REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da:
MARIA VESSICHELLI – Presidente – Relatore –
ALFREDO GUARDIANO – Consigliere –
MICHELE ROMANO – Consigliere –
MICHELE CUOCO – Consigliere –
ROSARIA GIORDANO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI CATANZARO
nel procedimento a carico di:
(omissis) (omissis) nato a LOCRI il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 07/06/2023 del TRIBUNALE di CATANZARO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso, nella udienza trattata con discussione orale, su richiesta delle parti;
udita la relazione svolta dal Presidente Dott.ssa MARIA VESSICHELLI, in sostituzione del Consigliere originariamente designato, assente per impedimento comunicato, in via di urgenza, il 8 marzo 2024;
udito il Pubblico Ministero, in persona dei Sostituti Procuratori PERLA LORI e TOMASO EPIDENDIO che hanno concluso, riportandosi alla memoria depositata e chiedendo:
– in via principale, l’annullamento con rinvio dei provvedimenti impugnati; – in via subordinata la rimessione alle Sezioni Unite della sufficienza o meno dell’indicazione dell’energia elettrica al fine della contestazione dell’aggravante ex art. 625 n. 7 c.p.;
– in via gradatamente subordinata che venga sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 517 e 219 c.p.p. per contrasto cn gli artt. 112 e 3 Cost., nonché con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, § 3, lett. a), CEDU;
udito il difensore avvocato (omissis) (omissis) che chiede la conferma del provvedimento impugnato e il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Ha proposto ricorso per cassazione per saltum il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, avverso la sentenza dello stesso Tribunale con la quale, in data 7 giugno 2023, è stato dichiarato non doversi procedere nei confronti di (omissis) (omissis), in ordine al reato di furto aggravato di energia, per mancanza di querela.
(omissis) era stato tratto a giudizio per rispondere del predetto furto, contestato come aggravato ai sensi dell’art. 625 n. 2 cp. per essere stato commesso mediante un allaccio abusivo e diretto alla rete di (omissis) Distribuzione spa.
La prima udienza, fissata al 24 gennaio 2023 , su decreto di citazione del 23 novembre 2021, veniva rinviata per irregolarità della notifica all’imputato.
Alla susseguente udienza, del 7 giugno 2023, essendo, nel frattempo, entrata in vigore la norma della c.d. riforma Cartabia (d.Igs. n. 150 del 2022) che aveva mutato il regime di procedibilità del reato di furto aggravato, come contestato, assoggettandolo alla querela di parte, il PM di udienza, preso atto della applicabilità della nuova disciplina anche ai reati oggetto di procedimenti in corso, effettuava la contestazione suppletiva della circostanza aggravante di cui all’art. 625 n. 7 c.p., idonea a rendere quel reato nuovamente procedibile di ufficio.
La difesa chiedeva, invece, dichiararsi la, ormai già maturata, causa di improcedibilità e il Tribunale disponeva in conformità.
Osservava il Tribunale che la contestazione suppletiva era stata effettuata tardivamente e cioè dopo il maturare della causa di improcedibilità: evenienza verificatasi il 30 marzo 2023, quando era scaduto – senza iniziative della PO – il termine di tre mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore della riforma Cartabia sul punto, termine assegnato dal legislatore, relativamente ai processi in regime transitorio (art. 85 d. Igs. cit.), alla persona offesa che aveva visto mutare il regime di procedibilità del reato di furto aggravato, originariamente denunciato e avviato al giudizio in modo regolare.
La tardività della contestazione suppletiva e quindi la sua inidoneità a produrre gli effetti giuridici propri derivavano, secondo il Tribunale, dal pacifico panorama giurisprudenziale secondo cui l’accertata mancanza di una condizione di procedibilità osta allo svolgimento di qualsiasi attività processuale, imponendo al giudice di dichiarare immediatamente e preliminarmente la improcedibilità stessa.
Citava a sostegno della tesi assunta, Sez. 3, Sentenza n. 43240 del 06/07/2016 Ud. (dep. 13/10/2016) Rv. 267937 – 01 secondo cui il difetto della condizione di procedibilità (nella specie: querela), impedendo la valida costituzione del rapporto processuale, inibisce ogni valutazione del fatto imputato e preclude, quindi, la pronuncia di proscioglimento, secondo la regola della prevalenza, per evidenza della causa di non punibilità nel merito.
Applicava anche estensivamente Cass. Sez. 5, n. 48205/19, Rv 278039, sentenza che aveva affermato la insensibilità del giudizio, per reato ormai prescritto, alla eventuale sopravvenuta contestazione di aggravante speciale idonea ad incidere, allungandolo, sul tempo di prescrizione del reato.
Il PM ricorrente deduceva la inosservanza dell’art. 625 n. 7 c.p., essendo stata effettuata la regolare contestazione suppletiva della aggravante capace di rendere il reato perseguibile di ufficio.
Per la odierna udienza, fissata nelle forme della trattazione orale, la Procura Generale ha fatto pervenire note di udienza che poi ha illustrato.
Ha concluso chiedendo, in via principale, l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata sul presupposto che è stata erroneamente dichiarata la improcedibilità per mancanza di querela, relativamente ad una contestazione di reato, invece, procedibile di ufficio.
L’imputazione, così come formulata, e cioè con il riferimento al furto di energia, doveva ritenersi inclusiva anche della contestazione della aggravante della destinazione del bene a pubblico servizio in quanto l’energia elettrica è, di per sé, bene destinato a pubblico servizio. In via subordinata ha chiesto, sul punto, la rimessione alle Sezioni unite essendo in atto un contrasto giurisprudenziale.
In via ancora gradata, e per l’ipotesi di mancato accoglimento delle prime istanze, ha chiesto affermarsi il principio della corretta ed efficace contestazione suppletiva come effettuata dal PM di udienza dinanzi al giudice a quo.
E, per il caso di mancato accoglimento anche della terza richiesta, ha sollecitato l’incidente di legittimità costituzionale – per contrasto con gli artt. 3 e 112 Cost.- relativamente al combinato disposto degli artt. 129 e 517 c.p.p., nella lettura secondo cui rimane preclusa la rilevanza della contestazione suppletiva di una aggravante da cui dipenda la procedibilità di ufficio di un reato, anche quando la procedibilità a querela di questo sia stata il portato di una norma sopravvenuta alla formulazione della imputazione, originariamente corretta perché soggetta a procedibilità di ufficio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso del PM merita accoglimento.
1.1. E’ fondata, infatti, la dedotta violazione dell’art. 625 n. 7 c.p., perchè risulta pronunciata sentenza di non doversi procedere per mancanza di querela con riferimento ad una fattispecie di reato da ritenersi, invece, procedibile di ufficio.
E la ragione dell’accoglimento del ricorso sta, in primo luogo, nel rilievo che, nel caso concreto, come si dimostrerà, il capo di imputazione era stato ab origine formulato con riferimento ad una serie di elementi descrittivi e qualificativi che hanno reso pienamente esercitabili i diritti di difesa anche in relazione alla circostanza aggravatrice dell’essere stato, il bene sottratto, destinato a pubblico servizio.
1.2. Con riferimento al furto aggravato ex art. 625 n. 7 (per le ipotesi diverse da quelle dell’aggravante della destinazione a pubblica fede), assieme ad alcune altre ipotesi indicate nello stesso art. 624, infatti, è pacifico – atteso l’inequivoco dato letterale dell’art. 624, comma terzo, c.p. – che sia sopravvissuta la procedibilità di ufficio, anche dopo la modifica, operata dall’ art. 2 d. Igs. n. 150 del 2022, della procedibilità relativa alla generalità dei reati di furto aggravato nel senso della sopravvenuta perseguibilità di questi soltanto su querela di parte. Regime più favorevole, applicabile anche ai reati oggetto di processi in corso, in virtù del disposto dell’art. 2, comma 4, cod. pen.
1.3. Occorre anche dare atto che il non avere, il PM ricorrente, dedotto specificamente la preannunciata procedibilità di ufficio anche con riferimento alla contestazione di reato così come originariamente formulata dal suo Ufficio, non è di ostacolo alla ricostruzione in tal senso dell’assetto processuale, ad opera di questa Corte di legittimità.
Ed infatti, l’accesso agli atti e al fascicolo processuale, consentito alla Corte nel caso di deduzione di error in procedendo, permette ed anzi rende doveroso riconoscere la fondatezza del petitum del ricorso per cassazione, come specificato dal PM, che ha comunque inteso sollecitare il “punto” della ritenuta violazione, nel caso di specie, dell’art. 625 n. 7 c.p. ed il riconoscimento della procedibilità di ufficio di un reato qualificato invece, erroneamente, dal giudice a quo, come procedibile a querela di parte.
2. In altri termini, fermo il petitum del ricorso, l’esame della causa petendi enunciata nei motivi relativi alla piena efficacia della contestazione suppletiva volta a far mutare il regime di procedibilità, presuppone necessariamente la soluzione della questione ad essa preliminare e pregiudiziale e cioè quella della individuazione dei casi in cui tale contestazione suppletiva si riveli indispensabile in relazione al fine perseguito, ovvero non necessaria perché il problema della individuazione del regime di procedibilità ha trovato già, nella dinamica processuale, una soluzione autonoma e diversa.
2.1. Ciò posto, occorre anche dare atto del variegato panorama giurisprudenziale che fà da sfondo alla questione qui evocata, instabile al punto che con ordinanza del 7 dicembre 2023, era stato sollecitato l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
Si registra infatti, da un lato, l’orientamento per il quale la circostanza aggravante in esame (destinazione del bene a pubblico servizio) non deve essere necessariamente ed espressamente enunciata nel capo di imputazione quando questo abbia ad oggetto un bene, come l’energia elettrica, la cui caratteristica intrinseca è proprio quella appena evocata, sicchè la stessa citazione del bene comporta di per sé un unico significato e la possibilità di una univoca attivazione dei poteri difensivi (v., tra le massimate, Sez. 4 , n. 48529 del 07/11/2023, Rv. 285422; Sez. 5 , n. 2505 del 29/11/2023 (dep. 2024) Rv. 285844 – 01 ).
In senso diverso si è d’altro canto anche affermato che, sempre in tema di furto, non possa considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza l’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen., costituita dall’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a pubblico servizio, nel caso in cui nell’imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito, direttamente o mediante l’impiego di formule equivalenti ovvero attraverso l’indicazione della relativa norma (v., tra le massimate, Sez. 4 – n. 46859 del 26/10/2023, Rv. 285465 – 01; Sez. 5 -, n. 26511 del 13/04/2021 , Rv. 281556 – 01; Sez. 5, n. 3741 del 22/01/2024, Rv. 285878).
2.2. La questione, oggi, richiede una diretta scelta di campo, nel rispetto del provvedimento di avvenuta restituzione del ricorso rimesso, ai sensi dell’art. 172 disp. att. c.p.p., essendo stata espressamente sollecitata alle sezioni semplici, in tale provvedimento, una rinnovata analisi della questione alla luce della sentenza delle SSUU, ric. Sorge, n. 24906 del 18/04/2019, il cui insegnamento è stato nel senso che è sempre consentita ed è legittima la “contestazione in fatto di una circostanza aggravante la cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esaurisca in comportamenti”… “riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive”: e l’energia potrebbe essere ritenuta già descritta, dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 5 , n. 1094 del 03/11/2021 Ud. (dep. 2022 ), Rv. 282543 – 01 ; Sez. 4 , n. 48529 del 07/11/2023, Rv. 285422 – 01), quale bene connotato dalla destinazione finale al pubblico servizio.
3.1. Ritiene il Collegio che la lettura della sentenza delle SSUU Sorge fornisca una serie di strumenti ermeneutici utili per impostare la ricerca della soluzione del caso in esame.
Il nucleo forte della motivazione della citata sentenza è, in primo luogo, quello della chiara iscrizione del tema della contestazione della circostanza aggravante nel perimetro della necessità di una informazione dettagliata, diretta all’imputato, circa la natura del fatto che vale ad aggravare le conseguenze sanzionatorie.
Necessità fatta derivare non solo dalla inequivoca formulazione delle plurime norme codicistiche che descrivono la modalità con la quale deve essere effettuata la contestazione del fatto e delle sue aggravanti, ma anche e soprattutto dalla considerazione del livello di tutela preteso al riguardo dalla Convenzione edu (art. 6, par. 3, lett. a) in materia di diritti fondamentali qual è, per l’appunto, quello inerente la difesa dell’imputato nel processo.
Se ne fa discendere, da un lato, nella sentenza Sorge, il riconoscimento che tal genere di informazione non richiede particolari enunciazioni o precisazioni tutte le volte nelle quali la fattispecie integratrice della circostanza aggravante è, per così dire “autoevidente”.
E’ sufficiente, cioè, citare nel capo di imputazione l’oggetto della condotta delittuosa, quando questo è di per sé evocativo del bene la cui lesione determina l’aggravamento di pena (e di tutte le conseguenze connesse, come il regime relativo alla procedibilità).
Il riferimento più semplice potrebbe essere quello relativo alla aggravante dell’uso dell’arma come nel caso dell’art. 585 c.p., quando nel capo di imputazione si descriva una azione lesiva compiuta con una pistola, o con un collo di bottiglia, etc. pur senza formalmente menzionare la fattispecie normativa appena evocata.
3.2. Deve anche precisarsi, al riguardo, che il carattere “autoevidente” dell’elemento aggravatore non può farsi discendere dal carattere più o meno incontroverso dell’inquadramento di esso da parte della giurisprudenza.
Se così fosse – a parte la considerazione degli sviluppi a cui è sempre aperta la interpretazione giurisprudenziale – nella sentenza Sorge non si sarebbe pervenuti a riconoscere la necessità di contestazione “ad hoc” in relazione ad una serie di casi riportabili alla aggravante dell’art. 476, comma 2, c.p. , come quello del verbale redatto dalla Polizia giudiziaria, o della autentica del notaio, atti pacificamente inquadrati dalla giurisprudenza nel novero di quelli fidefacenti.
Necessità che è stata invece ricondotta alla qualità articolata delle questioni e del percorso logico/giuridico che l’aggravante è atta ad evocare, in linea di principio, nei confronti di tutti i protagonisti della vicenda processuale, primo fra i quali l’imputato il quale, nei gradi di merito, esercita in vari momenti anche difese personali.
Il parametro per riconoscere la immediata percepibilità della portata giuridica aggravatrice insita nella evocazione di un fatto o di un atto è, dunque, la sfera delle conoscenze dell’uomo medio e cioè la possibilità per tale “agente” di percepire con un ragionamento semplice e diretto, la natura dell’atto o comportamento contestati come capaci di rendere il fatto in esame, esposto ad una valutazione più severa.
3.3. D’altro canto, però, nella sentenza Sorge, si ricostruisce in modo articolato e non con una soluzione rigida la questione riguardante le modalità di contestazione delle aggravanti che non presentano la caratteristica appena descritta: nel senso che, una volta riconosciuto che la circostanza aggravante è integrata da elementi che richiedono un apprezzamento giuridico/fattuale di natura complessa il cui esito è necessariamente “aperto”, per le SSUU è, si, doverosa una contestazione che risulti chiara e precisa e che richiami l’imputato ad una difesa accorta e puntuale, al riguardo; ma è anche consentito che il connotato giuridico in questione possa ritenersi adeguatamente contestato ed evidenziato mediante “espressioni evocative” che lo riguardino puntualmente.
E che, perciò, risultano anche idonee a prendere il posto della contestazione formale (quella cioè effettuata mediante la indicazione dell’articolo di legge o del comma in cui è menzionata l’aggravante).
Ed è questo lo snodo rilevante della sentenza Sorge che, se da un lato offre indicazioni preziose circa i limiti da porre alla c.d. “contestazione in fatto” quando l’aggravante è di natura “valutativa”, d’altra parte, per questa ipotesi, non pretende di dettare un criterio inflessibile riguardante le modalità attraverso le quali possa perseguirsi l’intento di una contestazione chiara e precisa circa la natura effettiva del fatto aggravatore.
E, per questo, finisce per demandare la soluzione alla analisi del caso per caso: il che è anche la ragione delle diverse sensibilità alla base del contrasto giurisprudenziale venutosi a creare. Invero, il ricorso alla perifrasi o al giro di parole con cui si significa una realtà cui ci si potrebbe riferire con un unico termine – da ritenersi consentito per le aggravanti “valutative” – si distingue dalla “contestazione in fatto” – invece non consentita.
La perifrasi infatti, insiste proprio sul connotato speciale della aggravante, descrivendolo e quindi richiamandolo alla attenzione della difesa, mentre la “contestazione in fatto” è null’altro che la descrizione del comportamento contestato, attraverso la descrizione di elementi evocativi della fattispecie di base.
Una descrizione, cioè, formulata – nella prospettiva che qui interessa – in modo dispersivo e non mirato, con riferimento all’elemento aggravatore.
4. Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene di uniformarsi alla giurisprudenza secondo cui ha natura “valutativa” e non “autoevidente” la circostanza aggravante dell’essere il bene, oggetto di furto, destinato a pubblico servizio; ritiene anche, però, che essa possa essere ritenuta idoneamente contestata quando si faccia ricorso a perifrasi che, di quella destinazione, siano una univoca esemplificazione.
La destinazione del bene-energia, oggetto di furto, a pubblico servizio, non pare un connotato intrinseco e autoevidente del bene medesimo, posto che, per essere affermato o negato, richiede una complessa valutazione da parte dell’interprete, anche riguardante norme extra- penali.
Ciò che determina la punizione più grave è, infatti, la dimensione pubblica e collettiva dell’interesse eventualmente attinto nel caso concreto, tale da non avere reso ragionevole, per il legislatore del 2022, l’estensione anche ad esso del novellato regime di procedibilità a querela del derubato. L’aggravante in questione mira invero a punire più severamente l’azione ablativa dell’agente in quanto pertinente ad un bene che, per volontà del proprietario o del detentore, ovvero per la qualità ad essa inerente, serve ad un uso di pubblico vantaggio.
Ne discende, ad esempio, che il furto di energia auto-prodotta da un privato e destinata da questi al proprio uso personale, non dovrebbe ricadere nell’ambito di operatività della aggravante.
Altra indagine demandata ai soggetti del processo per la verifica della sussistenza della aggravante in parola, oltre alla specifica destinazione, è poi quella relativa alla nozione più generale di “destinazione a pubblico servizio” che non è data dalla constatazione della fruizione pubblica del bene, bensì dalla qualità del servizio che viene organizzato anche attraverso la destinazione di risorse umane e materiali, e che è destinato appunto alla soddisfazione di un bisogno riferibile alla generalità dei consociati (Sez. 6, n. 698 del 03/12/2013, dep. 2014, Giordano, Rv. 257773).
Tale indagine attinge anche il tema, a lungo dibattuto soprattutto nel passato sia da parte della giurisprudenza che della dottrina, della natura della aggravante come “di danno” o “di pericolo” essendo richiesto da taluni, per la sua sussistenza, che il fatto del colpevole abbia pregiudicato o almeno esposto a pericolo di pregiudizio il servizio pubblico.
Il che non si realizzerebbe nel caso della energia elettrica che, malgrado la sottrazione, raggiunge sempre, sia pure per via traversa, la propria normale destinazione, che è quella di essere consumata senza particolari limitazioni quantitative (v. per la soluzione affermativa a tale problematica: Sez. 2, n. 1176 del 20/06/1967, Corona, Rv. 105901 – 01; Sez. 2, n. 602 del 21/03/1967, Russo, Rv. 104749 – 01; Sez. 2, n. 49 del 17/01/1967, Grutti, Rv. 104369 – 01; Sez. 2, n. 1663 del 25/11/1966 dep. 1967, Zerillo, Rv. 104717 – 01; Sez. 2, n. 521 del 25/03/1966, Capra, Rv. 102364; Sez. 2, n. 1393 del 15/10/1965, dep. 1966, Cacocciola, Rv. 100071; da ultimo, v. Sez. 4, n. 48043, del 03/10/2023, Cascone, n.m.; per la soluzione contraria, Sez. 4, n. 21456 del 17/04/2002, Tirone, Rv. 221617 – 01; conf. Sez. 4, n. 1850 del 07/01/2016, Cagnassone, Rv. 266229 – 01; Sez. 4, n. 48529 del 07/11/2023, Marcì, Rv. 285422 – 01).
Va infine considerato che la qualificazione della energia elettrica come servizio pubblico, riferito tanto alla fase della produzione che a quella della distribuzione, è stata il frutto di una serie di interventi normativi primari e secondari volti a disciplinare positivamente tali fasi con regolamentazione pubblica derogatoria, ad assoggettare il gestore al dovere di imparzialità e ad affermare la destinazione istituzionale dell’attività al pubblico, in modo da comprendere solo le attività che soddisfano direttamente i bisogni collettivi e non quelle che perseguono tale scopo solo in via strumentale.
Si pensi alla I. n. 146 del 1990, che qualifica l’approvvigionamento di energie e dei prodotti energetici, come servizi pubblici essenziali, alla direttiva attuativa della Presidenza del Consiglio dei ministri del 27 gennaio 1994, alla legge istitutiva della Autorità amministrativa per l’energia e il gas ex I. 14 novembre 1995 n. 481.
Anche tale produzione normativa è stata il frutto di un prolungato dibattito interpretativo essendosi passati, nel tempo, dalla preferenza per un inquadramento “soggettivo” dell’attributo “pubblico” riferito al servizio, ad una lettura invece in senso “oggettivo” che riconosce rilevanza alle prestazioni dei servizi pubblici non in ragione del soggetto che ne assicura la fornitura quanto delle caratteristiche oggettive delle prestazioni erogate in considerazione del numero indeterminato dei destinatari che ne traggono giovamento.
Pure l’art. 625 n. 7 bis c.p. che conforma l’effetto aggravatore ivi previsto al fatto che il bene sottratto afferisca ad un servizio pubblico – tale qualificando espressamente quello di erogazione della energia – attribuisce, dal canto suo, rilevanza decisiva alla condizione che debba trattarsi di servizio gestito da soggetto pubblico o privato in regime di concessione pubblica.
5. Tutte le riflessioni fin qui illustrate danno ragione della conclusione di ritenere l’aggravante in questione come connotata da componenti di natura valutativa.
Tuttavia consentono anche di concludere per la idoneità, accanto alla contestazione formale della aggravante, di un tipo di contestazione non formale, seppur doverosamente indicativa della finalità in gioco: e cioè quella di rendere manifesto all’imputato che dovrà difendersi dalla accusa di avere sottratto un bene posto al servizio di un interesse della intera collettività e diretto a vantaggio della stessa.
E tale scopo appare raggiunto quando nel capo di imputazione si faccia menzione di una condotta di furto di energia posta in essere mediante allaccio diretto alla rete di distribuzione dell’ente gestore, rete, per l’appunto, capace di dare luogo ad un “servizio” e destinata a raggiungere le utenze terminali di un numero indeterminato di persone, per soddisfare una esigenza di rilevanza “pubblica” (contestazione, peraltro, diversa da quella in esame nella recente sentenza n. 3741 del 2024 che, per tale motivo, non appare esporre una conclusione in contrasto con quella qui raggiunta).
Discende da quanto sopra esposto che il giudice a quo, nel presente processo, in cui il capo di imputazione presentava la indicazione appena ricordata, ha fatto un uso errato della regola di giudizio posta dal combinato disposto dell’art. 627 n. 7 in relazione all’art. 624 comma 3 c.p.: infatti, pur in presenza di contestata aggravante atta a rendere il reato perseguibile di ufficio, ha invece ritenuto rilevante la inconferente circostanza della mancanza di querela della PO.
6. Tutto ciò premesso, va poi evidenziato che la violazione di legge, come denunciata in ricorso, va analizzata e ritenuta anche con riferimento allo specifico angolo prospettico segnalato dal PM impugnante e ripreso nell’intervento della Procura Generale: argomento che si ritiene opportuno esaminare per dimostrarne la valenza decisiva in relazione alla soluzione da attribuire alla violazione di legge eccepita.
E ciò, anche per il caso in cui la formulazione del capo di imputazione non fosse stata ritenuta tale da consentire , in concreto, la prima opzione decisoria.
6.1. Si è segnalato, da parte della Procura Generale, come la questione della procedibilità di ufficio del reato contestato in concreto non possa che trovare soluzione rilevando la contestuale violazione del combinato disposto degli artt. 517 e 129 c.p.p. per avere, il giudice procedente, ritenuto prevalente la virtuale operatività della sopravvenuta causa di improcedibilità per mancanza di querela, rispetto alla efficacia che avrebbe dovuto invece riconoscersi alla previa contestazione suppletiva della aggravante della destinazione del bene – energia al pubblico servizio: contestazione volta a configurare ex novo una fattispecie aggravatrice idonea a determinare la procedibilità di ufficio, ed effettuata dal PM nella fase degli atti preliminari al dibattimento aperto il 7 giugno 2023, dopo che il processo era stato rinviato una prima volta in gennaio dello stesso anno, per irregolarità della notifica all’imputata assente.
Ha ritenuto il Tribunale che tale contestazione, pur ammissibile in linea di principio, non potesse spiegare, per tardività, i propri effetti, essendo questi inibiti dalla ormai sopravvenuta causa di improcedibilità del reato per mancata presentazione della querela, ad opera della PO, entro la data del 30 marzo 2023. Data fissata dal legislatore relativamente ai processi pendenti per uno dei reati che la riforma c.d. Cartabia aveva reso, per l’appunto, procedibili a querela di parte.
6.2. Ciò posto, ritiene in senso contrario questa Corte, che le ragioni poste a fondamento della decisione del Tribunale non possano essere condivise in relazione al caso che ci occupa.
La premessa è che l’analisi letterale e sistematica delle due norme processuali in esame, anche nel loro combinato disposto, restituisce la conformazione di un sistema che, da un lato (art. 129, comma 1, c.p.p.), prevede, tra i poteri/doveri del giudice disciplinati in via generale, quello di rilevare la mancanza della condizione di procedibilità “in ogni stato e grado del processo”; dall’altro (art. 517 c.p.p.) riconosce al PM, nel dibattimento – come anche nella udienza preliminare ai sensi dell’art. 423 c.p.p. e, nella udienza predibattimentale disciplinata dal novello art. 554-bis – il potere/ dovere (il PM “contesta”) di contestare una circostanza aggravante non menzionata nel provvedimento introduttivo. Senza neanche necessità di autorizzazione del giudice.
Lo scopo evidente della contestazione suppletiva è oggi enunciato nel citato art. 554-bis c.p.p. ed è quello di far sì che l’atto propulsivo contenente la contestazione contenga la definizione delle dette circostanze in termini corrispondenti a quanto emerge dal fascicolo e, conseguentemente, tali da far ritenere rispettato, alla fine del giudizio, il principio di corrispondenza fra il “chiesto” e il “pronunciato”.
La regola posta dall’art. 129 , comma 1, c.p.p., dal canto suo, è stata comunemente descritta, dalla giurisprudenza di legittimità, come quella che vale a stabilire un criterio di prevalenza delle formule proscioglitive in esso previste, sostanziali o processuali – quando queste si presentino chiare – su qualsiasi attività processuale ulteriore, anche volta ad approfondimenti istruttori in favore dell’imputato.
É in tal senso che deve essere inteso il principio affermato da Cass. Sez. 2, n. 45160 del 2015, Rv 265098, citata dal Tribunale nella sentenza impugnata, principio per cui, a fronte della mancanza di una condizione di procedibilità – nella specie, la querela – resta inibita qualsiasi ulteriore, successiva, indagine in fatto, compresa quella della esistenza in vita dell’imputato (Cass. Sez.5. n. 4746 del 1995; Rv 204841; SSUU, n. 49783 del 2009, Rv 245163).
La relazione fra l’art. 517 e l’art. 129, d’altro canto, inerisce ad una situazione processuale diversa, ed anzi ribaltata rispetto a quella appena descritta, e cioè alla ipotesi del rapporto tra la contestazione di una aggravante capace di incidere su alcuni caratteri del reato rilevanti per la procedibilità o per la estinzione e la successiva dichiarazione della stessa causa di non punibilità, seppure già virtualmente maturata prima della contestazione suppletiva.
Rispetto a tale relazione, non viene in rilievo la giurisprudenza che dà prevalenza alla situazione di improcedibilità per mancanza di querela poco sopra richiamata, per la semplice ragione che, in quei casi, la Corte non si è espressa sul rapporto tra i poteri processuali di contestazione che il codice di rito attribuisce al pubblico ministero e la causa di non punibilità, ma soltanto sugli effetti di quest’ultima in ordine alle scelte decisorie del giudice che procede, optando per l’immediata declaratoria di improcedibilità.
6.3. La relazione sistematica fra l’art. 517 e l’art. 129 del codice di rito è stata analizzata dapprima dalla giurisprudenza facente capo alla sentenza delle SSUU De Rosa, n. 12283 del 2005, e, successivamente, da altro caposaldo della esegesi a Sezioni Unite costituito da SSUU Domingo, n. 49935 del 2023, che ha interpretato evolutivamente i precetti antecedentemente enunciati, valorizzando, tra gli altri, quelli della sent. SSUU Perroni n. 539 del 2020.
La prima pronuncia – pur massimata in ordine al tema specificamente devoluto che era quello della prospettata illegittimità della pronuncia ex art. 129 c.p.p. , ad opera del Gip, con rito “de plano” – si era data carico di precisare perché tale rito, senza contraddittorio, fosse inidoneo e di indicarne la causa, da un lato, nel rilievo che l’art. 129 c.p.p. non attribuisce al giudice un potere ulteriore ed autonomo al di fuori di quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo (artt. 425, 469, 529, 530 e 531 stesso codice): epilogo che dunque deve avvenire con le precisate cadenze e modalità procedimentali e non in modo disancorato da queste; dall’altro, nel fatto che una pronuncia estemporanea ed anticipata della causa di non punibilità incide negativamente sulla partecipazione al procedimento del P.M., al quale viene precluso l’esercizio delle facoltà tese eventualmente a meglio definire e suffragare l’accusa, e determina la violazione del diritto di difesa dell’imputato, al quale viene interdetto l’esercizio di facoltà esperibili solo nell’ambito della fase o grado in essere (Sez. U, n. 12283 del 2005, Rv . 230529 – 03).
Il portato essenziale dell’art. 129 c.p.p. è stato cioè individuato, dalla sentenza SSUU De Rosa, in primo luogo, nella inibizione al giudice, susseguente alla rilevazione della causa di non punibilità, dei poteri istruttori relativi al thema decidendum, con l’effetto che l’ambito della sua cognizione deve rimanere cristallizzato allo stato degli atti. E ciò, in nome della semplificazione del processo e del favor rei.
Ma non anche nella inibizione della attività processuale – diversa da quella istruttoria- che deriva dal diritto delle parti all’ascolto nel contraddittorio, avendo esse la potestà di dare sfogo alle pretese proprie della fase processuale in essere. E tra queste, viene espressamente richiamata, nella motivazione della sentenza De Rosa – accanto a taluni poteri e diritti dell’imputato e della PO- l’esclusiva potestà del P.M. di modificare l’imputazione.
Si trattava di una ricostruzione sistematica dei due istituti in gioco, tale per cui, collocando la rilevazione della causa di proscioglimento all’esito della singola fase processuale e, dunque, riconoscendole efficacia giuridica per effetto non del suo semplice maturare (criterio cronologico) ma della sua dichiarazione giurisdizionale col provvedimento conclusivo della fase, si vitalizzava a tutti gli effetti il segmento processuale del contraddittorio e si rendeva plasticamente evidente, ad esempio, che alla ammissibilità della contestazione suppletiva era inscindibilmente connessa la sua efficacia giuridica.
Sicché, la contestazione suppletiva di una aggravante capace di incidere sulla procedibilità non poteva che produrre esattamente tale effetto.
La seconda pronuncia sopra citata, e cioè quella della sentenza SSUU Domingo, posteriore di quasi un ventennio, ha accolto la suddetta sistematica ma la ha anche “rivista” in un punto essenziale, secondo una prospettiva, come detto, che appare evolutiva in una ottica di ricomposizione costituzionalmente conforme di talune dinamiche interne all’art. 129 c.p.p..
Nel richiamare adesivamente anche la sentenza De Rosa, il successivo approdo giurisdizionale, riguardante un caso di contestazione suppletiva a fronte della maturata causa di estinzione del reato, ha mutato il rapporto di prevalenza fra la contestazione suppletiva e la causa di estinzione precedentemente perfezionatasi ed ha rilevato che questa, per quanto dotata di forza giuridica per effetto della sentenza conclusiva della fase o del grado, tuttavia la acquisisce “ora per allora” con riferimento al momento non della sua dichiarazione formale ma a quello della sua maturazione.
Ne consegue che l’attività processuale eventualmente svolta dopo tale momento non produce effetti, rimanendo neutralizzata dall’espandersi degli effetti della causa estintiva. Il correlato segmento processuale viene presentato come sterilizzato.
La ratio di tale reimpostazione della questione complessiva appare riconducibile all’apprezzamento dei valori costituzionali sottesi alla prevalenza massima accordata al funzionamento della causa di non punibilità della prescrizione del reato e alla accentuazione del suo dover essere dichiarata con “immediatezza” (così la rubrica dell’art. 129 c.p.p.): essenzialmente, sembra al Collegio, quelli condensati nel principio della ragionevole durata del processo.
Non sembra, viceversa, venire in esame la tutela derivante dalla presunzione di non colpevolezza che non consiste comunque in un presunto diritto dell’imputato al proscioglimento anticipato, ma (come specificato anche dalla giurisprudenza CEDU, Allen c. il Regno Unito (n. 25424/09, 12 luglio 2013), è una garanzia processuale nell’ambito del procedimento penale che si ripercuote su ambiti diversi quale quello della distribuzione dell’onere della prova, dell’utilizzabilità di presunzioni legali, del principio di non auto- incriminazione, della pubblicità e di eventuali dichiarazioni premature circa la colpevolezza di un imputato (§ 93).
6.4. Orbene, la verifica della automatica possibilità di estensione del principio di diritto enunciato nella sentenza appena richiamata, anche alla causa di improcedibilità per difetto di querela, tenuto conto anche delle osservazioni del Procuratore Generale, ha fatto però sorgere nel Collegio talune perplessità, in un caso, come quello in esame, connotato da normativa processuale specifica e sopravvenuta.
I temi da affrontare sono:
1) quello della incidenza della peculiare regolamentazione derivante dalla c.d. riforma Cartabia che ha coinvolto, nel mutamento delle regole sulla nuova procedibilità a querela, con apposito regime transitorio, anche reati sub judice originariamente contestati secondo il rito della procedibilità di ufficio;
2) quello, correlato, delle ricadute del principio di diritto enunciato dalla SSUU Domingo, ove applicato in modo automatico al caso processuale in esame, soprattutto con riferimento alla possibile disparità di trattamento tra le parti (PM e PO, come si vedrà);
3) quello della sovrapponibilità o meno del quadro costituzionale di riferimento per la causa di estinzione e per la causa di improcedibilità e conseguentemente;
4) quello della possibilità o meno di una valutazione scissa delle plurime ipotesi di non punibilità all’interno dell’art. 129 c.p.p.
Per tale ragione, la presente decisione, pur non ponendosi in linea col precedente rappresentato dalla citata Sez. 5, n. 3741 del 2024, Rv 285878 (la sola, a quanto risulta, che ha potuto argomentare sulla base dei principi della sentenza SSUU Domingo), non appare ancora tale da radicare un contrasto interpretativo maturo da tutti i punti di vista, dal momento che si propone di rappresentare anche profili di analisi ulteriori, come segnalati ex novo dalla Procura Generale nel proprio intervento e correlati alla peculiarità del regime transitorio della riforma Cartabia in tema di nuova procedibilità a querela.
E sempre per tale ragione, non sembrano direttamente utili, ai fini della conformazione di un contrasto da rimettere alle SSUU, i precedenti giurisprudenziali che, pur attestandosi sul principio della legittimità della contestazione suppletiva della aggravante dell’art. 625 n. 7 in caso di sopravvenuta improcedibilità del reato, tuttavia originano da decisioni pubblicate antecedentemente alla conoscenza delle motivazioni della sentenza SSUU Domingo (Sez. F , n. 43255 del 22/08/2023 Ud. (dep. 24/10/2023 ) Rv. 285216 – 01; Sez. 4 – , n. 50258 del 22/11/2023 Ud. (dep. 18/12/2023 ) Rv. 285471 – 01; Sez. 4 – , n. 47769 del 22/11/2023 Ud. (dep. 29/11/2023 ) Rv. 285421 – 01 ; contra Sez. 4 – , n. 44157 del 03/10/2023 Ud. (dep. 03/11/2023 ) Rv. 285647 – 01).
6.5. L’analisi della prima questione sopra enumerata fa emergere la peculiarità della situazione venutasi a creare con la vigenza del regime ordinario e transitorio previsto dalla riforma Cartabia (artt. 2 e 85 del d.lgs. n. 150 del 2022) in tema di furto aggravato: esso è passato dalla procedibilità di ufficio alla procedibilità a querela, salva la ipotesi- per quanto qui di interesse – dell’art. 625 n. 7 c.p. (con ulteriore eccezione riferita alla aggravante della esposizione alla pubblica fede).
In relazione alla massa dei reati di tal genere, contestati con aggravanti ex art. 625 diverse da quella indicata e portati a giudizio secondo le regole della procedibilità di ufficio poi superata, alla persona offesa, la normativa in questione ha riconosciuto il potere di “riportare” il reato sui binari della procedibilità, presentando querela entro il 30 marzo 2023 (3 mesi dalla entrata in vigore della riforma).
Al PM il sistema processuale riservava uno speculare e ordinario mezzo per il ripristino della procedibilità, attraverso lo strumento (art. 517 c.p.p.) della contestazione suppletiva della circostanza aggravante utile.
Negare gli effetti di tale legittimo atto propulsivo del PM, in ragione dell’operatività della causa di improcedibilità “ora per allora”, anche in casi, come quello in esame , nei quali – in ragione della assenza assoluta di attività processuale da un momento antecedente alla entrata in vigore della riforma Cartabia (30 dicembre 2022) ad un momento successivo a quello di maturazione effettiva della nuova causa di improcedibilità (30 marzo 2023), per rinvii disposti dal giudice – il PM non aveva possibilità alcuna di assumere l’iniziativa necessaria per adeguare il processo alle nuove regole, viene giudicato, da questa Corte, irragionevolmente discriminatorio e in conflitto col dovere del PM di esercizio e proseguimento della azione penale. Con messa in pericolo dei valori tutelati dagli artt. 3 e 112 Cost.
Per converso, il riconoscimento degli effetti del corretto esercizio del potere di contestazione suppletiva nel caso concreto non sembra porsi in contrasto col principio della “parità delle (n’0 armi” ( art. 111 Cost.) ove si consideri che, come già riconosciuto dalla giurisprudenza (Sez. 4- n. 48347 del 04/10/2023 Ud. (dep. 05/12/2023) Rv. 285682- 01) “ai fini della pronuncia di proscioglimento, anche per ragioni di rito introdotte da modifiche normative intervenute nel corso del giudizio, una volta formulata da parte del pubblico ministero la contestazione suppletiva di un’aggravante che rende il reato procedibile di ufficio, il giudice non può esimersi dal valutare le acquisizioni istruttorie onde adottare la decisione più favorevole per l’imputato”.
6.6. Al riguardo, deve porsi in adeguato risalto che l’esercizio del potere di contestazione suppletiva della aggravante, come riconosciuto dall’art. 517 c.p.p., non prevede decadenze o limitazioni, neppure nel caso in cui l’elemento di fatto aggravatore fosse emerso già prima dell’esercizio della azione penale.
Peraltro, quel potere – che è strettamente connesso e dipendente dal principio della obbligatorietà della azione penale – è stato riconosciuto in tali termini oltre che nella formulazione originaria del codice di rito, anche nella sua più recente revisione dovuta alla riforma Cartabia.
Questa, sulla scia di una significativa giurisprudenza di legittimità (v. SSUU Battistella, n. 5307 del 2007, relativa alla udienza preliminare) ha inteso regolamentare, anche per i processi privi di udienza preliminare, il caso della imprecisa formulazione del capo di imputazione da parte del PM – compresa esplicitamente la ipotesi della mancata contestazione di aggravanti- prevedendo una apposita fase (predibattimentale: art. 554-bis c.p.p.) finalizzata proprio ad apportare le necessarie modifiche, anche su sollecitazione del giudice.
Se, dunque, può affermarsi la sussistenza, nel vigente ordinamento, di un riconoscimento in via di principio del potere/dovere del PM di apportare, in ogni caso lo ritenga necessario per qualsiasi motivo, le opportune integrazioni del capo di imputazione in tema di aggravanti, a maggior ragione tale potere/dovere dovrebbe potersi esplicare quando la aporia da correggere risulti del tutto immune da sospetti di negligenza o intempestività del titolare della azione penale.
In altri termini, tenuto conto del momento in cui si è posto, per effetto della novella, il tema della nuova procedibilità del reato, e della durata del conseguente regime transitorio disegnato per la iniziativa anche fuori udienza della PO, la eventuale inattività processuale durante tale periodo di fatto impedisce al PM di reagire in tempo e di prevenire il rischio della declaratoria di improcedibilità del reato. Sicchè non appare ragionevole inibirgli il potere di contestazione suppletiva della aggravante nella prima udienza utile fissata dopo il 30 marzo 2023.
Non può, in particolare, farsi discendere, una simile inibitoria, dalla operatività “ora per allora” della causa di improcedibilità sopravvenuta perché la ratio di una simile, speciale ricostruzione effettuata dalla sentenza SSUU Domingo in relazione alla causa di estinzione della prescrizione (e cioè la preminenza di fatto accordata al principio di ragionevole durata del processo) non opererebbe in ugual modo nel caso della causa di improcedibilità sopravvenuta, connotante in genere processi allo stadio iniziale e non perenti a causa dello spirare del tempo massimo previsto dal legislatore per la risposta punitiva.
E soprattutto, processi in cui, nonostante il compendio probatorio già acquisito sul fatto-base, l’epilogo invece tutto processuale verrebbe fatto discendere dal ritardo (rispetto alla data massima per la presentazione della querela e cioè dopo il 30 marzo 2023) con il quale il PM, in base ad una scelta non libera ma condizionata dai rinvii processuali, reagisce al mutamento delle regole processuali “in corso” di giudizio: nessuno dubita infatti che la contestazione suppletiva della aggravante, effettuata entro il 29 marzo 2023, sarebbe produttiva di effetti.
Nel caso di improcedibilità sopravvenuta, semmai, il rapporto con il potere di contestazione suppletiva torna ad essere il frutto di un’opportuna valorizzazione del principio costituzionale della obbligatorietà della azione penale come tracciato dalla giurisprudenza maggioritaria al di fuori della ipotesi peculiare analizzata dalle SSUU Domingo che non risulta avere preso le distanze dalla sentenza De Rosa nel suo impianto generale. E l’apposizione di condizioni al potere integrativo di cui all’art. 517 c.p.p. apparirebbe irragionevole.
6.7. E che quello qui sostenuto debba ritenersi l’ approccio interpretativo stabilizzato nella giurisprudenza di legittimità, riguardo alla piena efficacia della contestazione suppletiva della aggravante sul regime della procedibilità, è dimostrato anche dalla lunga serie di interventi della Corte Costituzionale dovuti alle sentenze manipolative dell’art. 517 c.p.p.
A partire dalla sentenza n. 184 del 2014 , che a sua volta ha rievocato principi già espressi nelle sentt. n. 265 del 1994 e n. 333 del 2009, per giungere alla sent. n. 139 del 2015 – il cui percorso argomentativo è stato poi ripreso, tra le molte, dalle sentt. n. 141 del 2018, n. 82 del 2019 e n. 146 del 2022 – la Corte costituzionale, su quella base interpretativa costitutiva di diritto vivente, ha configurato la illegittimità dell’art. 517 nella parte in cui, pur a seguito della contestazione “tardiva” di circostanze aggravanti “idonee a determinare un significativo mutamento del quadro processuale anche riguardo al regime di procedibilità del reato”, non prevede la possibilità di restituzione nel termine per la effettuazione di scelte processuali dell’imputato dipendenti dalla contestazione come rinnovata. In quel caso, il registro della “discriminazione irragionevole” era stato evocato a vantaggio dei diritti difensivi.
Del resto, è sempre la Corte costituzionale a ricordare la naturale fisiologia, nell’impianto del nuovo codice accusatorio, delle modifiche della contestazione (v. sentenza n. 82 del 2019, Corte cost., §2.1.), come anche a sottolineare (v. sent. n.317 del 2009) , sia pur in un’ottica di tutela delle garanzie difensive e per le esigenze ineludibili del “giusto” processo, che la nozione di “ragionevole” durata del processo è sempre il frutto di un bilanciamento delicato di confliggenti interessi pubblici e privati, tra i primi elencando “l’obiettivo di raggiungere il suo scopo naturale dell’accertamento del fatto e dell’eventuale ascrizione delle relative responsabilità”.
Non sembra invece che abbia rilevanza diretta sulla casistica in esame, lo sviluppo argomentativo della sentenza della C. Cost. n. 230 del 2022 che, pure illuminante su alcuni innovativi principi, tuttavia risulta “neutra” ai fini della soluzione del quesito in esame.
Si deve a tale sentenza il chiarimento che, in caso di già avvenuta istruttoria con acquisizione di prove sufficienti per la condanna, è ragionevole che il legislatore abbia inibito (attraverso la conformazione dell’art. 521 c.p.p.) il potere del giudice di far regredire il processo al solo fine di consentire al PM la contestazione di una circostanza aggravante, non avvenuta prima per qualsiasi motivo.
Cioè si è riconosciuto che, nella situazione descritta, un adeguato bilanciamento fra i valori costituzionali in gioco – e cioè quello della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), da un lato, e quello della doverosità della azione penale dall’altra (art. 112 Cost.), ben possa avere determinato il legislatore, con l’art. 521 c.p.p., a far prevalere il primo, effettuando una scelta che non appare comunque irragionevole. Ma il presupposto dell’intero ragionamento è quello della sostanziale improduttività di effetti rilevanti sulla sorte finale del processo, ad opera della aggravante che sarebbe da contestare ex novo: una situazione processuale di per sè già matura per la condanna.
Nel caso qui in esame, invece, il riconoscimento degli effetti della contestazione suppletiva effettuata in udienza (e comunque senza la regressione denegata dal sistema dell’art. 521 c.p.p.) farebbe la differenza sulla sorte del processo in quanto il suo mancato apprezzamento da parte del giudice non si allineerebbe ad una condanna, ma porterebbe al proscioglimento attraverso una sentenza di natura meramente processuale.
Questa sarebbe la risultante di un mutamento delle regole sulla procedibilità a giudizio già avviato, e senza che il PM abbia avuto in concreto la possibilità di dare seguito al proprio mandato che è posto a garanzia anche del principio di uguaglianza.
7. Resta infine da esaminare la compatibilità della opzione interpretativa qui sostenuta, con la struttura dell’art. 129 c.p.p.: è il tema, cioè, del se le diverse situazioni processuali evocate nell’articolo citato esigano un trattamento unitario oppure siano assoggettabili anche a valutazioni talvolta non omogenee.
Tale seconda opzione appare consentita, soprattutto quando è funzionale ad una lettura compatibile costituzionalmente del fenomeno processuale in considerazione.
In primo luogo, assevera tale conclusione il rilievo che all’interno dell’art. 129 – che pure è norma riepilogativa degli epiloghi decisori “immediati”, in favor – il non doversi procedere per mancanza della condizione di procedibilità viene regolato in termini diversi nel primo e nel secondo comma. In base al primo comma, rappresenta una conclusione processuale che opera al pari di quella sostanziale per proscioglimento nel merito o per estinzione, e, di per sé, inibisce anche qualsiasi ulteriore attività istruttoria, o “qualsiasi altra indagine in fatto” anche diretta all’accertamento della assenza di responsabilità, come attestano le sentenze che in presenza di tale causa di non punibilità non ritengono consentita la comparata valutazione sulla contestuale sussistenza delle cause di proscioglimento nel merito (Cass. Sez. 6, n. 5455 del 2020, Rv 280784; Sez. 2, n. 9803 del 1984, Rv 166567; Sez.2, n. 45160 del 2015, Rv 265098; Sez. n. 4746 del 1996, Rv 204841; Sez. U, n. 49783 del 2009, Rv 245163).
Invece, in base al comma 2 dell’art. 129 la declaratoria di non doversi procedere per mancanza di condizione di procedibilità non è menzionata assieme alle cause di estinzione del reato che, dal canto loro, sono assoggettate alla regola della prevalenza del proscioglimento nel merito, quando evidente.
La causa di improcedibilità viene, cioè, dissociata – nel concorso con l’evidente prova di proscioglimento nel merito – dalle cause di estinzione del reato, così evidenziandosene la natura ontologicamente differente dipendente dall’essere, soltanto le seconde, un epilogo avente natura sostanziale che compete, subendolo, con l’omologo epilogo sostanziale, in favor.
In secondo luogo, va menzionata la giurisprudenza a Sezioni Unite (Sez.U, n. 24246 del 2004, Rv 227681, Chiasserini) che, in tema di rapporto tra giudicato sostanziale (da ricorso inammissibile) e causa estinzione del reato per remissione di querela, ha già dato prova di effettuare una distinzione rispetto alle altre cause di estinzione del reato elencate nell’art. 129 c.p.p., in ragione della peculiare struttura processuale degli effetti della remissione.
Ha infatti ritenuto la remissione capace di prevalere, a differenza delle altre cause estintive. In terzo luogo appare utile anche sottolineare gli speciali effetti della sentenza di non doversi procedere per mancanza di condizione di procedibilità, rispetto a quelli della sentenza che rileva l’estinzione del reato.
A differenza della sentenza che dichiara la prescrizione e che è idonea a dare luogo al divieto di ne bis in idem, la sentenza che dichiara non doversi procedere per mancanza di querela può dare luogo ad un giudicato instabile e non impedisce il nuovo esercizio dell’azione penale (v. artt. 345 c.p.p.) non solo se la querela sia in seguito presentata ma anche quando sia già stata regolarmente presentata, sia pure in un altro procedimento (Cass. Sez.1, n. 2405 del 1967, Rv. 106379).
Il complesso del rapporto così ricostruito fra contestazione suppletiva e maturata causa di improcedibilità, quantomeno in relazione alle coordinate temporali sopra evidenziate e alla novità rappresentata dalla riforma Cartabia sul tema, induce a concludere nel senso che deve essere riconosciuta piena efficacia giuridica e operativa alla contestazione suppletiva effettuata dal PM di udienza pur quando la improcedibilità si è virtualmente prodotta.
8. Tutto ciò premesso, e dovendosi dare atto che la ragione dell’accoglimento del ricorso del PM, come detto, e nel caso concreto quella della ritenuta attitudine della originaria contestazione di reato a renderlo procedibile di ufficio, la sentenza impugnata deve essere annullata e il rinvio va disposto, ai sensi dell’art. 569 comma 4 c.p.p., alla Corte di appello di Catanzaro per il relativo giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro per il relativo giudizio.
Così, deciso il 14 marzo 2024