La società di legali che cura pratiche assicurative tramite patti di quota lite risponde della truffa (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 12 luglio 2023, n. 30272).

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SECONDA SEZIONE PENALE

Composta da:

Dott. Elisabetta Rosi -Presidente-

Dott. Pierluigi Cianfrocca -Consigliere Rel.-

Dott. Lucia Aielli -Consigliere-

Dott. Francesco Florit -Consigliere-

Dott. Giovanni Ariolli -Consigliere-

ha pronunciato la seguente

SENTENZA                                                   

sul ricorso proposto nell’interesse di

(OMISSIS) (OMISSIS) & (OMISSIS) (OMISSIS) srl;

avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano del 21.12.2022;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere dott. Pierluigi Cianfrocca;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott. Alessandro Cimmino, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito (OMISSIS) (OMISSIS) in difesa della società ricorrente, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio o, in subordine, con rinvio, della ordinanza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 12.2022 il Tribunale di Milano, quale giudice del riesame delle misure cautelari reali, ha respinto il ricorso proposto nell’interesse di (omissis) (omissis) (omissis) srl contro il decreto adottato dal GIP in data 18.11.2022 con cui era stato disposto il sequestro, a fini di confisca, del denaro rinvenuto nella disponibilità della società ricorrente sino alla concorrenza della somma di euro 854.000,00 ovvero, in alternativa, sui beni mobili, immobili o crediti rinvenuti comunque nella sua disponibilità in relazione all’illecito amministrativo di cui al capo N) della incolpazione provvisoria;

2. ricorre per cassazione il difensore della società deducendo:

2.1. inosservanza o erronea applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 321 e 324 e 53 D. Lg.vo 231 del 2001 avendo il Tribunale del Riesame omesso di considerare che il sequestro preventivo era stato adottato in violazione del divieto di bis in idem:

rileva, infatti, che il decreto impugnato in sede di riesame era stato adottato in data 18.11.2022 nonostante che la precedente richiesta avanzata dal PM in data 3.2022 fosse stata respinta con provvedimento del GIP in data 15.6.2022 sul rilievo della assenza di profili di fumus commissi delicti avendo il quella sede il giudicante invitato gli inquirenti ad esplorare una diversa ricostruzione della vicenda che avesse nelle compagnie assicurative, e non negli assicurati, i destinatari della condotta asseritamente decettiva;

osserva che solo successivamente al rigetto della richiesta il PM aveva incaricato un consulente tecnico di verificare – con riguardo alle “pratiche di cui ai capi da A) a G)” – la corretta attribuzione dei punti di invalidità permanente e la compatibilità delle somme erogate dalle compagnie con i danni patiti dai sinistrati, attività poi compendiata nella annotazione di PG n. 117803/2022;

segnala che, per un verso, tali supplementari accertamenti non avevano interessato i capi M), N) e I), reati presupposti della responsabilità amministrativa della odierna ricorrente ma, per altro verso, avessero smentito la ipotesi di truffa ai danni delle compagnie assicurative;

se non ché, aggiunge, in data 17.10.2022 il PM aveva avanzato una nuova richiesta di sequestro preventivo sulla base degli stessi elementi già reputati inidonei con l’ordinanza del 15.6.2022 che, tuttavia, era stata accolta in paese violazione del divieto di bis in idem processuale pacificamente applicabile anche in sede cautelare; sottolinea, infatti, come non sia consentito al PM sollecitare il GIP a procedere ad un nuovo vaglio dei medesimi elementi già in precedenza apprezzati e giudicati inidonei alla adozione della misura;

evidenzia come, nel caso di specie, il Tribunale abbia omesso di considerare che alcun elemento nuovo, rispetto ai capi N), M) e I), era stato acquisito ed addotto dal PM con la nuova richiesta;

2.2. violazione di legge per inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 240 e 416 pen., 321, comma 2, cod. proc. pen., 19 e 53 D.Lg.vo 231 del 2001 con riferimento al capo N) avendo il Tribunale reputato confiscabili anche le somme percepite dalla società ricorrente a titolo di spese ed onorari:

richiama la censura articolata con il ricorso per riesame laddove era stato segnalato come illegittimamente il sequestro avesse attinto anche le somme “in chiaro” corrisposte alla società ricorrente dalle compagnie assicurative “a titolo di spese ed onorari” per la gestione delle pratiche di risarcimento di cui al capo I) e relative agli indennizzati (omissis) (omissis) per complessivi euro 854.000,00 e che invece erano state sequestrate perché considerate profitto direttamente riferibile al reato associativo;

richiama la motivazione con cui il Tribunale del Riesame ha respinto la censura sostenendo la configurabilità di un profitto quale derivazione diretta del reato associativo sulla scorta di una giurisprudenza che non si attaglia al caso concreto e, comunque, malamente invocata dai giudici del riesame; segnala, infatti, che le somme in sequestro non sono identificabili come profitto dei reati fine della contestata associazione per delinquere in quanto corrisposte dalle compagnie a prescindere dai patti di quota­ lite stipulati dagli indagati con i soggetti danneggiati;

evidenzia, ancora, come, alla luce della elaborazione giurisprudenziale della nozione di profitto, le somme attinte dal sequestro non possono rientrare nella nozione di profitto;

osserva, ancora, che i reati in esame rientrano nel novero dei reati “in contratto”, in quanto consumati all’interno di pattuizioni contrattuali in sé lecite e per le quali, di conseguenza, va distinto il profitto lecito da quello invece frutto di condotte penalmente rilevanti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è, complessivamente, infondato.

1. Il Tribunale ha in primo luogo ripercorso l’origine della indagine con la conclusiva ricostruzione della vicenda in termini di plurime, reiterate e seriali condotte truffaldine che sarebbero state consumata in danno degli assicurati, indotti a credere di aver diritto a risarcimenti ben inferiori al dovuto e loro legittimamente spettanti ed a sottoscrivere patti di quota-lite in favore delle società riconducibili al sodalizio criminoso.

Sulla scorta della ricostruzione dei fatti restituita dagli elementi investigativi acquisiti, il Tribunale ha ravvisato il fumus dei reati di associazione a delinquere finalizzato alla commissione di una serie di truffe (capi A-H della provvisoria incolpazione) oltre che all’autoriciclaggio (capo L della provvisoria incolpazione), considerando integrato un livello adeguato di gravità indiziaria in merito alla esistenza di una struttura organizzata, capeggiata e diretta da(omissis) (omissis) come capo promotore che, con la collaborazione ed la partecipazione di altri soggetti, ed avvalendosi di società che si occupavano della gestione di sinistri stradali, ha posto in essere un meccanismo truffaldino consistente nel far sottoscrivere alle vittime di sinistri patti di quote lite eccessivamente onerosi, tacendo sulla determinazione dell’importo che il sinistrato avrebbe potuto percepire, e sull’importo da retrocedere alle società a titolo di compenso, o sulla provvigione che le società assicuratrici avrebbero liquidato alle società di(omissis) così incassando gran parte degli indennizzi dovuti alle vittime.

Il Tribunale ha ritenuto correttamente argomentato, nel provvedimento genetico, anche il periculum in mora, avuto riguardo al fatto che la libera disponibilità delle somme provento di reato, poteva condurre all’aggravamento delle conseguenze della stessa consentendo il definitivo incameramento del provento delittuoso da parte degli indagati.

Con particolare riguardo alla società odierna ricorrente, i giudici del riesame hanno fatto presente che la (omissis) & (omissis) (omissis) srl è società di avvocati partecipata al 5% dalla moglie di (omissis) ed al 95% da (omissis) stretto collaboratore del (omissis) ed al quale la società, come anche la (omissis) (omissis) la (omissis) erano direttamente riconducibili.

Sempre in punto di fatto, era emerso (ed è circostanza incontroversa) che la (omissis) ha percepito, direttamente dalle compagnie ” … a titolo di onorari …” 305.000 per il sinistro di (omissis) 170.800 per il sinistro di (omissis) 183.000 per il sinistro di (omissis) 195.200 per il sinistro di (omissis).

Il GIP, come già accennato, aveva ritenuto il fumus dell’illecito di cui al capo N) avendo la società operato per gli scopi del sodalizio ( e, in particolare, in relazione al delitto di cui al capo N) in quanto, priva di un modello organizzativo idoneo, aveva gestito i sinistri ed incamerando gran parte degli indennizzi riconosciuti dalle assicurazioni.

2. Tanto premesso in fatto, rileva il collegio che le censure articolate con il ricorso non possono trovare accoglimento.

2.1. Il primo motivo, infatti, deduce la violazione del divieto di bis in idem assumendo, in questa sede, che il provvedimento del GIP era stato adottato sulla scorta dei medesimi elementi già acquisiti e, con provvedimento del GIP reso in data 15.6.2022, giudicati inidonei a fondare la adozione di una misura reale e, anzi, indurre quel giudice ad invitare la pubblica accusa a sondare una diversa ipotesi ricostruttiva.

Aggiunge che gli approfondimenti investigativi disposti dal PM ( con particolare riguardo alla consulenza tecnica) non avevano arrecato alcuna sostanziale novità, dal momento che le verifiche di natura medico legale erano state eseguite soltanto su alcuni degli episodi oggetto della provvisoria incolpazione ma non già sulle fattispecie qui in rilievo.

Tanto premesso, va in generale ribadito che la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, risolvendosi in un “errar in procedendo”, è deducibile nel giudizio di cassazione a condizione che la decisione della relativa questione non comporti la necessità di accertamenti di fatto, nel qual caso la stessa Sez. 2 -, n. 21462 del 20/03/2019, Manco, Rv. 276532 01; Sez. 6, n. 598 del 05/12/2017, B. Rv. 271764 – 01).

Al contrario, si è invece affermato che la violazione del divieto del “ne bis in idem” sostanziale non è deducibile per la prima volta davanti alla Corte di cassazione in quanto l’accertamento relativo alla identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, implica un apprezzamento di merito, né è consentito alle parti produrre in sede di legittimità documenti concernenti elementi fattuali (cfr., Sez. 2 -, n. 18559 del 13/03/2019, Zindato,  Rv. 276122 02 Sez. 2, n. 6179 del 15/01/2021, Pane, Rv. 280648 – 01).

Si è inoltre chiarito che, proprio in forza del divieto di “bis in idem”, operante anche in fase cautelare, il potere del pubblico ministero di richiedere l’applicazione di una misura per gli stessi fatti deve ritenersi esaurito con la prima richiesta, sicché esso non può essere esercitato nuovamente, in pendenza del relativo procedimento cautelare, salvo che si fondi su elementi nuovi, riguardanti gravi  indizi di colpevolezza o le esigenze cautelari (cfr., Sez. 6 – , n. 6555 del 18/01/2023, Di Fazio, Rv. 284267 01;  conf., Sez. 3 – , n. 37945 del 09/06/2021, Raschiani Rv. 282024 – 01, in cui la Corte ha affermato che il principio del “ne bis in idem” preclude l’emissione di un nuovo sequestro preventivo dei medesimi beni, ove lo stesso sia fondato su intercettazioni di conversazioni che, seppur non precedentemente trascritte, erano già disponibili all’atto dell’adozione del primo sequestro).

Ciò non di meno, la trasposizione, in ambito cautelare, degli effetti propri del giudicato formatosi sulle decisioni definitive, non può essere effettuata in termini assoluti, essa incontra dei limiti dovuti alle funzioni ed alle peculiarità delle misure cautelari.

In particolare, l’efficacia delle misure cautelari è intimamente connessa alla sussistenza ed alla permanenza delle condizioni di applicabilità, mentre il concetto di giudicato attiene a situazioni che hanno assunto il crisma della immutabilità e definitività.

Con riguardo agli effetti delle pronunce in materia cautelare, quindi, più che di “giudicato” si dovrebbe parlare di una preclusione endoprocessuale, che impedisce la reiterazione di provvedimenti aventi lo stesso oggetto, ed è sotto questo angolo visuale che il fenomeno assume una portata più ristretta, in quanto involge solo le questioni, esplicitamente o implicitamente, trattate e non anche quelle deducibili (e non dedotte).

Soprattutto, va ribadito che la preclusione opera allo stato degli atti, nel senso che dipende dal permanere della situazione di fatto presente al momento della decisione poiché la preclusione endoprocessuale è finalizzata ad evitare ulteriori interventi giudiziari, in assenza di una modifica della situazione di riferimento, rendendo inammissibili istanze fondate su motivi che hanno già formato oggetto di apposita valutazione (cfr., Sez. 2, n. 51199 del 01/10/2019, Rv. 278228; Sez.2, n. 49188 del 09/09/2015, Rv. 265555; Sez. 5, n. 1241 del 02/10/2014, Rv. 261724).

Nel caso in esame la difesa ritiene che le ragioni dedotte nella richiesta di sequestro preventivo avanzata dal P.M. ed accolta dal GIP con il provvedimento del 18.11.2022, fossero state già compiutamente vagliate nel primo provvedimento reiettivo del sequestro reso in data 15.6.2022: tale rilievo è, tuttavia, infondato.

Come osservato dal Tribunale, in quel provvedimento, il GIP aveva espresso dubbi in ordine alla destinazione del surplus risarcitorio alle vittime dei sinistri sicché, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la consulenza medico legale disposta dal PM, che ha certificato l’effettività e l’entità delle lesioni patite dalle vittime e la congruità dei compensi a loro dovuti, ha significativamente innovato il quadro indiziario posto a sostegno del fumus commissi delicti arrecando un quid novi che ha giustificato non solo l’adozione del provvedimento ablativo, ma anche l’emissione del provvedimento del riesame che lo ha confermato non ravvisando violazione del giudicato cautelare.

Deve ribadirsi, infatti, che in tema di impugnazioni cautelari, può costituire “elemento nuovo”, idoneo a superare l’effetto preclusivo derivante dal cd. giudicato cautelare, formatasi sulle questioni esplicitamente o implicitamente già dedotte, la consulenza tecnica che riesamini dal punto di vista tecnico-scientifico il tema generale di accertamento già valutato da una pregressa ordinanza cautelare di rigetto, non impugnata, al fine di superare i dubbi e le incertezze della precedente analisi (cfr., Sez. 5, n. 17971 del 07/02/2020,Rv. 279411; Sez. 4, n. 25104 del 03/06/2021, Rv. 281493).

Nel caso in esame, la consulenza tecnica svolta dal pubblico ministero è stata effettuata proprio per superare il dubbio su cui si era arrestata l’ordinanza di rigetto del GIP datata 15.6.2022 (quella emessa a seguito della prima richiesta cautelare), e cioè per valutare sia che gli infortuni si fossero effettivamente realizzati, sia la sussistenza di una sproporzione sul quantum risarcitorio erogato e, invece, dovuto.

D’altra parte, il quid navi necessario per avanzare nuovamente la richiesta di emissione della misura cautelare reale, non è tipizzato e nemmeno è imposto che la nuova richiesta sia fondata, in toto, su qualcosa di diverso dalla precedente essendo sufficiente, per evitare la preclusione processuale che il quadro indiziario non sia rimasto immutato.

Né, a ben guardare, può rilevare il fatto che la consulenza fosse stata affidata su episodi e fatti oggetto di capi di incolpazione diversi da quello che ha portato alla adozione del provvedimento nei confronti della società odierna ricorrente: è sufficiente rilevare che la società è chiamata a rispondere dell’illecito di cui al capo N) con riguardo al delitto di cui al capo M) ascritto ai soggetti apicali dell’ente, ovvero del delitto di associazione a delinquere finalizzato, per l’appunto proprio alla commissione di truffe attraverso lo schema operativo descritto in precedenza e reso possibile, quanto all’ente, dalla assenza di idonei modelli organizzativi.

2.2. Siffatto rilievo consente, allora, di vagliare il secondo motivo di ricorso che è, del pari, infondato: il Tribunale ha ritenuto condivisibile la tesi, già affermata dal GIP e, osserva il collegio, assolutamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui i vantaggi patrimoniali del reato associativo sono autonomi da quelli derivanti dai reati-fine la cui esecuzione è avvantaggiata proprio dalla esistenza di una stabile organizzazione con estensione della confiscabilità a tutti i vantaggi derivanti dalla creazione del sodalizio nella cui prospettiva esso è stato creato.

In via generale, infatti, va ribadito che, in tema di responsabilità da reato degli enti, il profitto del reato di associazione per delinquere commesso nell’interesse o vantaggio dell’ente stesso ai sensi dell’art. 24-ter, comma 2, del DLg.vo 8 giugno 2001, n. 231, confiscabile anche per equivalente ex art. 19, è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati-fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui effettiva realizzazione è agevolata dall’organizzazione criminale (cfr., Sez. 3 -, n. 8785 del 29/11/2019, Palmieri, Rv. 278256 – 02, in cui la Corte ha inteso precisare che, a prescindere dal fatto che i reati-fine producano di per sé vantaggi, ai fini della determinazione del profitto del reato associativo, occorre riferirsi al reato nel suo “complesso”, concentrandosi sull’associazione, la quale manifesta una capacità produttiva di profitto che oltrepassa quella del singolo reato-fine, con accresciuta potenzialità di vantaggio).

È altresì consolidato il principio secondo cui il profitto del reato di associazione a delinquere di cui all’art. 416 cod. pen. non consiste nel mero fatto di associarsi al fine della commissione di più delitti, di per sé improduttivo di ricchezze illecite, ma è il frutto della sommatoria dei profitti generati dai singoli reati (cfr., Sez. 6 – , n. 29960 del 06/07/2022, Piscitelli, Rv. 283881 –  02; Sez. 2, n. 6507 del 20/01/2015, Scoponi, Rv. 262782 – 01, secondo cui il delitto di associazione per delinquere può essere considerato in sé idoneo a generare profitto illecito – come tale suscettibile di confisca in via del tutto autonoma da quello conseguito dai reati-fine perpetrati in esecuzione del programma criminoso – con riferimento alle utilità percepite dagli associati per il contributo da essi prestato per assicurare il regolare funzionamento del sodalizio ritenendo immune da censure la decisione impugnata che aveva confermato il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme erogate alla società di persona indagata di partecipazione ad un’associazione per delinquere transazionale finalizzata alla consumazione di reati fiscali e di riciclaggio, per importi ulteriori e non coincidenti con quelli riferibili ai reati fiscali posti in essere; conf., ancora, Sez. 3, n. 44912 del 07/04/2016, Bernasconi, Rv. 268772 – 01).

Ebbene, posto che, nel caso di specie, l’importo attinto dal sequestro ha avuto ad oggetto somme distinte ed autonome rispetto a quelle conseguite dai singoli associati, la questione posta dalla difesa è quella della sua confiscabilità in quanto “profitto” del reato trattandosi, in particolare, degli emolumenti pacificamente spettanti all’ente a titolo di onorari e spese per la “gestione” delle pratiche assicurative, indipendentemente dai patti di quota lite e dalla presunta condotta truffaldina posta in essere in danno degli associati quanto alla entità dei risarcimenti a costoro spettanti.

In altri termini, la difesa – evocando la categoria dei “reati – in contratto”, assume che l’importo di cui si discute in questa sede, anche seguendo la impostazione della pubblica accusa in merito alla distrazione di gran parte dei risarcimenti destinati ai singoli assicurati, sarebbe stato comunque dovuto dalle compagnie assicurative e rappresenterebbe, in definitiva, una parte “lecita” del sinallagma contrattuale insuscettibile di essere qualificata in termini di profitto confiscabile.

La categoria dei reati “in contratto” è il frutto di una elaborazione giurisprudenziale maturata proprio in ambito di cautela reale dove, come nel caso di specie, può venire in rilievo la identificazione del “profitto” e, di conseguenza, dell’importo effettivamente suscettibile di essere attinto dalla misura cautelare finalizzata alla confisca: si è segnalato, infatti, che nei contratti ad esecuzione istantanea, il reato di truffa è integrato dagli artifici e raggiri che siano posti in essere al momento della trattativa e della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe prestato, mentre, nel caso di contratto stipulato senza alcun artificio o raggiro, l’attività decettiva commessa successivamente alla stipula e durante l’esecuzione – situazione propria di reato “in contratto” – è penalmente irrilevante, a meno che non determini, da parte della vittima, un’ulteriore attività giuridica che non sarebbe stata compiuta senza quella condotta decettiva (cfr., Sez. 2, n. 29853 del 23/06/2016, Prattichizzo, Rv. 268073 – 01; conf., tra le non massimate, Sez. 2, n. 26190 del 26.5.2023, Catullo; Sez. 2, n. 15929 del 25.3.2022, Di Carlo).

Tanto premesso, il Tribunale ha disatteso l’impostazione della difesa che, a suo avviso, sconta una lettura atomistica e parcellizzata della vicenda che pretende di distinguere tra proventi leciti e l’attività illecita globalmente intesa tenendo presente che i profitti ottenuti, ancorché leciti, risultavano in realtà integralmente direzionati allo scopo di alimentare l’attività illecita, dovendosi in ciò stesso individuare la relazione causale tra le condotte penalmente rilevanti addebitate e la contestata percezione, anche a beneficio della società, delle somme oggetto di sequestro.

In definitiva, in coerenza con la prospettazione accusatoria, e con motivazione che, anche alla luce dei limiti propri della sindacabilità dei provvedimenti cautelari reali, non può certamente ritenersi assente o meramente di stile, il Tribunale ha sostenuto che gli introiti acquisiti dalle società, a titolo di compensi, sono confiscabili in quanto gli stessi enti erano stati costituiti – dagli associati a delinquere – come strumentali ad incamerare i profitti della gestione delle pratiche assicurative alla cui gestione si erano avvicendate” … al solo fine di parcellizzare i profitto illeciti conseguiti e, al contempo, dissimulare, tramite una veste formale, la reale natura delle condotte truffaldine” (cfr., pag. 3 del provvedimento).

Il richiamo alla categoria dei reati “in contratto”, alla stregua della impostazione condivisa dal Tribunale, è stata ritenuta perciò impraticabile in quanto l’intera attività del sodalizio – con l’ausilio operativo delle società – era stata finalizzata a confezionare degli accordi, con i soggetti destinatari di indennizzi assicurativi, geneticamente illeciti perché sin dall’origine tendenti a nascondere la realtà degli importi effettivamente a costoro dovuti inducendoli a sottoscrivere patti di quota lite e, poi, a retrocedere gran parte di quanto loro accreditato, utilizzando, a tal fine, gli “schermi” societari.

In tal modo, non è dato distinguere, nelle singole negoziazioni, e – comunque, in ambito cautelare ed allo stato degli atti – una parte “lecita” rispetto all’ammontare dei profitti “illeciti” essi soli suscettibili di essere attinti dalla misura ablatoria.

3. Il rigetto del ricorso comporta la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 20.6.2023.

Depositato in Cancelleria presso la Seconda Sezione Penale, il 12 luglio 2023.

SENTENZA