REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Lucia ESPOSITO – Presidente
Dott. Gabriella MARCHESE – Consigliere
Dott. Daniela CALAFIORE – Consigliere – Rel.
Dott. Francesco BUFFA – Consigliere
Dott. Alfonsina DE FELICE – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11313/2018 R.G. proposto da:
(OMISSIS) TERESA, (OMISSIS) IMMACOLATA, (OMISSIS) FRANCESCO, (OMISSIS) GIUSEPPE, (OMISSIS) FABIO, (OMISSIS) FRANCESCA, (OMISSIS) MARINA, (OMISSIS) LUCIA, (OMISSIS) ANDREA, (OMISSIS) MARIO, (OMISSIS) VINCENZO, (OMISSIS) ENRICO, (OMISSIS) MARIO, (OMISSIS) GIUSEPPE, (OMISSIS) CINZIA, (OMISSIS) VINCENZO, (OMISSIS) MARIO, rappresentati e difesi dall’avvocato DOMENICO (OMISSIS) (__________________________ )
-ricorrente-
Contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, ope legis, dall’ AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (_________________________________ )
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI REGGIO CALABRIA n.799/2017 depositata i l 06/10/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/03/2023 dal Consigliere dott.ssa DANIELA CALAFIORE.
RILEVATO che:
La Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 799 del 2017, ha accolto l’impugnazione principale proposta dal Ministero dell’Interno e rigettato l’impugnazione incidentale proposta dagli eredi di Vincenzo (omissis), avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto in parte la domanda (inizialmente proposta dinanzi al TAR e poi riassunta dinanzi al giudice ordinario) degli stessi, tesa ad ottenere il riconoscimento del diritto alla fruizione dei benefici previsti dalle leggi n. 302 del 1990 e 407 del 1998, quali familiari superstiti di vittime della criminalità organizzata, in relazione all’omicidio di cui era rimasto vittima il loro congiunto;
il Tribunale aveva accolto solo i capi di domanda relativi alla speciale elargizione ex art. 4 l. n. 302 del 1990 ed all’assegno vitalizio ex art. 2 l. n. 407 del 1998, reputando i restanti capi generici;
la Corte territoriale, dopo aver rilevato l’infondatezza dell’appello incidentale proposto dagli eredi, ha esaminato l’eccezione di prescrizione reiterata dal Ministero dell’ Interno, obliterata dal Tribunale, e l’ha ritenuta compresa nella questione giuridica relativa alla rilevanza, nella fattispecie, del termine di decadenza originariamente previsto dalla legge n. 302 del 1990;
in particolare, ha affermato che, seppure il termine di decadenza di due anni dall’evento lesivo (previsto nella versione originaria dell’art. 6, comma 1, l. n. 302 del 1990) fosse stato soppresso dall’art. 1, comma 3, l. n. 407 del 1998 e poi ripristinato e ridotto a tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza dall’art. 23, comma 1, legge n. 44 del 1999, di ciò non potevano beneficiare i ricorrenti in ragione del fatto che l’art. 12 della legge del 1990 aveva fissato, per gli eventi criminosi accaduti dopo il 1° gennaio 1969, il dies a quo del termine dei due anni dalla data di entrata in vigore della stessa legge; il termine era quindi spirato già a decorrere del biennio dal 25 ottobre 1992 e non incideva su tale effetto ormai definitivo il mutamento legislativo successivo;
inoltre, con precipuo riferimento ai benefici di cui alla l. n. 407/1998 per i quali nessuna decadenza era prevista, la Corte territoriale ha dato atto che il primo giudice aveva accertato, attraverso l’istruttoria espletata, che era stata dimostrata la mafiosità del delitto e l’estraneità del familiare dei ricorrenti, pensionato incensurato, attinto da numerosi colpi di fucile e ritrovato cadavere il primo agosto 1984 in località (omissis) di (omissis), agli ambienti malavitosi;
il Tribunale si era basato sulla deposizione del maresciallo (omissis), effettivo al comando operativo della Compagnia dei Carabinieri di Taurianova, e sui riscontri costituiti dal possesso del porto d’armi e dall’ essere la vittima incensurata;
ad avviso della Corte d’appello, tuttavia l’accertamento del Tribunale non consentiva di affermare con certezza, ma solo in forma dubitativa, che la vittima fosse solo occasionalmente presente al momento del delitto; anzi, essendo poco credibile che sia l’omicidio del (omissis) che quello di tale (omissis), ucciso lo stesso giorno o al più il giorno dopo, fossero stati commessi con finalità intimidatorie, risultava plausibile immaginare che il (omissis) avesse in qualche modo dato causa al crimine, favorendo una cosca a danno di altra;
peraltro, quanto alla non estraneità ad ambienti malavitosi del (omissis), richiesta in modo rigoroso dall’art. 1 lett. b) l. n. 302 del 1990, l’acquisizione della documentazione offerta dal Ministero dell’Interno, necessaria per colmare lacune istruttorie, aveva dimostrato come a carico di stretti familiari del (omissis) fossero stati registrati seri precedenti penali; tali dati, a prescindere dalla non applicabilità ratione temporis delle previsioni dell’art. 2 quinquies d.l. n. 151 del 2008, erano significativi al fine di escludere la sussistenza del requisito richiesto dalla legge;
avverso tale sentenza, ricorrono per cassazione gli eredi di Vincenzo (omissis) indicati in epigrafe, nonché quelli di Celestina (omissis), originaria ricorrente deceduta nelle more del processo, sulla base di quattro motivi, illustrati da successiva memoria;
il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso;
chiamata la causa all’adunanza camerale del 23 marzo 2023, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art. 380 bis 1, secondo comma, c.p.c.);
Considerato che:
con il primo motivo di ricorso, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3 d.p.r. n. 510 del 1999 e la nullità della sentenza perché sarebbe stata ritenuta la decadenza dal diritto di cui alla l. n. 302 del 1990 in quanto spirato il 25 ottobre 1992, senza considerare che il detto termine, contenuto nella versione originaria dell’art. 6 della legge citata, era stato eliminato dall’art. 1, comma 3, della legge n. 407 del 1998 che aveva pure abrogato l’art. 12, comma secondo, della legge n. 302 del 1990 (riferito agli eventi lesivi già accaduti) per i quali il termine di decadenza iniziava a decorrere dalla data di entrata in vigore della medesima legge;
peraltro, neanche il successivo art. 23 della legge n. 44 del 1999, che aveva reintrodotto il termine di tre mesi dalla sentenza (ipotesi non ricorrente nella specie), entro il quale gli interessati devono presentare domanda e che era stato integrato dal d.P.R. 510 del 1999, aveva nuovamente previsto un generale termine di decadenza;
con il secondo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1,2,4,7 e 9 bis l. n. 302 del 1990 e la nullità della sentenza, trattandosi, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, di diritto soggettivo che non viene toccato dall’esito del procedimento amministrativo;
dunque, poiché le part i istanti avevano provato la finalità mafiosa del delitto e l’estraneità della vittima ad ambienti e rapporti delinquenziali, il diritto non poteva che essere riconosciuto;
è richiamato il principio espresso dalle pronunce di legittimità (Cass., S.U. n. 26626 del 2007 e n. 21927 del 2008) secondo cui “le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata sono titolari, in presenza delle condizioni di legge, di un vero e proprio diritto soggettivo all’erogazione della speciale elargizione prevista dalla L. 20 ottobre 1990, n. 302, essendo al riguardo la P.A. priva di ogni potestà discrezionale, sia con riguardo all’entità della somma che con riguardo ai presupposti per la derogabilità”, per affermare l’esistenza del diritto soggettivo degli attuali ricorrenti ai benefici in oggetto avendo essi dimostrato l’estraneità della vittima agli ambienti e ai rapporti delinquenziali;
con il terzo motivo, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e nullità della sentenza, in relazione al riconoscimento con formula dubitativa del fatto che la vittima non avesse dato causa al fatto criminoso, così disconoscendo il presupposto della finalità mafiosa del delitto;
si censura la valutazione operata dalla Corte territoriale sul contenuto delle testimonianze rese dal M.llo (omissis) e dal Luogotenente (omissis), dell’informativa di reato redatta in occasione del delitto, assumendosi che dagli stessi fossero desumibili elementi idonei a fornire la prova dell’assenza di legami del (omissis) e dei familiari attuali ricorrenti con ambienti della criminalità organizzata;
col quarto motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione della L. n. 302 del 1990, artt. 1, 4, 7 e 9 bis, della L. n. 407 del 1998, art. 2, e dell’art. 97 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3);
parte ricorrente critica la pronuncia d’appello nella parte in cui ha ritenuto dimostrato il legame della vittima e degli attuali ricorrenti con ambienti criminali in virtù del mero rapporto di parentela o affinità con persone pregiudicate, in tal modo richiedendo ai fini del beneficio una dissociazione dal contesto familiare non contemplata dall’ordinamento;
nel caso di specie era dimostrato che la vittima non appartenesse ad alcun sodalizio criminale e che non frequentasse parenti o affini pregiudicati e che il suo coinvolgimento nel fatto criminoso avesse avuto carattere “accidentale”;
gli ultimi tre motivi, in quanto connessi, vanno trattati congiuntamente e sono da rigettare;
in particolare, il secondo motivo è inammissibile in quanto denuncia la violazione di legge sul presupposto di una ricostruzione in fatto diversa da quella contenuta nella sentenza impugnata, cioè sull’assunto della estraneità della vittima agli ambienti e rapporti delinquenziali, ritenuta dai giudici di appello non dimostrata; questa Corte (cfr. Cass. n. 640 del 2019; n. 6035 del 2018; n. 23847 del 2017; n. 195 del 2016; n. 7394 del 2010; n. 18782 del 2005) ha definito i confini in cui si articola il giudizio di diritto che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 descrive attraverso le espressioni di violazione o falsa applicazione di legge;
ha chiarito che il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; mentre il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione;
ha parallelamente precisato che non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità; il motivo di ricorso in esame si colloca esattamente in quest’ultima ipotesi esemplificativa;
il terzo motivo è inammissibile in quanto investe la valutazione del materiale probatorio, che non è consentita in sede di legittimità se non nei ristretti limiti posti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come delineati dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014) ed incentrati sull’omesso esame di un fatto storico decisivo;
inoltre, va ricordato che questa Corte di legittimità ha avuto modo di precisare (Cass. n. 11340 del 2021) che la L. n. 302 del 1990 “Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata” ha previsto benefici economici e assistenziali anche in favore delle vittime della criminalità organizzata di stampo mafioso, estendendo ed ampliando quanto già riconosciuto alle vittime del terrorismo; in particolare, l’art. 4 cit. legge (Elargizione ai superstiti), al comma 1, contempla la erogazione di una somma di denaro una tantum ai componenti la famiglia di colui che perda la vita per effetto di lesioni riportate in conseguenza delle azioni ed operazioni di cui al precedente art. 1.
Tale elargizione è altresì corrisposta, ai sensi del comma 2, ai soggetti non parenti né affini, né legati da rapporto di coniugio, che risultino conviventi a carico della persona deceduta negli ultimi tre anni precedenti l’evento ed ai conviventi “more uxorio“; i presupposti della elargizione, come definiti attraverso il rinvio al precedente art. 1, consistono nel fatto:
– che le lesioni avvengano in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p.;
– che la vittima: non abbia concorso alla commissione del fatto delittuoso o di reati connessi;
– sia estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali (salvo che si dimostri l’accidentalità del suo coinvolgimento passivo nell’azione criminosa) ovvero risulti che al tempo dell’evento si era già dissociata o estraniata da questi ultimi, cui partecipava;
inoltre, ai sensi dell’art. 12, comma 1 Legge stessa, nel testo sostituito dalla L. 23 novembre 1998, n. 407, art. 3, il beneficio si applica retroattivamente alle vittime ed ai superstiti per gli eventi verificatisi successivamente alla data del 1° gennaio 1969;
l’elargizione in favore delle vittime o dei loro familiari superstiti presuppone dunque la prova della riconduzione dell’episodio criminoso tra i reati-scopo di un contesto associativo che faccia uso dei metodi di cui all’art. 416 bis c.p.;
correttamente, pertanto, il giudice del merito ha affermato che le modalità dell’omicidio, da sole, non sono idonee a dimostrare la matrice mafiosa, dovendo essere ricercato, altresì il collegamento del crimine con le finalità della associazione mafiosa e, dunque, verificato il contesto ambientale all’interno del quale il delitto è maturato ed è stato commesso;
la valutazione circa la carenza della prova nel caso concreto di tale collegamento è, invece, un giudizio di merito, censurabile in questa sede nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione;
i ricorrenti si limita no ad assumere genericamente la esistenza di idonei elementi di prova in tal senso senza tuttavia dedurre un vizio della motivazione, secondo il paradigma di cui al vigente art. 360 c.p.c., n. 5;
neppure il quarto motivo di ricorso può trovare accoglimento;
questa Corte ha sottolineato (sentenza n. 31136 del 2019), come “fin dalla originaria versione della citata L. n. 302 del 1990, sia per le vittime, sia per i loro familiari e i superstiti (come individuati), va considerata in modo rigoroso la necessaria presenza della condizione di “totale estraneità” alla criminalità organizzata, la quale infatti viene riferita in modo ampio ad ambienti (sociali e/o familiari) e rapporti (sociali e/o familiari) delinquenziali, salva la possibilità per l’interessato di provare l’accidentalità del proprio coinvolgimento nei suddetti ambiti o anche la propria dissociazione da essi”;
in base al tenore normativo, la condizione richiesta ai fini del beneficio in questione è quella di “totale estraneità” rispetto agli ambienti criminali, con una duplice eccezione che si basa sul presupposto di una forma di intraneità purché questa risulti, in via alternativa, caratterizzata da accidentalità del coinvolgimento passivo nell’azione criminosa lesiva oppure esistente in epoca anteriore all’evento e poi eliminata attraverso la dissociazione o l’estraniamento dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui in passato la vittima partecipava;
la Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi laddove, con accertamento in fatto non censurabile in questa sede, ha escluso che fosse dimostrato il requisito della “totale estraneità”, intesa come netta e volontaria lontananza e attiva dissociazione all’epoca dell’evento dagli ambienti criminali, e ciò sul rilievo che il (omissis) non avesse eliminato i rapporti con familiari e affini (alcuni dei quali attuali ricorrenti) a loro volta legati a persone pregiudicate e ad ambienti criminali (ad esempio con la figlia Immacolata condannata per truffa tentata, il cui marito era stato condannato per bancarotta;
con la cognata, il cui marito era gravato da vicende per vari reati, tra cui un tentato omicidio ed altra cognata, pure sposata con persona condannata anche per associazione di tipo mafioso), e non avesse manifestato una chiara dissociazione da essi;
ove anche si assuma che il (omissis) potesse essere stato vittima di una vendetta trasversale, e che ciò integrasse il requisito del coinvolgimento passivo accidentale, resta il fatto che all’epoca dell’evento risultasse avere rapporti mai recisi con familiari e affini legati ad ambienti criminali, elemento correttamente ritenuto dalla Corte d’appello incompatibile col rigoroso requisito della estraneità che il legislatore ha voluto “totale”;
la questione oggetto del primo motivo, dovendosi rilevare che attinge ad un aspetto solo parziale della pronuncia, alla luce di quanto sopra esposto in ordine all’assenza dei presupposti costitutivi dei diritti invocati, resta assorbita;
in definitiva, il ricorso deve essere rigettato;
le spese seguono la soccombenza nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 23/03/2023.
Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2023.