, di dichiarazioni che hanno ad oggetto episodi che, seppure iscrivibili nell’ambito di un’unica vicenda, presentano una loro autonomia ed una propria identità spazio-temporale, talchè l’eventuale inattendibilità dell’una non comporta necessariamente anche quella dell’altra, tanto più che nel suddetto verbale non vi era alcun riferimento nemmeno parziale a quanto avvenuto nella sala SPIS.

Per il resto, la sentenza ha fornito ampia giustificazione della propria valutazione e delle ragioni per cui ha ritenuto veritiere le accuse mosse nei confronti del D’Alessandro e del Di Bernardo in quanto riscontrate da plurime e indipendenti fonti probatorie, mentre ancora una volta il ricorso con tale apparato giustificativo non si è confrontato.

7. Il quarto motivo di ricorso del Di Bernardo è infondato ed a tratti inammissibile.

7.1 Generiche sono, invero, le doglianze relative all’omessa considerazione, quale possibile causa delle lesioni riportate dal Cucchi, del fatto che egli la sera dell’arresto avesse sostenuto un allenamento di kick-boxing. Il ricorrente, infatti, non indica alcuna evidenza, eventualmente trascurata dalla Corte in grado di dimostrare che nel corso dell’allenamento egli abbia subito un qualsiasi infortunio compatibile con la lesione sacrale successivamente riscontrata o anche solo che quella sera egli abbia svolto attività di contatto piuttosto che di altro genere.

Per contro la sentenza, rimasta del tutto incontestata sul punto, ha precisato come successivamente all’allenamento e prima del suo accesso alla stazione di Roma Casilina alcuna delle persone che lo hanno incontrato – dai suoi genitori, ai carabinieri che hanno proceduto al suo arresto – abbiano evidenziato segni di sofferenza compatibili con la suddetta lesione, traendone implicitamente ed in maniera logica la convinzione dell’irrilevanza del citato allenamento.

7.2 Infondate sono invece le critiche mosse alla sentenza in merito all’accertamento del nesso causale tra le lesioni riportate dal Cucchi e la condotta addebitata all’imputato.

La sentenza impugnata, come già quella di primo grado, ha ricostruito l’intera catena causale che ha portato al decesso del Cucchi, riconducendone l’origine alla condotta tenuta in concorso dal Di Bernardo e dal D’Alessandro, ma riconoscendo che l’evento finale è stato determinato anche dal concorso di una pluralità di fattori sopravvenuti, la cui sinergia, con quella che ha identificato come la causa primigenia, ha ritenuto aver favorito il processo degenerativo esitato nello scompenso cardiaco risultato fatale alla vittima.

In particolare, la Corte, sulla base dell’evidenza disponibile, ha accertato anzitutto che le percosse inflitte dai due imputati al Cucchi ne abbiano determinato la caduta ed il violento impatto con il pavimento, stabilendo che quest’ultimo ha provocato la frattura della vertebra sacrale, poi identificata come l’innesco del successivo decorso causale.

7.3 Come detto i giudici del merito non hanno escluso – ed anzi hanno affermato – che nel caso concreto la struttura della spiegazione causale sia complessa e possa contemplare anche le negligenti omissioni dei sanitari ed il progressivo indebolimento dell’organismo del Cucchi determinato dalla prolungata carenza di alimentazione e di idratazione (mal si comprende invece a cosa si sia voluto riferire il ricorso, attesa la sua genericità sul punto, evocando tra le cause sopravvenute le condotte tenute «dagli altri militari» successivamente all’intervento del Di Bernardo).

Più semplicemente hanno evidenziato come tali circostanze non solo non possano ritenersi indipendenti dall’azione dell’imputato, ma altresì non abbiano effettivamente deviato l’originaria serie causale, avendone semplicemente favorito o accelerato il decorso evitando di impedirne lo sviluppo, costituendo in tal senso mere concause dell’evento.

In altri termini, la Corte territoriale ha escluso che l’omissione, da parte di soggetti diversi dal Di Bernardo e dal D’Alessandro, dell’intervento che avrebbe in ipotesi potuto evitare la progressione della serie causale dagli stessi innescata, possa costituire causa sopravvenuta da sola sufficiente ad interrompere il rapporto condizionalistico tra la loro condotta e l’evento finale.

7.4 Ed in tal senso le conclusioni dei giudici del merito risultano in linea con l’insegnamento di questa Corte per cui il collegamento causale tra l’azione lesiva imputata e l’evento che ne è derivato non è interrotto dalla intermedia omissione della condotta che sarebbe stata in ipotesi idonea ad evitare la produzione dell’evento medesimo, qualora questa non costituisca un fatto imprevedibile ovvero uno sviluppo assolutamente atipico della serie causale (ex multis Sez. 5, n.45241 del 19/10/2021, D’Onofrio, Rv. 282285; Sez. 4, Sentenza n. 25560 del 02/05/2017, Schiavone, Rv. 269976; Sez. 1, Sentenza n. 36724 del 18/06/2015, Ferrito, Rv. 264534; Sez. 5, Sentenza n. 35709 del 02/07/2014, Desogus, Rv. 260315; Sez. 5, Sentenza n. 39389 del 03/07/2012, Martena, Rv. 254320; Sez. 5, Sentenza n. 29075 del 23/05/2012, Barbagallo, Rv. 253316; Sez. 4, Sentenza n. 41943 del 04/10/2006, Lestingi, Rv. 235537; Sez. 5, Sentenza n. 17394 del 22/03/2005, D’Iginio, Rv. 231634).

Tale omissione, ricorrendone le condizioni, può infatti costituire eventualmente il titolo per l’affermazione della concorrente responsabilità del soggetto inadempiente, mentre, nella fattispecie, le omissioni eventualmente imputabili al personale sanitario (e comunque solo genericamente evocate dal ricorrente), come il lamentato rifiuto della vittima di alimentarsi correttamente, non sono stati ritenuti sviluppi imprevedibili o atipici del decorso causale.

7.5 Nemmeno ricorrendo alla “teoria del rischio”, nella sua declinazione giurisprudenziale della quale il ricorrente lamenta l’omessa applicazione da parte dei giudici del merito, si possono raggiungere conclusioni differenti rispetto a quelle rassegnate nella sentenza impugnata.

Come noto, nella costante ricerca di un efficiente strumento idoneo ad arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo, anche nella giurisprudenza di legittimità si è venuto consolidando un orientamento per cui il nesso causale tra condotta ed evento si interrompe quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla condotta originaria (Sez. 4, Sentenza n. 22691 del 25/02/2020, Romagnolo, Rv. 279513; conf. 276238; 274829; Sez. 4, Sentenza n. 3312 del 02/12/2016, dep. 2017, Zarcone, Rv. 269001; Sez. 4, Sentenza n. 33329 del 05/05/2015, Sorrentino, Rv. 264365).

Può convenirsi con le riserve sulla correttezza, nell’ambito dei reati dolosi, dell’ancoraggio dell’imputazione dell’evento all’autore della condotta, che pure ne costituisce un antecedente necessario, all’oggettiva imprevedibilità della causa sopravvenuta, in quanto, in tal modo, si tendono a trasferire sull’accertamento a posteriori del nesso causale valutazioni sulla prevedibilità ex ante dell’evento da parte dell’agente concreto che attengono alla sfera della colpevolezza ed ai limiti della causalità nei reati colposi.

Ma anche volendo ricondurre la questione dell’imputazione oggettiva dell’evento esclusivamente alla verifica della sua concreta produzione quale realizzazione del rischio originariamente innescato dalla condotta del Di Bernardo e del D’Alessandro, la motivazione della sentenza resiste alle obiezioni difensive.

Infatti la Corte non ha escluso — ed anzi, come già ricordato, lo ha ammesso esplicitamente – che gli accadimenti successivi alla causazione delle lesioni riportate dal Cucchi abbiano influito sul decorso causale, ma ha invece sostenuto che il decesso di quest’ultimo ha costituito la concretizzazione proprio del pericolo determinato dalla condotta lesiva, negando che tali accadimenti abbiano generato un rischio inedito rispetto a quello originariamente determinato dagli imputati.

Del resto le doglianze del ricorrente sul punto si riducono, in definitiva, all’obiezione per cui la serie causale innescata dalla condotta lesiva si sarebbe esaurita con lo svuotamento della vescica della vittima, talchè la crisi cardiaca ingenerata dal suo riempimento successivo andrebbe imputato esclusivamente al comportamento negligente dei sanitari dell’ospedale Pertini.

Anche a voler prescindere dalla genericità dei riferimenti fattuali evocati nel ricorso, seguendo la prospettazione difensiva, dovrebbe addirittura negarsi l’identificazione della condotta lesiva quale antecedente causale necessario dell’evento mortale, in ipotesi determinato da una serie totalmente autonoma ed indipendente, che prescinderebbe dalle stesse cause del ricovero della vittima, comunque ritenute apoditticamente ininfluenti nella produzione dell’exitus.

Ma più semplicemente è sufficiente evidenziare sul punto, come affermato da entrambe le sentenze di merito, che anche il nuovo anomalo riempimento della vescica è stato determinato dalle conseguenze della lesione sacrale e che pertanto l’eventuale negligente manutenzione del catetere è evento che si pone a valle di tale accadimento, non generando dunque alcun rischio inedito rispetto a quello già prodottosi.

7.6 Generica è poi l’obiezione per cui la Corte avrebbe escluso la rilevanza delle cause sopravvenute senza valutare se eventualmente l’effetto interruttivo possa essere conseguito alla loro sinergia.

Si tratta infatti di censura fondata su una ipotesi meramente congetturale e che, peraltro, omette di confrontarsi con l’effettivo sviluppo argomentativo della sentenza, la quale ha puntualmente ricostruito la concatenazione di tutti gli eventi succedutisi tra il pestaggio del Cucchi ad opera degli imputati e la sua morte, evidenziandone l’intima connessione causale e l’azione sinergica nella produzione dell’evento.

7.7 Il ricorrente eccepisce infine che il decorso causale e l’evento non erano prevedibili dall’imputato.

Nonostante il tema venga evocato nell’ambito del motivo incentrato – già dalla sua intitolazione – sulla sussistenza del nesso di causalità, le censure del ricorrente attingono promiscuamente anche il tema dell’elemento soggettivo.

Sulla irrilevanza della prevedibilità dell’evento ai fini dell’accertamento del nesso condizionalistico – a maggior ragione nella prospettiva evocata dal ricorso – già si è detto.

Sul versante della colpevolezza le doglianze articolate risultano meramente assertive, posto che non viene in alcun modo argomentato perché il decorso causale sarebbe stato anomalo rispetto alla natura della condotta e delle sue più immediate conseguenze lesive.

Non di meno il ricorrente omette di considerare sul punto l’oramai consolidato orientamento di questa Corte per cui l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva, né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato.

Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto in questione è nella stessa previsione legislativa, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 28706 del 24/05/2018, Picilli, non massimata; Sez. 5, Sentenza n. 44986 del 21/09/2016, Mulè, Rv. 268299; Sez. 5, Sentenza n. 791 del 18/10/2012, (dep. 2013), Palazzolo, Rv. 254386; Sez. 5, Sentenza n. 40389 del 17/05/2012, Perini, Rv. 253357; Sez. 5, Sentenza n. 35582 del 27/6/2012, Tarantino, Rv. 253536; Sez. 5, Sentenza n. 16285 del 16/03/2010, Baldissin, Rv. 247267; Sez. 5, Sentenza n. 13673 del 8/3/2006, Haile, Rv. 234552; Sez. 5, Sentenza n. 13114 del 13/02/2002, Izzo, Rv. 222054).

Peraltro, è appena il caso di evidenziare che, anche qualora volesse accogliersi l’implicita critica a tale principio contenuta nel generico invito rivolto a questa Corte di rivolgersi sul punto al giudice delle leggi, la questione della prevedibilità dell’evento nel caso di specie è certamente fuori discussione, attesa le modalità con le quali gli imputati hanno percosso la vittima, attingendola con violenti colpi al volto e in zona sacrale, ossia in modo idoneo a generare lesioni interne che chiunque è in grado di rappresentarsi come prevedibile conseguenza di tale azione.

Conseguentemente prevedibile è che dalle stesse possa innescarsi un processo degenerativo in grado di avere esiti anche letali, rimanendo escluso che comunque l’agente debba potersi rappresentare l’esatto decorso causale concretamente realizzatosi, ovvero che la vittima debba ricorrere a cure mediche e che queste possano essere, per negligenza o imperizia, omesse o non correttamente prestate. 8. Il quinto motivo del Di Bernardo è inammissibile.

8.1 Come già ricordato la questione relativa all’autonomia della sua condotta è del tutto inedita e dunque non deducibile in questa sede. Il ricorso, con il motivo in esame, cerca di aggirare il divieto dettato dal terzo comma dell’art. 606 c.p.p. eccependo sostanzialmente l’erroneità della qualificazione giuridica del fatto in chiave concorsuale.

Se è vero che la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra nel novero di quelle su cui la Corte di cassazione può decidere, ex art. 609, comma 2, c.p.p., va però ricordato che può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità solo se per la sua soluzione non siano necessari accertamenti in punto di fatto (ex multis Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, in motivazione; Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 2014, Rossi, Rv. 259730).

E’ poi doveroso rammentare l’ulteriore insegnamento di questa Corte per cui il vizio di cui all’art. 606, comma primo, lett. b) c.p.p. dedotto dal ricorrente riguarda esclusivamente l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza), ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto fattispecie astratta), ma va tenuto distinto dalla deduzione di un’erronea applicazione della legge in ragione di una carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, denunciabile sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 268404).

E’ allora agevole evidenziare come in realtà le censure del ricorrente si riducano nella mera riproposizione dei rilievi sollevati con il terzo motivo di ricorso – e già ritenuti inammissibili – al fine di contestare la ricostruzione del fatto svolta dalla Corte territoriale, sollecitando, in definitiva, un nuovo accertamento sulla reale dinamica dello stesso, che inevitabilmente comporterebbe la necessità di verificare la configurabilità o meno di una ipotesi di concorso di cause indipendenti nella produzione dell’evento con riferimento alle azioni poste in essere dall’imputato e dal D’Alessandro.

8.2 Conseguentemente inammissibile è anche il sesto motivo, con cui si lamenta la mancata derubricazione della condotta dell’imputato sotto il titolo delle lesioni volontarie.

Ancora una volta la censura muove dalla prospettazione di una diversa ed inedita ricostruzione del fatto, priva peraltro – come già ricordato – di un effettivo riscontro fattuale, tanto che il ricorrente è costretto a forzare il senso delle dichiarazioni del Tedesco, pure riportate nell’atto di impugnazione, per cercare di escludere che il Cucchi sia caduto a causa della spinta del Di Bernardo, sostenendo in maniera del tutto congetturale – e comunque priva di alcun addentellato con l’effettivo contenuto della prova di riferimento – che la vittima avrebbe barcollato, «come se avesse perso l’equilibrio, subito dopo riacquistato», per cadere effettivamente solo dopo il primo calcio sferratogli dal D’Alessandro.

Né rileva il denunziato difetto di motivazione sulla sollecitazione relativa alla derubricazione del fatto avanzata con il gravame di merito, implicitamente confutata dalla Corte attraverso la corretta e motivata qualificazione dello stesso ai sensi dell’art. 584 c.p.p.

8.3 I due motivi, così come le censure sull’autonomia della condotta dell’imputato articolate con il terzo motivo, sono in ogni caso anche infondate.

Va, infatti, ribadito che la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all’opera di un altro che rimane ignaro (Sez. U, Sentenza n. 31 del 22/11/2000, dep. 2001, Sormani, Rv. 218525).

Non solo, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, è configurabile il concorso di persone nell’omicidio preterintenzionale quando vi è la partecipazione materiale o morale di più soggetti attivi nell’attività diretta a percuotere o ledere una persona senza la volontà di ucciderla e vi sia un evidente rapporto di causalità tra tale attività e l’evento mortale (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 12413 del 30/10/2013, dep. 2014, Rv. 262539).

Non è, dunque, in dubbio che i giudici del merito abbiano correttamente qualificato quello descritto dal Tedesco come un fatto collettivo unitario, attesa la sostanziale contestualità e violenza delle condotte poste in essere dal Di Bernardo e dal D’Alessandro.

In proposito il ricorrente ha altresì cercato di ridimensionare l’entità dello schiaffo e della spinta attribuiti all’imputato, nell’evidente tentativo di far ricadere sul solo D’Alessandro la responsabilità di aver cagionato le lesioni riportate dalla vittima.

Si tratta di mere valutazioni in fatto inammissibili in questa sede, tanto più che la Corte sul punto ha riportato e correttamente valutato le esatte parole del Tedesco, il quale ha per l’appunto sottolineato la durezza ed aggressività dell’azione del Di Bernardo e la sua diretta incidenza nella rovinosa caduta del Cucchi dalla quale è conseguita la lesione sacrale.

Non solo, nella motivazione della sentenza di primo grado, rimasta incontestata sul punto con il gravame di merito e dunque legittimamente richiamata dal giudice dell’appello, ha altresì ricordato come il citato Tedesco abbia altresì aggiunto di aver dovuto allontanare sia il D’Alessandro, che il Di Bernardo, evidenziando l’intenzione di entrambi di proseguire nella loro aggressione.

9. Rinviando al proseguo della trattazione l’esame dei residui motivi del ricorso del Di Bernardo, devono a questo punto affrontarsi le censure proposte con il terzo motivo di quello del D’Alessandro, che sono infondate ed in larga parte inammissibili.

9.1 Infondato è anzitutto — come già ricordato confutando l’analoga obiezione sollevata dal Di Bernardo – l’assunto per cui la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto degli esiti della perizia svolta nell’incidente probatorio.

In realtà entrambe le sentenze di merito hanno effettuato un’ampia valutazione di tutti i pareri tecnici acquisiti nel corso del processo (comprese le conclusioni assunte dal collegio peritale nell’incidente probatorio), fornendo logica motivazione delle conclusioni assunte in ordine all’individuazione delle cause che hanno portato al decesso del Cucchi ed in particolare sulle ragioni per cui tra queste deve essere annoverata anche l’azione lesiva posta in essere dal D’Alessandro in concorso con il Di Bernardo.

La critica di tali conclusioni da parte del ricorrente è invece meramente assertiva ed affidata a valutazioni soggettivamente orientate dei chiarimenti e delle opinioni espressi nel corso dell’audizione dibattimentale dai periti.

In proposito è infatti necessario rammentare che il controllo di legittimità sulla sentenza concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione, sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.

9.2 Generiche e ugualmente versate in fatto sono poi le censure avanzate alla ricostruzione del decorso causale effettuata dai giudici del merito, che si traducono nell’elencazione di una serie di apodittiche considerazioni medico-scientifiche provenienti dai difensori e fondate su presunti dati obiettivi, di cui non viene nemmeno precisata la fonte processuale.

Peraltro è lo stesso assunto da cui muovono tali obiezioni che si rivela il frutto di un fraintendimento epistemologico sulla funzione del modello di sussunzione sotto leggi scientifiche.

Ciò che, infatti, il ricorrente cerca in definitiva di sostenere è che la spiegazione causale dell’evento si riduca alla dimostrazione dell’esistenza di una legge scientifica universale in grado di rivelare in maniera autosufficiente e assolutamente certa che quest’ultimo è stato determinato dalla condotta.

In tal modo confonde però l’oggetto del giudizio di elevata probabilità razionale, che non definisce la validità della legge di copertura, bensì costituisce il criterio con il quale il giudice deve procedere all’accertamento probatorio relativo al fatto, verificando se la legge di riferimento ritenuta valida trovi applicazione nel caso concreto in giudizio, stante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 15816 del 20/01/2020, Mascolo, Rv. 279417; Sez. 4, n. 9695 del 12/2/2014, S., Rv. 260159).

Principi questi che sono diretta emanazione di quelli affermati da Sez. U, n. 30328 del 10/7/2002, Franzese, Rv. 222138-39, per la quale, al fine di stabilire la sussistenza del nesso di causalità, occorre invero un duplice controllo, ossia la verifica sul collegamento eziologico tra la condotta e l’evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto, nonché la verifica, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, dell’attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata.

Contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, la Corte territoriale ha fatto buon governo proprio di tali principi, individuando dapprima una legge idonea a fornire una spiegazione causale dell’evento – la cui validità, come detto, il ricorso ha solo assertivamente contestato e la cui frequenza statistica è di per sé irrilevante – e verificando successivamente, sulla base dell’evidenza disponibile e delle reali ed irripetibili circostanze del fatto, la concretizzazione della legge di copertura nel singolo evento in applicazione del canone dell’elevata probabilità razionale.

E, come già ricordato, non è a questo punto compito di questa Corte, una volta escluso che la motivazione che sostiene il ragionamento probatorio sviluppato dai giudici di merito sia affetta da manifesta illogicità (che il ricorso non riesce ad evidenziare), dialogare con il compendio probatorio, come in definitiva il ricorrente sollecita.

9.3 Prive di fondamento e sostanzialmente generiche sono altresì le doglianze relative alla svalutazione delle eventuali spiegazioni alternative dell’evento.

Quanto all’imputazione di quest’ultimo alla sopravvenienza di una eventuale crisi epilettica, il ricorso non si è confrontato con la puntuale confutazione della tesi operata dai giudici di merito, i quali hanno evidenziato come proprio l’approfondimento del tema in sede dibattimentale è alla base delle precisazioni fornite dai periti già impegnati nell’incidente probatorio.

Con riguardo invece alla sindrome da inanizione, la Corte territoriale non ne ha per nulla escluso l’incidenza nella produzione dell’evento, negando solo possa individuarsi nella medesima una causa sopravvenuta idonea ai sensi dell’art. 41 c.p. ad interrompere il nesso condizionalistico con la condotta tenuta dall’imputato, né il ricorso chiarisce se e in che termini i consulenti della difesa lo avrebbero escluso e su quali basi.

Peraltro da entrambe le sentenze di merito emerge chiaramente come i due giudicanti abbiano imputato la mancata alimentazione e idratazione non solo (o non tanto) all’asserito atteggiamento ostruzionistico del Cucchi, ma anche (o piuttosto) al grave e complesso quadro lesivo causato dal pestaggio di cui era stato vittima.

Comunque, è appena il caso di ricordare sul punto che, qualora il giudice abbia indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudicante deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo (ex multis Sez. 2, Sentenza n. 15248 del 24/01/2020, Grimani, Rv. 279062).

Il ricorrente deduce, poi, che la Corte avrebbe ignorato la possibilità che la vittima, già prima del suo arresto, fosse sottopeso in maniera anomala e per propria scelta.

A parte il fatto che, ancora una volta, l’obiezione si fonda su presunti dati obiettivi solo genericamente evocati, in proposito è appena il caso di evidenziare che quella prospettata costituirebbe, a tutto concedere, una causa preesistente e concorrente con la condotta dell’imputato nella produzione dell’evento e che, in quanto tale, sarebbe irrilevante ai sensi del primo comma dell’art. 41 c.p. ad escludere la rilevanza causale di quest’ultima.

Più in generale va evidenziato come il ricorrente in alcun modo abbia indicato elementi eventualmente ignorati dalla Corte che rivelerebbero l’assoluta ininfluenza nel processo causale delle lesioni riportate dal Cucchi.

Analoghe considerazioni valgono per la perizia svolta nel parallelo procedimento a carico del personale sanitario dell’ospedale Pedini e di cui il ricorso ha lamentato l’omessa considerazione, posto che, per come prospettato dal ricorrente, dalla stessa risulterebbe al più confermato il concorso causale delle asserita malnutrizione della vittima nella determinazione dell’evento, tanto più che nemmeno viene precisato quale sia stato l’oggetto specifico dell’accertamento devoluto a quei periti e la loro valutazione dei traumi subiti dal Cucchi.

Per quanto concerne, infine, all’ostruzione del catetere ed all’eccezionalità e novità del rischio che ne sarebbe conseguito è sufficiente rinviare a quanto illustrato trattando delle analoghe doglianze formulate con il ricorso del Di Bernardo.

9.4 Manifestamente infondata è, poi, l’obiezione per cui la Corte avrebbe omesso di considerare quanto dichiarato dal consulente dell’accusa in merito all’eziogenesi delle fratture vertebrali cagionate al Cucchi.

Dagli stessi frammentati brani della deposizione di quest’ultimo, estrapolati dal ricorso, emerge, infatti, che questi non ha fornito alcun giudizio ultimativo in merito all’individuazione della causa delle suddette fratture, evidenziando esclusivamente come risulti più probabile che le stesse siano state causate da un violento impatto con il pavimento, piuttosto che da un calcio.

La sentenza, lungi dal travisare o pretermettere tale giudizio, ha semplicemente registrato che la spinta del Di Bernardo e il calcio sferrato dal D’Alessandro hanno sinergicamente determinato la caduta del Cucchi e il suo violento successivo impatto con il suolo, ritenendo dunque, del tutto logicamente, che la frattura menzionata sia stata comunque causata, direttamente o indirettamente, anche dal suddetto calcio.

9.5 Non è, infine, chiaro – e dunque la relativa deduzione deve ritenersi inammissibile per difetto di specificità – quale sia l’oggetto del vizio denunziato ai sensi dell’ad. 606 lett. d) c.p.p., giacché il ricorrente non ha precisato quale sarebbe la prova decisiva di cui lamenta la mancata assunzione e non essendo la stessa certamente identificabile con quelle di cui contestualmente ha eccepito il presunto travisamento per omessa considerazione, doglianza come già detto inammissibile.

10. Infondate ed in larga parte inammissibili sono altresì le doglianze formulate dal D’Alessandro con il quarto motivo del suo ricorso.

10.1 Anzitutto inammissibile è l’eccezione sulla presunta violazione, in entrambi i gradi di giudizio, del diritto di difesa in merito alla mancata escussione del consulente grafologico della difesa ed alla mancata acquisizione della consulenza redatta dal medesimo.

Premesso che è lo stesso ricorso a precisare come la richiesta difensiva sia stata avanzata nei gradi di merito, rispettivamente, ai sensi degli artt. 507 e 603 c.p.p. e ribadito quanto già ricordato in precedenza sulla funzione della consulenza di parte (v. supra sub 9.3), è fin troppo agevole evidenziare, in primo luogo, che, non vertendosi in tema di lesione del diritto alla prova contraria, l’unico vizio eventualmente prospettabile era quello relativo alla tenuta della motivazione della sentenza in relazione alla valutazione del compendio probatorio posto alla base dell’affermazione di responsabilità dell’imputato e non già quello della violazione del diritto di difesa.

In secondo luogo, va ribadito che il parere dell’esperto ha natura neutra, rimanendo dunque escluso che lo stesso possa costituire una prova decisiva in grado di imporre al giudicante la scelta di procedere all’integrazione della piattaforma cognitiva.

Inoltre, correttamente la Corte ha giustificato il rigetto della suddetta richiesta in ragione all’estraneità dei fatti oggetto dell’accertamento tecnico al perimetro della “resgiudicanda“, riguardando lo stesso eventuali condotte realizzate dal Tedesco successivamente alla morte del Cucchi.

Né rileva in senso contrario, come eccepito, che la sentenza abbia evocato le dichiarazioni rese dal coimputato circa le annotazioni cui si riferirebbe la consulenza, giacché le stesse alcun effettivo ruolo hanno assunto nell’economia della decisione relativa allo specifico addebito mosso al D’Alessandro.

Quanto alla sovra-iscrizione nel registro SPIS, la sua rilevanza probatoria prescinde dall’identità del suo autore, giacché entrambe le sentenze hanno richiamato la circostanza esclusivamente al fine di riscontrare il passaggio del Cucchi dai locali della caserma di Roma Casilina, mentre mai il goffo tentativo di occultare tale evidenza compiuto a posteriori è stato anche solo ipoteticamente addebitato al D’Alessandro o al Di Bernardo.

10.2 Inammissibile è anche la doglianza relativa al rigetto delle altre istanze di integrazione dell’istruttoria dibattimentale rivolte al giudice dell’appello.

Per quanto riguarda la lamentata violazione del diritto di difesa valgono le considerazioni svolte al punto che precede.

Quanto invece al deficit motivazionale, pure prospettato con il ricorso, va evidenziato come la decisività delle prove richieste è meramente asserita, ma in alcun modo dimostrata dal ricorrente, che in tal senso soprattutto non si confronta con l’intero apparato argomentativo della sentenza nel suo complesso.

Deve, infatti, ribadirsi che l’integrazione istruttoria in grado di appello ha carattere eccezionale e può essere disposta soltanto quando il giudice non possa decidere allo stato degli atti; il che si traduce, per l’appunto, nella necessità che la prova offerta sia decisiva, cioè idonea ad eliminare ogni incertezza o ad inficiare il valore probatorio di ogni altra risultanza di segno contrario (Sez. 6, n. 20095 del 26/02/2013, Ferrara, Rv. 256228; Sez. 3 n. 35372 del 23/05/2007, Panozzo, Rv. 237410).

Ed in tal senso va, altresì, ricordato che il giudice di appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, mentre, qualora ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266820; Sez. 3 n. 24294 del 7/04/2010, D.S.B., Rv. 247872; Sez. 6 n. 5782 del 18/12/2006, dep. 2007, Gagliano, Rv. 236064).

10.3 Altrettanto inammissibili sono poi le censure relative alla mancata confutazione dei rilievi svolti con il gravame di merito in ordine all’attendibilità di alcuni dei testi valorizzati dalla sentenza ovvero al significato delle loro dichiarazioni.

Anzitutto va rilevato che tali censure risentono di un approccio atomistico alla piattaforma probatoria, omettendo il confronto con le considerazioni svolte dal giudice dell’appello in merito alla convergenza e sinergia dei diversi contributi dichiarativi, in riferimento a quello che è stato correttamente individuato in sentenza come il comune nucleo essenziale a tale compendio, ossia la dimostrazione che il Cucchi subì un pestaggio ad opera dei militari che avevano partecipato alle operazioni relative al suo arresto.

In secondo luogo, quanto alla rilevanza delle contestazioni difensive che si eccepisce non essere state specificamente confutate, talvolta la censura si affida ad asserzioni meramente apodittiche, quando non addirittura a congetture o illazioni prive di una base fattuale oggettiva, come nel caso delle riserve avanzate in merito alla credibilità dei testi Costanzo e Lainà.

Quanto alla deposizione di quest’ultimo, poi, risulta generica l’indicazione del “documento” idoneo a comprovare quale fosse la stanza in cui egli era effettivamente ristretto, tanto più che è rimasta incontestata l’affermazione – fondata dalla Corte su specifiche risultanze probatorie – secondo cui al detenuto era consentita una certa libertà di circolare nel reparto, solo assertivamente confutata mediante l’evocazione del regime di speciale sorveglianza cui sarebbe stato sottoposto.

Priva di specificità è anche l’eccezione relativa all’omessa considerazione della smentita che il teste Tarek avrebbe trovato in acquisizioni documentali che vengono solo genericamente indicate.

Manifestamente infondate sono poi le obiezioni sollevate sull’interpretazione delle deposizioni di Levanaj Arianit e Gentjan Sulaj, atteso che, nell’ambito del discorso giustificativo sviluppato dai giudici del merito, la loro rilevanza attiene al fatto che il Cucchi era stato percosso da militari diversi da quelli che lo avevano accompagnato all’udienza di convalida.

Quanto alla deposizione della teste Carino (ex moglie del D’Alessandro) il ricorso non precisa la decisività dei rilievi formulati ai fini della valutazione dell’intrinseca attendibilità del suo racconto, posto che gli stessi non riguardano le dichiarazioni attinenti all’oggetto dell’addebito, bensì quelle relative a fatti diversi e di contorno, che non hanno assunto un ruolo effettivo nella valutazione compiuta dalla Corte della sua deposizione.

Non solo la sentenza, come già detto, ha ritenuto l’attendibilità della teste, come quella del Rendina, sulla base dell’aderenza del loro narrato ad altre risultanze processuali e dunque alla luce di una valutazione prudente del loro narrato, che implicitamente ha all’evidenza tenuto conto delle circostanze evidenziate dalla difesa.

10.4 Assolutamente generiche – per non dire evanescenti – risultano le censure mosse dal ricorrente alla valorizzazione del compendio captativo acquisito al corredo probatorio del processo.

In particolare, a riprova della latente genericità che pervade l’intero motivo in esame, il ricorso omette radicalmente di confutare le considerazioni svolte dai giudici del merito sulle conversazioni tra il D’Alessandro e il Di Bernardo intercettate nel 2015 e che logicamente sono state ritenute un eccezionale riscontro individualizzante alle dichiarazioni del Tedesco, fornendo le medesime la conferma che il Cucchi avesse riportato le lesioni all’origine del suo successivo decesso proprio nel frangente in cui si trovava nella stazione di Roma Casilina e mentre risultava sotto la custodia degli imputati.

10.5 Ancora inammissibili sono le critiche avanzate con il ricorso alla motivazione articolata dalla Corte a sostegno della ritenuta attendibilità del Tedesco.

Quanto alla genesi delle sue dichiarazioni, le censure del ricorrente si risolvono nel mero apprezzamento alternativo di una risultanza probatoria, senza tenere conto delle argomentazioni dispiegate dal giudice di merito a sostegno della propria valutazione, fondata sui numerosi riscontri che le dichiarazioni del suddetto Tedesco hanno trovato in altre risultanze processuali e che la difesa ha selettivamente omesso di considerare.

Generici sono poi i riferimenti ai presunti aggiustamenti che il dichiarante avrebbe apportato al proprio racconto, mentre in alcun modo viene rivelata la decisività delle propalazioni relative ai tentativi esperiti dal medesimo per recuperare la copia informatica della relazione di servizio, asseritamente redatta all’indomani della morte del Cucchi.

Nuovamente versati in fatto – e comunque frutto di meri paralogismi – risultano infine i rilievi sulla presunta incompatibilità tra il narrato del Tedesco e quanto riferito dal già menzionato teste Pagliuca, così come le obiezioni relative agli accertamenti tecnici che hanno evidenziato l’alterazione del registro dei fotosegnalamenti, le quali si traducono nella proposizione di una alternativa interpretazione del loro significato, peraltro fondata su mere congetture circa l’attendibilità di quanto riferito dai militari che avevano provveduto all’arresto di Misic Zoran.

Inconferenti sono, infine, le censure relative alla genuinità del verbale d’arresto, posto che la sua falsificazione non è stata contestata all’imputato.

Manifestamente infondate sono infine le censure relative all’evocazione delle dichiarazioni del Casamassima e della Rosati, dalle cui rivelazioni ha preso le mosse l’indagine che ha portato all’odierno processo.

Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, anche la sentenza appellata le aveva ricordate, mentre la Corte territoriale, esattamente come quella di primo grado, si è limitata a richiamarle al fine della compiuta ricostruzione della vicenda, senza trarne decisive argomentazioni a sostegno dell’affermazione di responsabilità dell’imputato.

11. Il primo motivo del ricorso del D’Alessandro è invece fondato nei limiti di seguito esposti.

11.1 In realtà manifestamente infondata è l’obiezione per cui l’impugnazione del pubblico ministero sarebbe stata ritenuta ammissibile in violazione dell’art. 593 comma 1 c.p.p. Fermo restando che la parte pubblica ha proposto ricorso avverso la sentenza di primo grado proprio in ragione dei limiti frapposti all’appellabilità di quest’ultima dalla disposizione da ultima citata, la sua conversione in appello è effetto soltanto dell’applicazione dell’art. 580 c.p.p., il quale, contrariamente a quanto dimostra di credere il ricorrente, pone una regola che non riguarda esclusivamente i casi in cui il provvedimento impugnato sarebbe comunque astrattamente appellabile dalla parte che lo ha impugnato (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 12792 del 21/02/2019, P., Rv. 276137; Sez. 5, Ordinanza n. 30224 del 31/05/2017, Ballì, Rv. 270878).

Una tale conclusione sarebbe infatti dissonante con la stessa ratio che ispira la disposizione in questione – ossia quella di evitare la frammentazione dei controlli sulla sentenza resa in prime cure – la quale finirebbe altrimenti per rappresentare un inutile “doppione” dell’art. 569 comma 2 dello stesso codice.

11.2 Venendo alle altre censure articolate dal ricorrente, non è in dubbio che il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di condanna inappellabile e convertito in appello in applicazione dell’art. 580 c.p.p., conservi la propria natura di impugnazione di legittimità e che, pertanto, il giudice investito dell’impugnazione deve anzitutto sindacarne l’ammissibilità secondo i parametri di cui all’art. 606 c.p.p., con cognizione limitata alle censure proponibili in sede di legittimità (Sez. U, Sentenza n. 7247 del 18/06/1993, Rabiti, Rv. 194314).

Ed è altrettanto pacifico che, una volta concluso positivamente il giudizio rescindente, il medesimo giudice riprende la propria funzione di giudice del merito e può adottare le statuizioni conseguenti alla formulazione del giudizio rescissorio devolutogli (ex multis Sez. 2, Sentenza n. 34487 del 21/06/2019, Alletto, Rv. 276739; Sez. 1, Sentenza n. 49570 del 11/03/2016, Cimmino, Rv. 268648; Sez. 2, Sentenza n. 4496 del 25/01/2012, Schiavetti, Rv. 251814).

In definitiva, l’insegnamento di questa Corte è nel senso per cui l’ammissibilità del ricorso è logico presupposto per la sua conversione in appello e che la stessa deve essere valutata secondo le regole che disciplinano il rimedio originariamente esperito, fermo restando che, una volta disposta la conversione, l’orizzonte cognitivo del giudice dell’appello si estende sia alla questioni di legittimità, sia a quelle di merito, nel senso che, una volta ritenuta fondata una delle prime, egli riassume anche la tipica funzione di giudice del merito, riacquistando i poteri decisori propri di quest’ultimo in ordine alla questione ritenuta fondata sotto il profilo di legittimità.

11.3 Nel caso di specie non può ritenersi che la Corte territoriale, pur richiamando tali consolidati principi, ne abbia sempre fatto poi corretta applicazione.

Come già ricordato, il pubblico ministero aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado in merito all’esclusione nei confronti del D’Alessandro e del Di Bernardo della contestata aggravante dei futili motivi ed al riconoscimento ai medesimi, oltre che al Mandolini, delle attenuanti generiche, seppure con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti ritenute con riferimento alle rispettive posizioni.

In tal senso i vizi denunciati erano quelli dell’erronea interpretazione della legge penale, nonché della carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p.

La sentenza (p. 31 della motivazione) ha in via preliminare qualificato esclusivamente quello prospettato ai sensi della lett. b) dell’art. 606 come vizio di legittimità in relazione al quale effettuare il giudizio rescindente propedeutico alla conversione dell’impugnazione, derubricando invece i vizi di motivazione dedotti dal pubblico ministero ai sensi della successiva lett. e) dello stesso art. 606 a censure di merito, la cui trattazione ha inteso demandare alla fase rescissoria del giudizio, da compiersi invece all’esito della conversione.

La ricostruzione svolta dalla Corte dell’itinerario del processo di conversione è certamente erronea, atteso che la preliminare valutazione sull’ammissibilità del ricorso deve essere condotto anche con riguardo agli eventuali vizi di motivazione denunziati dal ricorrente, verificandone la deducibilità in sede di legittimità alla luce dei parametri indicati nella citata lett. e) dell’art. 606.

11.4 L’erroneità dell’enunciato introduttivo non ha, però, effettivamente viziato la sentenza per quanto riguarda la decisione assunta in riferimento all’aggravante dei futili motivi, poiché il giudice dell’appello non vi si è in realtà attenuto, estendendo nel successivo svolgimento della motivazione la verifica di ammissibilità anche ai vizi di motivazione dedotti con il ricorso dal pubblico ministero.

E’ sì vero che nello sviluppo del discorso giustificativo tale verifica si intersechi, talvolta, con le valutazioni proprie del giudizio rescissorio, ma ciò non è sufficiente per confortare l’obiezione del ricorrente circa il difetto di quello rescindente, comunque agevolmente enucleabile nel corpo dell’apparato giustificativo della sentenza.

11.4 Quanto poi all’esito del giudizio rescissorio sul punto, la motivazione della sentenza resiste alle censure svolte con lo stesso primo motivo del ricorso del D’Alessandro, così come alle analoghe doglianze proposte con il settimo motivo di quello del Di Bernardo, che in realtà si appalesano generiche, omettendo di confrontarsi con le ragioni per cui la Corte territoriale ha ritenuto erronea la decisione del giudice di primo grado di escludere l’aggravante in discussione.

In tal senso la sentenza impugnata ha infatti evidenziato, coerentemente alle risultanze esposte, come dal racconto del Tedesco emerga in maniera inequivocabile che il comportamento ostruzionistico tenuto dal Cucchi per sottrarsi al fotosegnalamento già si era esaurito al momento della violenta aggressione fisica portata ai suoi danni, tanto che gli imputati o già si stavano predisponendo a lasciare la sala SPIS dopo aver comunicato telefonicamente con il loro comandante e aver ricevuto l’ordine di soprassedere all’adempimento.

Logicamente, dunque, la sentenza impugnata ha ritenuto ingiustificato il collegamento operato dalla Corte d’Assise tra il pregresso comportamento della vittima e quello degli imputati, non più riconducibile nemmeno astrattamente all’ipotetica intenzione di vincere una sua resistenza, mentre, sempre dalle dichiarazioni del Tedesco, i giudici territoriali hanno in maniera logica affermato l’insufficienza del successivo “battibecco” verbale insorto anche dopo la menzionata telefonata tra il Di Bernardo ed il Cucchi a giustificare la reazione violenta del primo e del D’Alessandro.

Reazione che il giudice d’appello con motivazione altrettanto logica e aderente alle citate risultanze – e dunque insindacabile in questa sede – ha imputato all’intenzione dei due carabinieri di “punire” la vittima per il suo atteggiamento.

E non è dubbio che tale ricostruzione risulti pienamente aderente alla nozione di motivo futile elaborata dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, per cui l’aggravante in questione ricorre ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (ex multis e da ultima Sez. 5, Sentenza n. 25940 del 30/06/2020, M., Rv. 280103).

12. A diverse conclusioni deve invece pervenirsi con riguardo all’altro tema attinto dall’impugnazione del pubblico ministero, ossia quello relativo all’avvenuto riconoscimento agli imputati delle attenuanti generiche all’esito del giudizio di primo grado.

Le doglianze proposte sul punto avevano infatti attinto il merito della decisione assunta dalla Corte di primo grado, non evidenziando alcun effettivo profilo di manifesta illogicità della motivazione che l’aveva sostenuta e men che meno una reale violazione della legge penale sostanziale, vizio cui pure si ispiravano le censure del ricorrente.

12.1 Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte le circostanze attenuanti generiche hanno la funzione di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all’imputato in considerazione di altrimenti non codificabili situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità a delinquere del suo autore nell’ottica della concreta attuazione nel caso specifico dei principi sanciti dall’art. 27 Cost.

In tal senso la necessità di tale adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, avendo il giudice l’obbligo, quando ne affermi la sussistenza, di fornire apposita e specifica motivazione idonea a fare emergere gli elementi atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (ex multis Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo, Rv. 252900; Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013, P.G. in proc. La Selva, Rv. 254716).

Non di meno tanto la concessione, quanto la negazione delle suddette attenuanti, si risolve in un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo, anche quindi limitandosi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio (ex multis Sez. 6 n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv, 248737; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermonei, Rv. 249163; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549).

12.2 La sentenza di primo grado si era attenuta a tali consolidati principi, selezionando tra i parametri forniti dall’art. 133 c.p. quelli ritenuti preponderanti ai fini della valutazione sulla necessità di adeguamento in concreto del trattamento sanzionatorio attraverso la leva fornita dall’art. 62-bis dello stesso codice.

Manifestamente infondate erano dunque le censure proposte dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p.

I vizi di motivazione contestualmente eccepiti erano invece, come già accennato, versati in fatto, risolvendosi in una critica del giudizio formulato dalla Corte fondata su una alternativa valutazione delle risultanze processuali, nel tentativo di sollecitare indebitamente il giudice di legittimità – cui per l’appunto l’impugnazione era originariamente destinata — ad un autonomo apprezzamento delle medesime.

12.3 Il giudice dell’appello ha, dunque, erroneamente affermato l’ammissibilità del ricorso del pubblico ministero in riferimento al profilo in esame, tanto più che in proposito, contrariamente a quanto rilevato in precedenza con riguardo all’aggravante dei futili motivi, non vi è traccia alcuna nella motivazione della sentenza impugnata di quel giudizio rescindente pregiudiziale all’esame del merito delle censure del ricorrente.

Conseguentemente illegittimo deve ritenersi il pronunziamento del giudice dell’appello sul riconoscimento delle attenuanti generiche agli imputati, punto della decisione di primo grado che non poteva considerarsi ritualmente devoluto alla sua cognizione.

13. Nuovamente inammissibili sono infine le doglianze proposte con il quinto motivo del ricorso del D’Alessandro.

Manifestamente infondate sono, anzitutto, le censure relative alla qualificazione giuridica del fatto, che rappresentano nella sostanza il precipitato dei rilievi svolti in merito alla configurabilità del nesso condizionalistico tra la condotta dell’imputato e la morte del Cucchi.

Come si è già illustrato in precedenza, più che fondatamente, invece, i giudici del merito hanno ritenuto che i fatti contestati integrino il reato di omicidio preterintenzionale sulla base di una corretta ricostruzione degli stessi e della lettura del compendio probatorio che ha comportato l’implicita e compiuta confutazione di qualsiasi ipotesi qualificativa alternativa formulata dalla difesa.

E manifestamente infondate sono, altresì, le obiezioni formulate con riguardo alla configurabilità delle altre aggravanti ritenute dalle sentenze di merito.

Quanto alla minorata difesa, la doglianza è in realtà inconsistente, posto che quello relativo alle condizioni fisiche della vittima al momento del pestaggio è profilo del tutto inconferente, dato che, come risulta dal complesso della motivazione della sentenza, il riconoscimento dell’aggravante è legato al fatto che egli ha dovuto affrontare la repentina ed inaspettata aggressione da parte di due rappresentanti delle forze dell’ordine e mentre si trovava sotto la loro custodia.

Parimenti, dal complesso del discorso giustificativo emerge che la Corte, del tutto coerentemente alle risultanze processuali esposte e facendo buon governo proprio dei principi giurisprudenziali eccepiti dal ricorrente, ha considerato come la condotta violenta dell’imputato sia stata posta in essere con abuso di potere e violazione dei propri doveri risultando del tutto avulsa dall’effettiva situazione che si era trovato a fronteggiare.

Quanto, infine, al trattamento sanzionatorio, le censure del ricorrente si rivelano versate in fatto, intrinsecamente generiche, nonché prive del necessario confronto con l’intero sviluppo argomentativo della sentenza, che proprio nello svolgimento del giudizio rescissorio relativo al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche ha comunque ampiamente giustificato la propria valutazione sulla gravità del fatto e sulla conseguente congruità della pena irrogata.

E allo stesso modo generiche e versate in fatto devono ritenersi le analoghe doglianze formulate sul punto con il settimo motivo del ricorso del Di Bernardo (rimanendo invece assorbite quelle sull’esclusione delle attenuanti generiche da quanto osservato in precedenza sub 12 e di quanto si dirà infra sub 14), mentre parimenti inammissibili sono quelle avanzate con lo stesso motivo con riguardo al denegato riconoscimento dell’attenuante della provocazione, la cui configurabilità non aveva costituito oggetto di devoluzione con i motivi d’appello formulati nell’interesse del medesimo imputato, atteso che dell’atteggiamento asseritamente provocatorio del Cucchi il gravame di merito aveva fatto menzione esclusivamente per argomentare la critica relativa alla commisurazione della pena irrogata dal giudice di primo grado.

14. In conclusione, con riguardo alla posizione del Di Bernardo e del D’Alessandro, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente all’esclusione delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulle contestate aggravanti.

L’annullamento può essere disposto senza rinvio, atteso che, alla luce del riconoscimento di un’aggravante in precedenza esclusa, non residuano spazi per un più favorevole bilanciamento tra le circostanze di segno opposto e deve essere disposto anche con riguardo alla posizione del Di Bernardo, che pure sull’ammissibilità del ricorso del pubblico ministero non ha formulato alcuna specifica censura, al quale ai sensi dell’art. 587 c.p.p. deve essere esteso l’accoglimento del ricorso sul punto del D’Alessandro, in quanto avente ad oggetto la denunzia di una violazione della legge processuale non fondata su motivi esclusivamente personali.

Ne consegue il ripristino delle statuizioni sanzionatorie deliberate dal giudice di primo grado nei confronti di entrambi gli imputati, per i quali, dunque, la pena deve essere rideterminata in anni dodici di reclusione ciascuno.

Nel resto i ricorsi dei due imputati devono invece essere rigettati e gli stessi vanno condannati al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili rappresentate dall’avvocato Anselmo, che liquida in complessivi euro 10.000; dalla parte civile Calore Rita, che liquida in euro 6.000,00 e dalla parte civile Roma Capitale che liquida in euro 6.000, tutte oltre accessori di legge.

Analogamente i medesimi imputati devono essere condannati anche alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Cittadinanza Attiva Onlus, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.p.r. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.

15. I ricorsi del Mandolini e del Tedesco sono invece fondati.

15.1 Anzitutto va precisato che per il reato di falso ideologico in atto pubblico, aggravato ai sensi dell’art. 476 comma 2 c.p., oggetto della loro condanna (capo C dell’imputazione) non è allo stato ancora maturato il termine di prescrizione.

Ed infatti deve tenersi conto dei periodi in cui il procedimento è rimasto sospeso nel grado d’appello per legittimo impedimento di alcuni dei difensori (dal 14 dicembre 2020 al 15 gennaio 2021), nonché in forza di quanto disposto dall’art. 83, commi 2 e 4 d.l. n. 18/2020 (e quindi dal 9 marzo all’il maggio 2020) mentre pendeva il termine per la proposizione dell’appello avverso la pronunzia di primo grado. La prescrizione del reato si compirà pertanto non prima del 25 luglio 2022.

15.2 Ciò premesso va ricordato che il giudice di primo grado, dei quattro profili di falsità dell’atto originariamente contestati, ha ritenuto sussistenti solo gli ultimi tre, imputando ad un mero errore l’avvenuta indicazione nel verbale del fatto che il Cucchi fosse stato identificato a mezzo di fotosegnalamento, circostanza pacificamente non vera alla luce di quanto illustrato nei paragrafi precedenti.

Errore attribuito alla stanchezza ed alla fretta degli operanti – stante la tarda ora in cui si procedette all’incombente – che avrebbero maldestramente riprodotto il verbale utilizzato nel corso della stessa giornata nell’occasione dell’arresto di altro soggetto, dimenticando di sostituire i dati identificativi di quest’ultimo con quelli del Cucchi e di modificare l’intestazione dell’atto, dove per l’appunto si dava atto dell’avvenuto fotosegnalamento dell’altro arrestato.

Intenzionali sono state, invece, ritenute l’omessa menzione dei nominativi del Di Bernardo e del D’Alessandro tra quelli degli operanti che avevano partecipato all’arresto del Cucchi, nonché del rifiuto di quest’ultimo di sottoporsi al fotosegnalamento, e la mendace attribuzione al medesimo della volontà di non nominare un difensore di fiducia.

Entrambi i ricorsi lamentano che la Corte territoriale, nell’affermare l’oggettiva falsità del verbale relativo all’arresto del Cucchi e la colpevolezza degli imputati in relazione alle contestazioni effettivamente recepite dal giudice di primo grado, non avrebbe confutato i rilievi mossi con i gravami di merito all’apparato giustificativo della pronunzia appellata, sostanzialmente riproponendone il percorso argomentativo oggetto di critica.

La doglianza è fondata, come fondate sono le censure relative alla tenuta logica della motivazione della sentenza impugnata.

15.3 In proposito va, anzitutto, ricordato che, secondo l’insegnamento di questa Corte, la funzione del verbale di arresto è quella di documentare, con validità probatoria, esclusivamente l’attività svolta dalla polizia giudiziaria in occasione dell’atto coercitivo, ma non anche le attività di indagine antecedenti, pur se richiamate e riassunte nella parte giustificativa del verbale medesimo (Sez. 1, Sentenza n. 23311 del 24/02/2015, Mauro, Rv. 263604; nello stesso senso con riguardo al verbale di sequestro Sez. 5, Sentenza n. 15800 del 19/03/2019, Thiam, Rv. 275630) e, a maggior ragione, quelle successive.

Non di meno – al fine di fugare gli equivoci che in proposito emergono dalla sentenza impugnata, ma altresì dagli stessi ricorsi – va distinta la specifica funzione probatoria che il verbale d’arresto assume nell’ambito del processo e che la legge peraltro modula a seconda della fase in cui lo stesso viene utilizzato, dalla più generale funzione documentale dello stesso, in quanto atto pubblico, ossia quella di attestazione dei dati in esso esposti, comunque rilevante ai fini della configurabilità del reato in contestazione anche quando il falso cada su circostanze non direttamente attinenti alla menzionata funziona probatoria o connessi alla natura irripetibile dell’atto.

Sotto altro profilo deve poi evidenziarsi che il contenuto necessario del verbale d’arresto è solo parzialmente definito normativamente, posto che l’art. 386 comma 3 c.p.p. (facendosi riferimento al testo vigente all’epoca dei fatti di cui si tratta) si limita a richiedere la menzione della «eventuale nomina del difensore di fiducia, l’indicazione o del giorno, dell’ora e del luogo in cui l’arresto ….. è stato eseguito e l’enunciazione delle ragioni che lo hanno determinato».

Ciò non significa che la citata formula legislativa esaurisca l’identificazione del contenuto dell’atto, che richiede comunque l’esplicitazione di tutti quei dati che devono considerarsi essenziali in riferimento alla sua funzione probatoria e tra i quali sono certamente da annoverare, ad esempio, anche quelli relativi all’identità dei soggetti che vi hanno partecipato, come del resto si desume dall’art. 115 disp. att. c.p.p. (ex multis Sez. 1, Sentenza n. 34022 del 06/10/2006, Delussu, Rv. 234884).

15.4 Ciò premesso è possibile individuare nel tessuto argomentativo della motivazione della sentenza impugnata le lacune ed i vizi logici denunziati dai ricorrenti.

15.4.1 La Corte afferma che era necessario indicare i nominativi del Di Bernardo e del D’Alessandro tra quelli degli operanti che avevano partecipato all’arresto del Cucchi, pur avendo riconosciuto che i suddetti militari non avevano assistito al fatto che ha portato all’adozione della misura precautelare e proceduto alla fisica coercizione del Cucchi, sottolineando però che gli stessi avevano partecipato alle attività strumentali “ad ultimare le indagini in itinere” necessarie per completare la redazione del verbale.

L’affermazione non risulta invero perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte, per cui l’arresto in flagranza di reato si realizza nel momento in cui il soggetto è effettivamente privato della libertà personale, essendo irrilevante la circostanza che il verbale di arresto sia stato redatto in un momento successivo (ex multis Sez. 3, Sentenza n. 41093 del 30/01/2018, P., Rv. 274070).

Né è chiaro in quale momento la Corte abbia effettivamente ritenuto essersi perfezionato l’arresto, tanto più che già la sentenza di primo grado ha ritenuto inattendibile l’orario indicato nel verbale.

15.4.2 Se dunque il verbale deve “fotografare” l’atto dell’arresto, non si comprende perché l’omessa menzione nello stesso della partecipazione dei due militari alle successive operazioni d’indagine costituirebbe una omissione effettivamente idonea a comprometterne la funzione documentale dell’atto e come tale idonea a ledere la fede pubblica, non essendo tale attività iscritta nel nucleo del contenuto necessario dell’atto medesimo.

Ma anche volendo aderire a quella che sembra essere stata l’impostazione dei giudici dell’appello – e quindi ritenendo che l’operazione d’arresto si è conclusa solo con l’acquisizione degli esiti degli accertamenti compiuti successivamente al fermo del Cucchi e che, pertanto, il verbale dovesse fornire esaustiva attestazione dell’identità di coloro che vi avevano adempiuto – è appena il caso di evidenziare come l’atto non ometta di menzionare solo il Di Bernardo e il D’Alessandro, ma anche gli altri militari coinvolti nell’operazione, come, ad esempio, quelli che – estranei all’arresto in senso proprio inteso – fecero parte della pattuglia impegnata nella perquisizione del domicilio o del Cucchi ovvero si recarono ad effettuare l’analisi dello stupefacente sequestrato (il che tra l’altro pareggia l’attenzione sul piano argomentativo assegnata dalla Corte alla menzione del carabiniere Bazzicalupo nel verbale per contestare le obiezioni difensive, senza peraltro considerare che egli aveva comunque fatto parte, seppure informalmente, dell’equipaggio composto dai colleghi Aristodemo e Tedesco, unici veri autori “materiali” dell’arresto del Cucchi).

15.4.3 In realtà i giudici del merito hanno cercato di giustificare la rilevanza della sola omissione del Di Bernardo e del D’Alessandro in ragione della volontà del Mandolini – in ipotesi avallata dal Tedesco sottoscrivendo il verbale – di non far figurare proprio i due tra il personale che aveva partecipato all’azione, in quanto consapevole di quanto accaduto nei locali della stazione di Roma Casilina.

La decisività di tale argomentazione si presta, però, a numerose obiezioni, come osservato dai ricorrenti. Anzitutto mal si comprende perché la partecipazione dei due militari alla perquisizione presso il domicilio del Cucchi non sia stata parimenti occultata nel relativo verbale, ma soprattutto perché il Mandolini abbia fatto addirittura menzione della loro partecipazione all’arresto del Cucchi nel memoriale di servizio.

Quanto al primo documento, la Corte è rimasta sostanzialmente silente, limitandosi a ricordare che nel corso della perquisizione venne rinvenuto dello stupefacente.

Né in proposito può ritenersi dirimente quanto aveva in proposito sostenuto la sentenza di primo grado, la quale aveva respinto l’obiezione difensiva sulla base di mere congetture prive di una effettiva base fattuale e senza considerare che il verbale di perquisizione avrebbe dovuto essere trasmesso, al pari di quello d’arresto, all’autorità giudiziaria, la quale sarebbe stata dunque resa comunque edotta del coinvolgimento anche del Di Bernardo e del D’Alessandro nell’arresto del Cucchi.

La Corte ha, invece, escluso la rilevanza del memoriale negando allo stesso valenza fidefaciente – affermazione di per sé è errata, come eccepito con il ricorso del Mandolini – ma più che altro sottolineando come il documento menzionato non fosse naturalmente destinato all’autorità giudiziaria. Ciò è vero, ma l’argomento è logicamente inconferente, se l’intenzione attribuita al Mandolini era quella di non lasciare traccia della partecipazione dei citati Di Bernardo e D’Alessandro all’operazione.

15.4.4 Nemmeno garantisce tenuta logica alla motivazione il collegamento tra l’omessa indicazione dei due militari e quella relativa alla condotta asseritamente ostruzionistica tenuta dal Cucchi nella sala SPIS.

In primo luogo tale collegamento risulta in contraddizione con la menzione dell’avvenuto fotosegnalamento nell’intestazione del verbale. In secondo luogo è la stessa sentenza – come si è detto, in maniera coerente alle risultanze processuali esposte – ad aver ridimensionato il significato di tale condotta ai fini del riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. in riferimento al reato di omicidio preterintenzionale.

E sempre la sentenza ha ammesso che il Mandolini diede l’ordine di soprassedere agli accertamenti fotosegnaletici in quanto il Cucchi era, comunque, già stato compiutamente identificato, talchè quantomeno apodittica è l’affermazione per cui il mero rifiuto di quest’ultimo di sottoporsi a tali accertamenti avrebbe dovuto necessariamente essere evidenziata nel verbale d’arresto in quanto valutabile ai fini di una possibile contestazione del reato di cui all’art. 337 c.p.

In tal senso, tra l’altro, nuovamente si pone il problema – trattandosi di un falso omissivo – dell’effettivo obbligo di menzionare la circostanza proprio nel verbale destinato a documentare le operazioni di arresto e non certo fatti accaduti in un momento successivo.

15.4.5 Ma il rilievo decisivo è che il collegamento logico tra i due fatti viene rinvenuto dai giudici del merito nel presunto disegno del Mandolini di non far apparire il nominativo dei due colleghi, che però è esattamente ciò che doveva essere provato.

In realtà la Corte ha ricostruito la volontà dell’imputato – facendone per l’appunto discendere la prova della natura dolosa delle menzionate omissioni – dal comportamento tenuto dallo stesso nei giorni seguenti e più in particolare in quelli successivi alla morte del Cucchi, dando apoditticamente per scontato che la preoccupazione di occultare quanto accaduto palesata dal medesimo in quel contesto fosse già insorta nell’immediatezza dei fatti, senza preoccuparsi di motivare sulla sua effettiva consapevolezza dell’entità delle conseguenze subite dal Cucchi.

15.5 Quanto, infine, all’ultimo falso in contestazione, la sentenza ha logicamente dimostrato, in aderenza alle risultanze esposte e non contestate, che il Cucchi avesse comunicato ai militari la sua intenzione di affidarsi al difensore che di solito lo seguiva.

Da tale circostanza la Corte ha però apoditticamente ricavato che tale comunicazione sia stata fatta proprio al Mandolini o al Tedesco ovvero che gli stessi fossero stati comunque consapevoli della circostanza o, ancora, che si sia trattato non di una falsa attestazione, ma di una erronea attestazione frutto dell’ennesimo refuso dovuto al riutilizzo della minuta di un precedente verbale, tanto più che dalla ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito nemmeno emerge in che frangente e in che termini il primo sia stato direttamente a contatto con l’arrestato.

16. I vizi motivazionali rileva impongono pertanto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Assise d’appello di Roma, rimanendo assorbite tutte le altre censure proposte dai ricorrenti e che spetterà al giudice del rinvio esaminare.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Di Bernardo Alessio e D’Alessandro Raffaele limitatamente all’esclusione delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza sulle contestate aggravanti e per l’effetto ridetermina la pena in anni dodici di reclusione ciascuno.

Rigetta i ricorsi di Di Bernardo e D’Alessandro nel resto. Annulla la medesima sentenza nei confronti di Mandolini Roberto e Tedesco Francesco con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Assise di appello di Roma.

Condanna, inoltre, gli imputati Di Bernardo e D’Alessandro alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili rappresentate dall’avvocato Anselmo che liquida in complessivi euro 10.000, dalla parte civile Calore Rita che liquida in euro 6.000,00 e dalla parte civile Roma Capitale che liquida in euro 6.000, tutte oltre accessori di legge.

Condanna, inoltre, i medesimi imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Cittadinanza Attiva Onlus ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.p.r. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.

Così deciso il 4/4/2022.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.