REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. Michele CATALDI – Consigliere –
Dott. Alberto CRIVELLI – Consigliere –
Dott. Federico LUME – Consigliere –
Dott. Rosanna ANGARANO – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 16247/2019 R.G. proposto da:
(OMISSIS) S.R.L. e (OMISSIS) S.R.L., domiciliate in (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore, pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende,
– controricorrente –
avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. ABRUZZO n. 1083/2018, depositata il 15 novembre 2018;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16 marzo 2023, ex art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, dal Consigliere dott.ssa Rosanna Angarano;
dato atto che il Sostituto Procuratore generale, dott.ssa Paola Filippi, ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l. -succedute, per una quota del 50 per cento ciascuna, all (OMISSIS) in seguito a scissione totale di quest’ultima ricorrono, con tre motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello della loro dante causa avverso la sentenza con la quale la C.t.p. di Pescara aveva, a propria volta, rigettato il ricorso avverso il silenzio rifiuto formatosi su un’istanza di rimborso del 30 marzo 2012 della maggiore ires versata.
2. La (OMISSIS) (OMISSIS) società di diritto lussemburghese, deteneva una quota del 90 per cento (ridottasi nell’esercizio 2010 al 60 per cento) della società italiana (OMISSIS) s.p.a. in ragione della quale aveva percepito, negli anni 2002, 2004 e 2005, dividendi, rispettivamente per euro 1.488.650,00, 988.650,00, 990.580,00. Su questi ultimi, su propria espressa richiesta – ritenuti sussistenti tutti i requisiti previsti dall’art. 27-bis, primo comma, lett. a), b), c) e d) d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e della direttiva, c.d. «madre-figlia», n. 90/435/CEE, successivamente trasfusa nella direttiva n. 2011/96/UE la società partecipata aveva applicato il regime comunitario di esenzione dalla ritenuta dovuta, sui dividendi in uscita, secondo il regime fiscale
Successivamente, la (OMISSIS) poiché l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto insufficiente la documentazione esibita per beneficiare dell’esenzione, aveva definito la contestazione versando la ritenuta sui dividendi e comunicando alla partecipante che le relative somme sarebbero state recuperate mediante compensazione con quanto dovuto in ragione delle successive distribuzioni di utili. Per l’effetto, la (OMISSIS) international avanzava al Fisco italiano istanza di rimborso della complessiva somma di euro 1.081.295,46 cui l’Ufficio non dava riscontro, formandosi il silenzio-rifiuto.
3. Avverso detto ultimo ricorreva la dante causa delle odierne ricorrenti, lamentando sia l’applicabilità dell’art. 27-bis P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e l’indebita ritenuta sui dividendi erogati, sia l’illegittima applicazione di quest’ultima nella misura del 27 per cento, atteso il regime meno oneroso previsto dall’art. 27, comma 3-ter, d.P.R. cit. e dalla Convenzione Italia-Lussemburgo contro le doppie imposizioni.
4.La C.t.p. rigettava il ricorso. Sosteneva che l’istante non aveva dimostrato la sussistenza dei requisiti richiesti né l’imposizione realmente subita in quanto le certificazioni prodotte erano posteriori alla data di pagamento dei dividendi e, comunque, generiche. Aggiungeva che per l’anno 2002 non era stato nemmeno provato il possesso ininterrotto delle partecipazioni da un anno rispetto alla data di pagamento dei dividendi né che questi ultimi fossero stati soggetti ad imposta.
5.La C.t.r. rigettava l’appello frapposto dalla (OMISSIS) (OMISSIS).
Premetteva che, trattandosi di istanza di rimborso, l’onere di provare la sussistenza di tutti i presupposti gravava sulla contribuente.
Di seguito, quanto alla richiesta principale di rimborso delle ritenute ex art. 27-bis d.P.R. cit., riteneva che la documentazione prodotta non fosse idonea a provare, in concreto, l’imposizione subita sui dividendi percepiti in quanto i certificati allegati attestavano «in maniera generica ed astratta» che la predetta società era assoggettata a tassazione in Lussemburgo senza beneficiare di vantaggi fiscali particolari; che in essi, tuttavia, non vi era alcun «riferimento specifico» all’avvenuta tassazione, in Lussemburgo e in via definitiva, sugli utili conseguiti. Aggiungeva che, per l’effetto, risultava superato il motivo di appello relativo, in particolare, ai dividendi del 2002.
Quanto alla domanda di applicazione della minor ritenuta d’imposta, nella misura dell’1,375 per cento di cui all’art. 27, comma 3-ter d.P.R. cit., assumeva che l’insussistenza delle condizioni per poter usufruire del rimborso ex art. 27-bis d.P.R. cit., rendeva infondata la richiesta di applicazione di un’aliquota inferiore.
Quanto alla richiesta di applicazione dell’aliquota del 15 per cento prevista dalla Convenzione Italia-Lussemburgo affermava che dovevano trovare applicazione i principi fissati dalla Corte di Cassazione con riferimento all’analoga Convenzione Italia-Francia e che, poiché la società madre godeva dell’esenzione dei dividendi in entrata, il credito di imposta non era in linea con l’obiettivo di neutralizzare la doppia imposizione. Aggiungeva che, escluso il rischio di doppia imposizione e la conseguente applicabilità della norma convenzionale, la tassabilità dei dividendi al 15 per cento restava esclusa anche dalla mancanza di prova della qualità di beneficiario effettivo dei dividendi stessi in quanto l’istante era società controllata indirettamente dalla (OMISSIS) (a mezzo della (OMISSIS) s.p.a.) con sede nelle (OMISSIS).
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Le due società ricorrenti censurano la sentenza impugnata con tre motivi.
1.1. Con il primo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, 4, 5, 6, Direttiva 23 luglio 1990, 90/435/CE, dell’art. 27-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, degli artt. 49 (ex 53) e 63 (ex 56) T.F.U.E., dell’art. 117 Cost.
Il motivo censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto inidonea la documentazione prodotta a provare il diritto al rimborso ex art. 27-bis d.P.R. n. 600 del 1973 e, in particolare, a provare il requisito di cui alla lett. c) del primo comma, sul presupposto che occorresse l’attestazione di un prelievo operato sulla somma percepita a titolo di dividendo.
1.2. Con il secondo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 27, comma 3-ter, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, degli artt. 49 (ex 53) e 63 (ex 56) T.F.U.E., dell’art. 117 Cost.
Le ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso il diritto al rimborso dell’imposta in misura pari alla differenza tra quella corrisposta secondo l’aliquota del 27 per cento e quella prevista dall’art. 27, comma 3-ter, d.PR. n. 600 del 1973 per le società con sede in Stati membri dell’UE o aderenti all’accorso SEE.
In particolare, deducono che la C.t.r. ha errato nel ritenere infondata la richiesta di un’aliquota inferiore stante l’insussistenza delle condizioni pe usufruire del rimborso di cui all’art. 27-bis d.P.R. cit. per le ragioni già espresse con il primo motivo; che l’interpretazione resa dalla C.t.r. dell’art. 27, comma 3-ter, d.P.R. cit. è in violazione del principio della libertà di stabilimento di cui all’art. 49 (ex 53) T.F.U.E.; che la C.t.r. ha errato, pure, nell’affermare che, mancando i presupposti del rimborso integrale di cui all’art. 27-bis d.P.R. cit., non vi era nemmeno il diritto al rimborso parziale di cui all’art. 27, comma 3-ter, d.P.R. cit.
1.3. Con il terzo motivo le ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, 2, 4, 10, Convenzione Italia-Lussemburgo 14 agosto 1982, ratificata dalla legge 14 agosto 1982, n. 747, dell’art. 117 Cost.
Con detto motivo le ricorrenti muovono due censure.
In primo luogo, criticano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso il diritto al rimborso della differenza tra la ritenuta del 27 per cento applicata e quella prevista dalla Convenzione Italia- Lussemburgo affermando che in ragione dell’opzione della società madre per il riconoscimento del credito di imposta questa non possa beneficiare anche del rimborso della ritenuta sui dividendi ex art. 27- bis.
In secondo luogo, criticano la sentenza impugnata per aver ritenuto carente la prova che la contribuente fosse la beneficiaria effettiva dei dividendi.
2. La seconda censura di cui al terzo motivo è infondata e, poiché la motivazione resa sul punto dalla C.t.r. è, da sola, idonea a sorreggere il rigetto della domanda di rimborso, restano assorbite tutte le ulteriori censure di cui al ricorso.
3. Le ricorrenti, oltre a far valere l’indebito assoggettamento a ritenuta dei dividendi erogati, in ragione della direttiva madre-figlia e dell’art. 27-bis P.R. n. 600 del 1973, chiedendone l’integrale restituzione, hanno dedotto l’illegittima applicazione dell’aliquota del 27 per cento su detti ultimi ed hanno invocato il regime di tassazione più favorevole previsto dall’art. 27, comma 3-ter, d.P.R. n. 600 del 1973 o dalla Convenzione Italia-Lussemburgo.
4. Al fine del corretto inquadramento della questione, con riferimento ad entrambe le pretese, va chiarito il quadro normativo in cui esse si innestano.
4.1. Quanto al rapporto tra l’art. 27 P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 10 della Convenzione Italia-Lussemburgo, – di cui la C.t.r fa trattazione separata – va evidenziato che si tratta della medesima questione. La disposizione contenuta nella Convenzione (come quelle analoghe previste in altre convenzioni, conformi al Modello OCSE) non introduce una specifica ed autonoma disciplina prevalente su quella statale, ma si innesta sulla disposizione di legge nazionale, per porre un limite massimo all’aliquota della ritenuta alla fonte applicabile in virtù’ di una norma interna. I presupposti oggettivi e soggettivi di applicazione della ritenuta sui dividendi, però, si rinvengono esclusivamente nella norma interna, di cui all’art. 27, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973 (Cass. 16/02/2022, n.5152).
4.2. Quanto, invece, al rapporto tra l’esenzione di cui all’art. 27-bis d.P.R. n. 600 del 1973, ed il regime di tassazione di cui all’art. 27 d.P.R. cit., la Corte ha chiarito che, se i beneficiari UE dei dividendi non possiedono i requisiti di cui all’art. 27-bis del d.P.R. 600/1973, trova applicazione il regime ordinario e la misura della ritenuta ridotta (Cass. 16/02/2022, n. 5152).
Si è precisato sul punto che le direttive c.d. madre-figlia (1990/435/CEE e 2011/96/UE) coesistono con le convenzioni bilaterali su modello OCSE stipulate fra i diversi Stati comunitari, cooperando, con diverse modalità, al medesimo obbiettivo fondamentale, cioè quello di evitare un trattamento fiscale nei confronti di operatori internazionali che sia deteriore rispetto a quello riservato ad analoghi operatori nazionali. In questo si concreta l’effettività del diritto allo stabilimento, al libero scambio ed al leale confronto concorrenziale. Il regime previsto dalla direttiva e quello previsto dalla convenzione bilaterale (che una volta ratificata diviene diritto nazionale) non costituiscono un’alternativa assoluta, ben potendo sussistere margini in cui l’operatività dell’una richiede o consente i vantaggi dell’altra, secondo un accertamento di fatto da svolgersi caso per caso (Cass. 25/01/2023, n. 2355).
Il sistema convenzionale bilaterale e quello della Direttiva delineano una disciplina complementare e multilivello volta a prevenire, la prima, sul piano internazionale, attraverso la disciplina pattizia, la doppia imposizione giuridica – cioè la sottoposizione di uno stesso soggetto in Stati diversi sulla base dello stesso presupposto giuridico, ciò sia in relazione alle imposte sul reddito, sia a quelle sul patrimonio – l’altra, giusta il succitato art. 2 par. 1, lett. c), la doppia imposizione economica quanto alle imposte sul reddito delle persone giuridiche, restando necessario comunque che l’eliminazione o attenuazione della doppia imposizione non determini l’effetto contrario rappresentato da una duplice non imposizione (Cass. 10/10/2021, n. 25490).
5. L’indagine deve, pertanto, spostarsi sulla rilevanza del requisito c.d. del «beneficiario effettivo» – la cui sussistenza è stata esclusa dalla C.t.r. – nel sistema normativo sopra individuato.
5.1. Il requisito del beneficiario effettivo è immanente all’ordinamento internazionale in materia fiscale.
Il medesimo è stato introdotto attraverso la modifica, risalente al 1977, degli artt. 10, 11 e 12 del Modello OCSE rispettivamente in materia di dividendi interessi e royalties ed ha, come è noto, lo scopo di evitare il c.d. treaty shopping, intendendo con tale espressione riferirsi a quelle partiche che si caratterizzano per l’uso indebito dei benefici derivanti dalle Convenzioni a favore di soggetti che non avrebbero titolo per usufruirne. L’introduzione della detta clausola, per quanto rileva in questa sede, nell’art. 10 del Modello OCSE, consente, pertanto, di limitare la potestà impositiva dello Stato della fonte (nel caso di specie l’Italia) solo laddove il vero percettore dei dividendi (beneficiario effettivo) abbia sede nell’altro Stato contraente.
La Convenzione Italia-Lussemburgo invocata dai ricorrenti recepisce, anch’essa, l’art. 10 del Modello OCSE.
La clausola del beneficiario effettivo si può, quindi, qualificare come una clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale, volta ad impedire che f soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping con lo scopo di far godere della protezione convenzionale contribuenti che, altrimenti, non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subito un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole (Cass. 10/07/2020, n. 14756).
5.2. Sebbene il Modello OCSE e le Convenzioni internazionali non contengano una definizione di beneficiario effettivo, quest’ultima è stata delineata dalla giurisprudenza.
Questa Corte, in una recente pronuncia, ha già chiarito che l’indagine volta a verificare la qualità di beneficiario effettivo si articola in tre test, autonomi e disgiunti, come denominati dalla dottrina, la quale ha razionalizzato i princìpi cardine enunciati dalla giurisprudenza, comunitaria e di legittimità, e dalle Corti anglosassoni e mitteleuropee:
(i) il substantive business activity test;
(ii) il dominion test;
(iii) il business purpose test (Cass. 28/02/2023, n. 6005).
Il substantive business activity test mira a verificare se la società interposta sia o meno una costruzione artificiosa, in quanto, per i princìpi generali del diritto dell’Unione europea, gli Stati membri non possono avvalersi in maniera fraudolenta e abusiva delle norme di diritto eurounitario.
Con il dominion test – che è il centro dell’indagine e, prescindendo da costruzioni artificiose, punta al cuore del significato economico dell’operazione (substantial economic effect) – si valuta la capacità della società di disporre liberamente degli interessi percepiti, se cioè essa sia o meno il beneficiario effettivo. Il «dominio» degli interessi ricevuti si ha quando la percipiente ne può disporre liberamente e non è tenuta a rimettere il flusso reddituale a un terzo (che può essere anche una società appartenente allo stesso gruppo multinazionale).
L’obbligazione restitutoria può risultare da un contratto o può essere desunta da elementi fattuali, quali, a titolo di esempio: il ristretto arco di tempo tra la ricezione degli interessi e il pagamento della rata del finanziamento ricevuto; la regolarità dei trasferimenti alla controllante; l’esiguità del margine di guadagno sugli interessi ricevuti; l’identità del management della società interposta e di quella destinataria finale del flusso reddituale; la circostanza che la società interposta non abbia deliberato il finanziamento, che non ne sopporti il rischio, o, ancora, che non possa rinunciare alle somme prestate (in termini, Cass. 09/12/2018 nn. 32840 e 32842 in materia di royalties; Cass. 13/09/2022 n. 26920 in materia di dividendi).
Il business purpose test indaga sulle ragioni della deviazione del flusso reddituale, onde appurare se la «triangolazione» sia finalizzata soltanto al risparmio fiscale o se invece risponda ad altre motivazioni economiche.
5.3. Il concetto di beneficiario effettivo è stato successivamente recepito nell’ordinamento unionale.
In realtà, la clausola specifica è contemplata nella sola Direttiva 2003/49/CE, in materia di interessi e royalties (c.d. IRD) e non anche nella Direttiva 90/435/CEE, poi trasfusa nella Direttiva 2011/96/UE, in materia di dividendi (c.d. madre-figlia o PSD).
Ciò si spiega in quanto l’obiettivo della direttiva madre-figlia è che l’utile della società partecipata sia tassato una sola volta presso di essa e che, di conseguenza, i dividendi distribuiti siano esenti, tanto dalla ritenuta in uscita nel Paese della fonte – ovvero quello in cui ha sede la società figlia che li distribuisce – quanto da imposizione in entrata nel Paese ove ha sede la società madre che li percepisce. In questa prospettiva, la dottrina ha osservato che è irrilevante, sul piano tecnico, che il percettore integri lo status di beneficiario effettivo del flusso (soprattutto nella sua accezione originaria di soggetto cui è imputato, sul piano giuridico-formale, il reddito).
Per altro, i dividendi, a differenza degli interessi e dei canoni, non costituiscono oneri deducibili per la società erogante; pertanto, non si rende necessario individuare un beneficiario effettivo assoggettato ad imposta. Ciò spiega perché a quest’ultimo fa, invece, riferimento, la Direttiva IRD.
5.4. Nonostante la mancanza di uno specifico richiamo al requisito in parola, per effetto della modifica apportata dalla Direttiva 2104/86/UE dell’8 luglio 2014 nella PSD è stata inserita una clausola generale antiabuso mirata a scongiurare ogni pratica L’art. 1 prevede che gli Stati membri non applicano i benefici della direttiva stessa a una costruzione (o a una serie di costruzioni) che, essendo stata posta in essere allo scopo principale di ottenere un vantaggio fiscale in contrasto con l’oggetto o la finalità della direttiva stessa, non può ritenersi genuina. Aggiunge che una costruzione è considerata non genuina nella misura in cui non è stata posta in essere per valide ragioni commerciali che riflettono la realtà economica. Precisa, inoltre, che la Direttiva non pregiudica l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare l’evasione fiscale, la frode fiscale o l’abuso.
E’ pacifico, pertanto, sia in ragione di detta specifica clausola, sia in ragione dei principi immanenti nel diritto unionale che la Direttiva madre-figlia non può prestarsi a fini abusivi, come accadrebbe laddove fosse utilizzata a beneficio di soggetti non aventi sede nell’Unione o, più in generale, non aventi le caratteristiche contemplate dalla Direttiva stessa.
5.5. In ordine alla portata del requisito del beneficiario effettivo nella normativa unionale in tema di dividendi vanno richiamate le sentenze della Corte di Giustizia UE del 26 febbraio 2009, conosciute come le sentenze Tra queste, infatti, quella resa nelle cause riunite C-116/16 e C-117/16, riguarda specificamente la Direttiva madre-figlia.
In questa pronuncia, la Corte ha utilizzato in modo esplicito il concetto del beneficiario effettivo all’interno della fattispecie dell’abuso del diritto; ha precisato, infatti, che – anche in mancanza di disposizioni antiabuso di diritto nazionale o convenzionale – non può impedirsi alle autorità e ai giudici nazionali di negare i benefici di una direttiva in caso di frodi o abusi in quanto il divieto delle pratiche abusive è un principio generale del diritto dell’Unione che trova applicazione indipendentemente dal fatto che i diritti ed i vantaggi oggetto dell’abuso trovino il loro fondamento nei trattati, in un regolamento o in una direttiva.
La Corte ha aggiunto che le autorità e i giudici nazionali sono tenuti a negare il beneficio dei diritti previsti dalla Direttiva 90/435 qualora siano invocati fraudolentemente o abusivamente. Ha concluso, pertanto, affermando che il principio generale, secondo cui i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione, dev’essere interpretato nel senso che, a fronte di pratiche fraudolente o abusive, le autorità ed i giudici nazionali devono negare al contribuente il beneficio dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti da una controllata alla propria società madre, di cui all’articolo 5 della Direttiva medesima, anche in assenza di disposizioni del diritto nazionale o convenzionali che ne prevedano il diniego.
La Corte di giustizia, nelle sentenze citate, si è anche fatta carico di indicare una serie di indizi dai quali presumere la sussistenza di un abuso.
Ha affermato che può essere considerata costruzione artificiosa quella posta in essere per motivi privi di sostanza economica e caratterizzati da una struttura puramente formale volta al conseguimento di un vantaggio fiscale e che ciò si verifica, in particolare, quando, grazie ad un’entità interposta, viene evitato il versamento di imposte sui dividendi. Ha precisato che costituisce indizio dell’esistenza di una tale costruzione il fatto che i dividendi vengano ritrasferiti, integralmente o quasi, ed entro un lasso di tempo molto breve, ad entità non rispondenti ai requisiti d’applicazione della Direttiva.
Ha aggiunto che non rispondono ai requisiti d’applicazione della Direttiva entità con residenza fiscale situata al di fuori dell’Unione; che, parimenti, la natura artificiosa può risultare dalla circostanza che il gruppo societario sia strutturato in modo tale che la società percettrice dei dividendi debba ritrasferirli ad una terza società, non rispondente ai requisiti d’applicazione della Direttiva, con la conseguenza che essa realizza unicamente un utile imponibile insignificante, agendo da società interposta al fine di consentire il flusso finanziario dalla società debitrice verso l’entità effettiva beneficiaria delle somme versate; che la circostanza che una società agisca come società interposta può essere accertata quando l’unica attività della medesima sia costituita dal percepimento dei dividendi e dal loro successivo trasferimento al beneficiario effettivo o ad altre società interposte.
Secondo la Corte di giustizia l’assenza di un’effettiva attività economica dev’essere dedotta da un’analisi complessiva relativa alla gestione della società, al suo bilancio d’esercizio, alla struttura dei suoi costi ed ai costi realmente sostenuti, al personale impiegato nonché ai locali ad alle attrezzature di cui dispone.
Ancora, secondo la Corte, possono costituire indizio di una costruzione artificiosa la sussistenza di contratti tra le società interessate generatori di flussi finanziari infragruppo; le modalità di finanziamento delle operazioni; la valutazione dei fondi propri delle società intermediarie; l’assenza, nelle società interposte, del potere di disporre economicamente dei dividendi percepiti. A tal riguardo, sono idonei a costituire indizi di tal genere, non solo obblighi contrattuali o legali, per la società madre percettrice dei dividendi, di ritrasferirli a terzi, ma anche il fatto che la società medesima, pur in assenza di un obbligo contrattuale o legale di tal genere, non disponga del diritto di utilizzare detti dividendi e di goderne.
La Corte, infine, ha precisato che tali indizi possono esser avvalorati da coincidenze o da contiguità temporali.
Concludendo, può affermarsi che nella giurisprudenza unionale, laddove si controverta in merito alla legittima fruizione dei benefici della Direttiva madre-figlia, una volta affermato che il divieto di abuso del diritto è un principio generale immanente, non è necessario importare dalle convenzioni o dalla Direttiva Interessi-Royalties la clausola del beneficiario effettivo in funzione antielusiva.
5.6. L’ordinamento interno è in linea con quanto previsto a livello unionale.
L’art. 27-bis, comma 5, d.P.R. n. 600 del 1973, prevedeva, nella sua formulazione vigente fino al 1° gennaio 2016, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, una speciale clausola anti-uso, secondo cui l’esenzione da ritenuta sui dividendi distribuiti da società «figlie» a società «madri» comunitarie, controllate a loro volta da società extra UE, era subordinata alla condizione che tale ultima società (extra-UE) dimostrasse di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame.
L’onere della prova, pertanto, era posto a carico del contribuente e la norma escludeva automaticamente l’esenzione da ritenuta laddove i dividendi distribuiti fossero andati a beneficio di una società madre comunitaria controllata da soggetti residenti in Paesi extra UE.
L’art. 27-bis, comma 5, cit. è stato successivamente sostituito dall’art. 26, comma 2, lett. b) legge 7 luglio 2016 n.122 (legge europea 2015 – 2016) con un mero rinvio alla disposizione antielusiva generale di cui all’art. 10-bis legge 27 luglio 2000, n. 212. Detta ultima noma, quindi, è da intendersi, all’attualità, quale univoco riferimento normativo per disconoscere l’esenzione della ritenuta su dividendi distribuiti a società figlie UE.
Va precisato, infatti, che l’art. 26 legge n. 122 del 2016 reca le disposizioni di attuazione della direttiva 2014/86/UE, e della direttiva 2015/121/UE, concernenti il regime fiscale comune, che, a propria volta, hanno modificato la direttiva 2011/96/UE.
5.7. La normativa interna di recepimento della disciplina unionale va letta alla luce dei chiarimenti resi dalla Corte di giustizia con le già citate sentenze danesi e, in particolare, con quella in tema di dividendi madre-figlia. Di conseguenza, il requisito, così detto, del beneficiario effettivo mantiene la sua rilevanza nell’applicazione della disciplina più favorevole, se pure come elemento di una più ampia fattispecie elusiva.
Pertanto, può affermarsi il seguenti principio di diritto:
«In tema di dividendi madre-figlia, in ragione del disposto di cui all’art. 27-bis, comma 5, d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 – sia nella versione precedente alle modifiche di cui all’art. 26, comma 2, lett. b) legge 7 luglio 2016, n. 122 sia nella versione successiva – la circostanza che il soggetto che reclama i benefici ivi previsti non ne sia «beneficiario effettivo» è elemento da valutarsi per la ricostruzione della fattispecie in termini di pratica elusiva, quale segnale di una struttura posta in essere in maniera formale ed artificiosa per usufruire indebitamente dei benefici riservati alle società con sede nell’Unione».
5.8. Tornando alla fattispecie in esame – che si colloca temporalmente prima della modifica dell’art. 27 bis P.R. n. 600 del 1973 operanti a decorrere dall’anno di imposta 2016 – va evidenziato ulteriormente che il requisito in parola rientrava tra gli elementi costitutivi il cui onere probatorio era a carico del contribuente.
La disposizione, infatti, prevedeva espressamente che i benefici si applicassero alle società di cui al comma 1, controllate direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in Stati della Comunità europea, a condizione che dimostrassero di non detenere la partecipazione allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in esame.
5.9. Ciò posto, la C.t.r. ha escluso la sussistenza in capo alla dante causa delle ricorrenti della qualità di beneficiario effettivo dei dividendi con motivazione che, diversamente da quanto sostenuto con il terzo motivo di ricorso, non si è limitata ad evidenziare il solo meccanismo delle partecipazioni a cascata e che, al contrario, è in linea con i principi sopra espressi.
La C.t.r. ha evidenziato che la società percipiente (società madre) era controllata per il 99,97 per cento da società, a propria volta, controllata per il 99,97 per cento da altra società con sede nelle (OMISSIS) (OMISSIS) che la società madre aveva come unica attività la gestione della partecipazione della partecipata (omissis) società figlia) e non aveva dipendenti; che la quota di partecipazione nella società italiana era stata acquisita due mesi dopo la costituzione; che la società percipiente e la sua controllante erano state costituite pressoché contestualmente, ovvero a distanza di un giorno.
5.10. Detta motivazione, se pure afferma che la società ricorrente non aveva dato la prova di essere il beneficiario effettivo dei dividendi, dà conto, in termini positivi, della sussistenza di una costruzione artificiosa secondo i parametri indicati dalla Corte di giustizia nelle sentenze danesi; la C.t.r., infatti, ha esposto in termini positivi più d’uno degli elementi sintomatici idonei a ritenere che la società lussemburghese fosse stata costituita in assenza di sostanza economica ed al solo fine di poter percepire utili destinati, in realtà, ad altra società non avente titolo per beneficiare del regime favorevole dell’ordinamento unionale.
5.11. La motivazione, inoltre, proprio perché ricostruisce, in maniera congrua, una fattispecie elusiva, è idonea a sorreggere la statuizione finale di rigetto dell’istanza avverso il diniego di rimborso con riferimento a tutti i profili invocati dalla ricorrente, ovvero sia il regime convenzionale, che contempla espressamente tra i suoi requisiti quello del beneficiario effettivo, sia quello unionale che, invece, fa riferimento più in generale al divieto di pratiche elusive.
6. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
7. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido tra loro, a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, in solido tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, 16 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria l’8 giugno 2023.