REPUBBLICA ITALIANA
in nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUARTA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DOVERE Salvatore – Presidente –
Dott. GIORDANO Bruno – Consigliere –
Dott. CAPPELLO Gabriella – Consigliere –
Dott. D’ANDREA Alessandro – Consigliere –
Dott. RICCI Anna Luisa Angela – Relatore –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(omissis) (omissis) nato a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 20/01/2023 della CORTE APPELLO di BRESCIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott.ssa ANNA LUISA ANGELA RICCI;
udito il PG in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. LUCA TAMPIERI, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio relativamente al primo motivo;
udito il difensore avvocato (omissis) (omissis) del foro di ROMA in difesa di (omissis) (omissis) che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Brescia, in data 20 gennaio 2023, in parziale riforma della sentenza di Tribunale di Bergamo nei confronti di (omissis) (omissis) in ordine al delitto di cui all’art. 589, comma 2, cod. pen. commesso in danno di (omissis) (omissis) (in (omissis) (omissis) il 12 gennaio 2016 con decesso in Bergamo il 17 gennaio 2016), ha riconosciuto le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e ha rideterminato la pena inflitta in mesi 8 di reclusione.
Il processo ha ad oggetto un incidente stradale, ricostruito nelle conformi sentenze di merito nel modo seguente.
La mattina del 12 gennaio 2016, la vittima, insieme alla moglie, stava procedendo a piedi in direzione (omissis), sul lato destro della carreggiata, priva di marciapiede, nello stesso di marcia delle auto, quando era stato investito dall’auto Fiat Doblò condotta da (omissis) (omissis); il pedone era stato sbalzato in aria e, a seguito dell’urto, aveva riportato lesioni cranioencefaliche con componente compromissiva polmonitica, in conseguenza delle quali, qualche giorno, dopo era deceduto.
A (omissis) sono stati addebitati, quali profili di colpa, la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia e la violazione degli artt. 140 e 148, comma 3, d.lgs 30 aprile 1992 n. 285, per aver tenuto un comportamento pericoloso per la sicurezza stradale e, in particolare, per essersi distratto alla guida, malgrado la scarsa visibilità dovuto all’orario di prima mattina invernale, e per aver sorpassato gli utenti della strada (omissis) (omissis) e (omissis) (omissis) che lo precedevano a piedi sulla stessa corsia di marcia, senza portarsi alla loro sinistra e senza tenersi ad adeguata distanza laterale.
2. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso l’imputato, a mezzo di difensore, formulando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, ha dedotto il vizio di motivazione in relazione alla affermazione della responsabilità ed al mancato riconoscimento della interruzione del nesso causale ad opera della condotta della vittima.
Il difensore osserva che (omissis) era, a sua volta, incorso nella violazione dell’art. 190 CdS per avere camminato nello stesso senso di marcia dell’auto e che tale condotta doveva essere ritenuta circostanza eccezionale e imprevedibile per l’imputato e come tale idonea a interrompere il nesso di causa fra la condotta e l’evento.
2.2. Con il secondo motivo ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 589 bis, comma 7, cod. peri.
La Corte aveva riconosciuto nella condotta della vittima un profilo di imprudenza concausale rispetto all’evento, per avere essa proceduto in un tratto di strada privo di marciapiede o simile nello stesso di marcia del veicolo, ma aveva omesso di riconoscere la su indicata circostanza attenuante.
2.3. Con il terzo motivo, ha dedotto la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla determinazione della durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente.
Il difensore lamenta che la Corte avrebbe confermato l’applicazione di detta sanzione per la durata di anni due, peraltro in difformità dalla ordinanza prefettizia che aveva disposta la sospensione della patente di guida per il periodo di anni uno: se è vero che la misura della sanzione penale e quella della sanzione amministrativa sono autonome, è altrettanto vero che la rivalutazione degli elementi di fatto, che aveva condotto il giudice del gravame a riconsiderare il grado della colpa del reo e a ridurre la pena, avrebbe dovuto comportare anche una riduzione della misura della sanzione amministrativa accessoria.
Quest’ultima deve essere parametrata alla condotta in concreto tenuta dall’imputato e la determinazione della durata deve essere effettuata in base ai parametri di cui all’art. 218, comma 2, CdS.
Il giudice di primo grado e la Corte di Appello avevano, invece, omesso di fornire adeguata motivazione in merito alla irrogazione della sanzione in misura elevata, pari alla metà del massimo edittale.
3. Il Procuratore Generale, nella persona del sostituto, Dott. Luca Tampieri, ha rassegnato conclusioni scritte con cui ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in accoglimento del secondo motivo di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
2. Il primo motivo, attinente alla affermazione della responsabilità penale dell’imputato sotto il profilo della ritenuta sussistenza del nesso di causa, è manifestamente infondato.
Nelle sentenze di merito si è dato conto, in maniera puntuale e non manifestamente illogica, dei profili di colpa ravvisati nella condotta dell’imputato e della loro rilevanza causale rispetto all’evento.
Il Tribunale ha rilevato, sulla base della testimonianza della moglie della vittima e dei danni riscontrati sulla carrozzeria del veicolo condotto dall’imputato, che (omissis) si trovava, al momento dell’investimento, all’interno della banchina pedonabile, con direzione parallela rispetto all’asse stradale e ha precisato, altresì, sulla base del sopralluogo compiuto dal Consulente Tecnico del Pubblico Ministero, che (omissis) era avvistabile, da parte del conducente di un’auto sopraggiungente nel medesimo senso di marcia, ad una distanza di 30 metri con l’uso dei fari anabbaglianti e, dunque, ad una distanza che avrebbe reso possibile manovre idonee ad evitare l’investimento.
La Corte di Appello, avallando detta ricostruzione, ha escluso che la condotta della vittima potesse rilevare ai fini della interruzione del nesso di causa, in quanto non poteva essere ritenuta eccezionale o imprevedibile: la posizione del pedone- hanno argomentato i giudici- era ben avvistabile da parte dell’automobilista e, quindi, permaneva la rilevanza causale della condotta colposa dell’imputato rispetto all’impatto.
2.1. La decisione della Corte di Appello è coerente con la elaborazione giurisprudenziale in ordine alla responsabilità colposa del conducente nel caso di investimento di pedone.
In linea generale, vale il principio per cui “in tema di circolazione stradale, il principio dell’affidamento trova un temperamento nell’opposto principio, secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità” (ex plurimis Sez.4 n. 24414 del 06/05/2021, Busdraghi Rv. 281399; Sez. 4, n. 5691 del 02/02/2016„ Tettamanti, Rv. 265981; Sez. 4, n. 27513 del 6 10/05/2017, Mulas, Rv. 269997; Sez. 4, n. 7664 del 06/12/2017, dep. 2018, Bonfrisco, Rv. 272223).
Con particolare riferimento al tema dell’investimento del pedone, tale principio è stato declinato nel senso che il conducente di un veicolo è tenuto a vigilare al fine di avvistare il pedone e percepire così la situazione di pericolo, in presenza della quale è tenuto a porre in essere una serie di accorgimenti (in particolare, moderare la velocità e, all’occorrenza, arrestare la marcia del veicolo), volti a prevenire il rischio di un investimento.
Da ciò consegue che, nel caso di investimento di un pedone, perché possa essere affermata la colpa esclusiva di costui per le lesioni subite o per la morte, rileva la sua “avvistabilità” da parte del conducente del veicolo investitore.
È cioè necessario che quest’ultimo si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido ed inatteso; occorre, inoltre, che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza sia riscontrabile nel comportamento del conducente del veicolo (Sez. 4, n. 33207 del 02/07/2013, Corigliano, Rv. 255995; Sez. 4,n. 10635 del 20/02/2013, Calarco, Rv. 255288).
Di contro il rispetto del limite massimo di velocità consentito non esclude la responsabilità del conducente, qualora la causazione dell’evento sia comunque riconducibile alla violazione delle regole di condotta stabilite dall’art. 141 cod. strada. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità per omicidio colposo, ai danni di un pedone, del conducente che, pur viaggiando a velocità moderata, aveva omesso, attese le condizioni metereologiche avverse, il centro abitato e la ridotta visibilità, di tenere una condotta di guida tale da potergli consentire di avvistare per tempo il pedone ed arrestare il mezzo)” (Sez. 4 n. 7093 del 27/01/2021, Di Liberto Rv. 280549).
La Corte di Appello e, prima ancora, il Tribunale hanno coerentemente osservato che il pedone era avvistabile e che, in ragione di tale avvistabilità, la condotta di guida rispettosa delle regole del codice della strada avrebbe evitato l’impatto dell’auto con la vittima.
Il motivo di ricorso, di contro, non contesta in questa sede la ricostruzione della dinamica supra esposta, ma si limita in maniera apodittica a ribadire l’interruzione del nesso causale fra la condotta dell’imputato e l’evento ad opera della condotta colposa della vittima, senza, tuttavia, confrontarsi con le ragioni addotte dai giudici di merito e con i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.
3. Il secondo motivo, con cui si censura il mancato riconoscimento delle circostanza attenuante di cui all’art. 589 bis, comma 7, cod. pen. nella commisurazione della pena, è inammissibile per carenza di interesse.
3.1. La circostanza attenuante in esame è stata prevista nella nuova formulazione del reato di omicidio stradale introdotto con la legge 23 marzo 2016 n. 41.
L’art. 589 bis cod. pen. punisce chiunque cagiona la morte di un uomo per colpa con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale con la reclusione da due a sette anni. Il comma settimo dello stesso articolo prevede che, qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole, la pena sia diminuita fino alla metà.
3.2. All’epoca di commissione del fatto, gennaio 2016, il fatto per cui si procede era previsto dall’art. 589 cod. pen., a norma del quale l’omicidio colposo era punito, nell’ipotesi base, con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni e, nell’ipotesi aggravata dalla violazione della norme sulla disciplina della circolazione stradale, con la pena della reclusione da due a sette anni; non era contemplata in detta norma una circostanza attenuante del tipo di quella che sarà poi introdotta dal legislatore nel marzo 2016.
3.3. La Corte di Appello, in linea astratta, avrebbe dovuto verificare la eventuale applicabilità alla fattispecie sottoposta al suo giudizio dello ius superveniens, se favorevole, in ossequio ai principi di cui all’art. 2 cod. pen.
Il giudice di appello, invero, ex art. 597 comma 5 cod. proc. pen., può applicare anche di ufficio i benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen e le circostanze attenuanti senza che, tuttavia, possa determinarsi un obbligo di motivazione in ordine al mancato esercizio di tale potere.
É, infatti, principio consolidato quello per cui il mancato esercizio del potere-dovere del giudice di appello di applicare d’ufficio una o più circostanze attenuanti, non accompagnato da alcuna motivazione, non può costituire motivo di ricorso in cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, qualora l’imputato, nell’atto di appello o almeno in sede di conclusioni del giudizio di appello, non abbia formulato una richiesta specifica, con preciso riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della stessa, rispetto alla quale il giudice debba confrontarsi con la redazione di una puntuale motivazione (Sez. 3 n. 10085 del 21/11/2019, dep.2020, G. Rv. 279063; Sez. 7, Ordinanza n. 16746 del 13/01/2015, Ciaccia, Rv. 263361).
Nel caso in esame con il terzo motivo di appello l’imputato aveva sottolineato come l’evento fosse stato determinato dal concorso di colpa della vittima, sicché implicitamente aveva sollecitato la Corte alla verifica in ordine alla applicabilità della nuova circostanza attenuante.
3.4. E’ noto che in materia di successione di leggi penali, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole con riferimento al caso concreto, il giudice deve applicarla nella sua interezza, essendo fatto divieto, in ossequio al principio di legalità, di combinare frammenti normativi dell’una e dell’altra, così da delineare una terza disciplina (da ultimo, ex plurimis, Sez. 4 n. 13207 del 27/01/2022, Premo/i, Rv. 282936, proprio con riferimento a fattispecie di omicidio stradale).
Nel caso in esame l’applicazione della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 41/2016, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (così come operato dalla Corte di Appello) e della circostanza attenuante di cui all’art. 589 bis comma 7 cod. pen. (la cui applicazione è stata implicitamente invocata), entrambe nella massima estensione, avrebbe portato, muovendo dalla pena base nel minimo edittale, ad una pena finale di 8 mesi, uguale a quella irrogata dalla Corte di Appello, secondo il seguente calcolo: pena base anni 2 di reclusione, diminuita ex art. 589 bis comma 7 cod. pen. alla pena di anni 1 di reclusione, ulteriormente diminuita ex art. 62 bis cod. pen. fino ad arrivare alla pena sopra indicata.
3.5. Il principio generale, dettato dall’art. 568 comma 4 cod. proc. pen, è quello per cui per proporre impugnazione è necessario avervi interesse.
Per evidenti ragioni di economia processuale il legislatore ha subordinato l’attivazione dello strumento di controllo all’esistenza in capo al soggetto legittimato di un concreto ed attuale interesse, inteso, nella elaborazione della giurisprudenza di legittimità, non già quale pretesa della esattezza teorica della decisione, bensì come misura della utilità pratica derivante dalla impugnazione, sussistente ogni qualvolta dal raffronto fra la decisione oggetto di gravame e quella che potrebbe essere emessa, se il gravame fosse accolto, emerge per l’impugnante una situazione di vantaggio meritevole di tutela giuridica (in tal senso Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino, Rv.202269, secondo cui la facoltà di attivare i procedimenti di gravame è «subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso», e più di recente Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, Massaria, Rv. 275953 in tema di legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato).
3.6. Nel caso in esame, dunque, posto che per effetto della applicazione della nuova disciplina dell’omicidio stradale e della circostanza attenuante di cui all’art. 589 bis, comma 7, cod. pen. la pena finale sarebbe stata la stessa irrogata dalla Corte di Appello, il ricorrente non può vantare alcun concreto interesse alla applicazione della attenuante invocata.
4. Il terzo motivo, con cui si censura la determinazione della durata della sanzione amministrativa, è inammissibile, in quanto dedotto per la prima volta in sede di illegittimità e, comunque, manifestamente infondato.
La graduazione delle sanzioni amministrative, come quella della pena, rientra nella discrezionalità del giudice di merito. Con riferimento alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida prevista dall’art. 222 CdS, il giudice assolve al relativo obbligo di motivazione se dà conto di aver impiegato i criteri di cui all’art. 218 comma 2 CdS, ovvero una valutazione “in relazione all’entità del danno apportato, alla gravità della violazione commessa, nonché al pericolo che l’ulteriore circolazione potrebbe cagionare».
Ciò premesso, nel caso di specie, il ricorrente lamenta, da un lato, che la durata della sanzione della sospensione della patente disposta dal giudice era stata maggiore rispetto a quella disposta dal Prefetto e, dall’altro, che la Corte aveva ridotto la pena e non anche la durata della sanzione amministrativa; più in generale si duole del difetto di motivazione in ordine alla determinazione della durata.
In realtà questa Corte ha già avuto modo di specificare che:
– all’esito dell’accertamento di violazione del codice stradale, il giudice, nell’applicare la sanzione amministrativa accessoria, deve autonomamente determinare il periodo di sospensione definitiva della patente di guida, prescindendo dalla determinazione provvisoria prefettizia (Sez. 3, n. 37721 del 22/09/2006, Sarti, Rv. 235532);
– non esiste alcuna correlazione indefettibile di proporzionalità tra la statuizione relativa alla pena in senso stretto e la statuizione relativa alla sanzione amministrativa, che sono rivolte a diverse finalità.
Le motivazioni relative alla misura della sanzione penale, in ragione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., e di quella amministrativa, in ragione dei criteri di cui all’art. 218 CdS, restano tra di loro autonome e non possono essere raffrontate ai fini di un’eventuale incoerenza o contraddittorietà intrinseca del provvedimento (Sez. 4 -, n. 4740 del 18/11/2020, Di Marco, Rv. 280393; Sez. 4, n. 55130 del 08/11/2017, Fiorini, Rv. 271661).
La Corte di Appello ha fatto buon governo di tali principi e, con una motivazione succinta, ma adeguata (a fronte della mancata proposizione di motivo di impugnazione in merito alla statuizione in esame), ha ritenuto che la determinazione della durata sospensione della patente andasse confermata in ragione delle modalità del fatto e del grado della colpa, ampiamente descritti nel corpo della sentenza.
5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la ricorrente non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a suo carico, a norma dell’art.616 cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Deciso in Roma, il 12 dicembre 2023.
Depositata in Cancelleria, oggi 1° febbraio 2024.