REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. Vito Di Nicola – Presidente –
Dott. Giovanni Liberati – Consigliere –
Dott. Vittorio Pazienza – Consigliere –
Dott. Stefano Corbetta – Relatore –
Dott. Alessandro Maria Andronio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis), nato a (omissis) (omissis) il xx/x/19xx;
avverso la sentenza del 19/04/2024 della Corte di appello di Torino avverso l’ordinanza del 11/07/2024 del G.i.p. del Tribunale di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Stefano Corbetta;
letta la requisitoria redatta ai sensi dell’art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Marilia di Nardo, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Torino ha confermato la decisione emessa dal Tribunale di Cuneo e appellata dall’imputato, la quale aveva condannato (omissis) (omissis) alla pena ritenuta di giustizia per il delitto ex art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, a lui ascritto perché, nella qualità di socio con quote dell’80% di (omissis) (omissis) (omissis) s.n.c., al fine di evadere l’imposta sui redditi, nella dichiarazione Modello Unico persone fisiche 2013 per l’anno di imposta 2012, indicava un reddito imponibile di 176.827 euro, di cui 121.864 euro derivanti dalla quota di partecipazione, a fronte di un reddito di partecipazione effettivamente conseguito di 572.026 euro, evadendo l’imposta per 193.569 euro. Commesso il 10 gennaio 2014, data di presentazione della dichiarazione integrativa per l’anno di imposta 2012.
2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, per il ministero dei difensori di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, che deducono:
2.1. la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., per avere la Corte di appello erroneamente ritenuta valida – e quindi utilizzabile – l’attività di indagine effettuata in forza dell’autorizzazione all’uso dei dati acquisiti dalla Guardia di finanza, nonostante detta autorizzazione fosse limitata alla persona fisica di (omissis) (omissis) e non alla società di consulenza;
2.2. la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per non avere la Corte d’appello motivato in ordine all’utilizzo dei dati fiscali acquisiti nello svolgimento delle indagini;
2.3. la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. con riferimento all’affermazione della penale responsabilità, per non avere la Corte d’appello considerato che la tenuta della contabilità era affidata alla sig.ra Roberta Parola e per non aver descritto la condotta ascritta all’imputato;
2.4. la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per avere la Corte di merito illogicamente sostenuto che l’imputato non aveva fornito prova dei crediti vantati, ciò essendo smentito dalla produzione delle fatture pro forma non incassate e della deposizione del teste Giannotto, di talché la motivazione sarebbe illogica in relazione alla mancata dimostrazione dei mancati incassi, pari a 525.202 euro, e al superamento della soglia di punibilità;
2.5. la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., nella parte in cui la Corte di merito, in maniera illogica, ha escluso la rilevanza delle fatture pro forma in quanto i clienti ne avrebbero fatto utilizzo, non essendo stato effettuato alcun accertamento sui conti della società, da cui sarebbe emerso il mancato pagamento di dette fatture;
2.6. violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. con riferimento all’imputazione dei ricavi, posto che la verifica è stata posta in essere sull’errato presupposto che si trattasse di contabilità semplificata, essendo, invece, la società soggetta a contabilità ordinaria, ciò che ha determinato l’inattendibilità dell’accertamento;
2.7. violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per la mancata effettuazione di una consulenza econometrica, volta a verificare l’effettiva entità dei ricavi e dell’attivo conseguito dalla società di consulenza e, quindi, dall’imputato per la propria quota di partecipazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. I primi due motivi, esaminabili congiuntamente essendo collegati, sono inammissibili perché manifestamente infondati e perché generici.
2.1. Nel confrontarsi con il motivo, qui nuovamente riproposto, incentrato sulla asserita inutilizzabilità dell’attività di indagine effettuata in sede di verifica fiscale – sul presupposto che l’autorizzazione all’uso dei dati acquisiti dalla Guardia di finanza fosse limitata alla persona fisica di (omissis) (omissis) e non alla società di consulenza -, la Corte di merito ha espressamente indicato il principio, giusto il quale la mancanza o l’irregolarità formale dell’autorizzazione all’accesso domiciliare, di cui all’art. 52 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, pur potendo essere ritenuta causa di invalidità dell’accertamento fiscale, non riverbera i propri effetti sull’accertamento del fatto di reato, posto che all’accesso domiciliare, per la sua natura di attività amministrativa, non è applicabile la disciplina prevista dal codice di rito per le attività di polizia giudiziaria (Sez. 3, n. 14278 del 23/11/2022, dep. 2023, Gallo, Rv. 284363); dal che discende che eventuali irregolarità formali dell’autorizzazione all’accesso domiciliare nemmeno si ripercuotono sugli atti compiuti in sede di accertamento e sull’utilizzazione, nella sede processuale, dei dati da essi desumibili.
In ogni caso, si rammenta che gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compiute dalla Guardia di Finanza per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte dirette sono sempre utilizzabili quale notitia criminis, in quanto a tali attività non è applicabile la disciplina prevista dal codice di rito per l’operato della polizia giudiziaria, sicché la mancanza o l’irregolarità formale dell’autorizzazione, se è causa di invalidità dell’accertamento fiscale, non riverbera i suoi effetti sull’accertamento penale (Sez. 3, n. 6798 del 16/12/2015, dep. 2016, Arosio, Rv. 266135; Sez. 3, n. 12017 del 07/02/2007, Monni, Rv.235927).
2.2. Si rileva, infine, la genericità dei motivi, dovendosi rammentare che, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218; Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, De Matteis, Rv. 270303).
Orbene, il ricorrente avrebbe dovuto indicare, in maniera puntuale, non solo i dati acquisiti nel corso dell’accesso domiciliare ritenuti essere affetti da inutilizzabilità, ma soprattutto in che modo tale inutilizzabilità avrebbe inciso, disarticolandola, sulla tenuta logica della motivazione; il che non è avvenuto.
3. I restanti motivi – che, a vario titolo, contestano l’affermazione della penale responsabilità – sono inammissibili, perché, lungi dall’evidenziare profili di illogicità manifesta emergenti dal testo del provvedimento impugnato, pur formalmente denunciati, in realtà si risolvono in una critica alla valutazione delle prove operata dalla Corte di merito.
3.1. Richiamati i ben noti limiti del sindacato che compete alla Corte di cassazione, cui è preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260), la Corte di merito ha ritenuto irrilevante la circostanza che l’imputato non era preposto alla tenuta della contabilità, logicamente osservando che la contestazione si riferisce al contenuto della dichiarazione fiscale, ascrivibile al (omissis) in quanto unico socio, essendo stato appurato, nella vertenza innanzi al giudice del lavoro, che (omissis) (omissis) — asseritamente socia al 20% – rivestiva, invece, la posizione di lavoratrice subordinata.
3.2. Quanto, poi, alle modalità di accertamento, la Corte ha evidenziato un dato dirimente, ossia che le fatture non erano state emesse pro forma, posto che i clienti le avevano utilizzate, portando l’i.v.a. in detrazione (cfr. p. 12 della sentenza di primo grado); sulla scorta di tale circostanza, la Corte d’appello ha perciò ritenuto superflua la perizia in ordine alle modalità di imputazione – per cassa o per competenza – dei componenti di reddito, che, peraltro, l’ufficio verificatore ha appurato nell’ambito di un accertamento svoltosi con il contraddittorio del contribuente verificato.
La Corte di merito, inoltre, ha evidenziato che l’entità dell’imposta evasa è stata calcolata in modo diretto e non induttivo, ossia alla stregua delle fatture consegnate dall’imputato e del relativo riscontro fornito dai clienti.
4. Al cospetto di tale motivazione, che certamente non può dirsi manifestamente illogica, il ricorrente deduce censure di contenuto fattuale, dirette a propugnare una diversa e più favorevole ricostruzione della vicenda qui al vaglio, ciò che esula dal perimetro assegnato al sindacato di legittimità.
5. Essendo il ricorso inammissibile e ricorso e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 euro in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamentto delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 04/02/2025
Il Consigliere estensore Il Presidente
Stefano Corbetta Vito Di Nicola
Depositato in Cancelleria, oggi 5 marzo 2025.